Uno dei tratti più difficili ma più affascinanti del Vangelo è quello del paesaggio della Terrasanta di Gesù, che s'intravede attraverso le parole degli evangelisti. Certo, non è facile farsene un'idea precisa: da allora a ora, il panorama e il clima, la flora e la fauna, hanno subito mutamenti di vario tipo; inoltre, le difficoltà inerenti ai processi di traduzione (essenzialmente quelli dall'aramaico al greco, che interessano quel Vangelo di Matteo dal quale in una certa misura dipendono sia quello di Marco, sia più indirettamente quello di Luca) possono spesso indurci in errore. Così è per la senapa, o senape, della quale tratta Matteo e alla quale Gesù avvicina il regno dei cieli.
Un tempo, nelle scuole – ma c’è chi lo fa ancora –, quando si trattava d'insegnare Dante, i professori parlavano dell'esegesi tradizionale delle Scritture, e dei loro «quattro sensi»: il letterale, il morale, l'allegorico, l'anagogico. Era un ottimo esercizio per allenarsi a leggere con attenzione, utile non soltanto per la Bibbia. E Gesù faceva spesso lezioni di questo genere.
Il campo e il tesoro nascosto. Quanti ricordi d'infanzia fanno affiorare queste immagini? La storia di Pinocchio e del «campo dei miracoli» dove si seminano zecchini, anzitutto; e poi L'isola del tesoro di Stevenson; o magari - ed è quel che più da vicino ricorda a me, quel che sempre mi è rimasto più profondamente impresso - la storia di quello sciocco contadino che aveva sepolto tutto il suo avere in un campo, ma fu visto da un altro che glielo rubò. Disperato, andava lamentandosi e piangendo; finché un suo conoscente lo apostrofò: «Ma perché ti lamenti tanto? Sotterra nel campo una pietra, e fingi che sia il tuo tesoro, sempre lì, intatto; per quel che ti serviva, sarà esattamente la stessa cosa». Che poi ricorda molto da vicino la parabola dei talenti, e del servo che aveva nascosto suo invece di farlo fruttare. Ma l'uomo che trova il tesoro, nella parabola di Gesù, è pieno di gioia: lo nasconde di nuovo, quindi vende tutti i suoi averi, compra il campo e si gode il frutto della sua fortuna e della sua cautela. Sovente Gesù dà consigli come questi; sovente il linguaggio è quello di chi rivolge a gente un po' ruvida, furba, che conosce le durezze della vita, non si fa troppe illusioni, non si lascia scappare l'occasione. Che cosa si fa se si trova un tesoro? Lo si rinasconde, quindi si trova il sistema di appropriarcene legalmente. Niente disonestà, ma nemmeno leggerezza.
A ben comprendere questa parabola bisogna por mente a due problemi. Come trova il tesoro, il fortunato che poi se ne approprierà comprando il campo e rischiando su di esso tutti i suoi averi? E chi ce l'aveva nascosto proprio lì, e perché? Alla prima domanda si risponde agevolmente immaginando, appunto, il mondo contadino del tempo di Gesù. Il «tesoro» si trova lavorando il proprio terreno, cioè impegnandoci nella vita. Non è nemmeno detto, e non è necessario immaginarsi, che tale tesoro sia un ripostiglio di metalli o di oggetti preziosi. Potrebbe essere, poniamo, la speciale fertilità di quel campo, la scoperta della coltura e del metodo di lavoro ad esso più adatti. Ma chi ha sepolto il tesoro nel campo? Uno al quale esso non interessava? Un avaro sciocco, che intendeva conservarlo per sé? Oppure la mano provvidenziale di Dio? Sul piano propriamente allegorico, sì la terra da coltivare può essere
essenzialmente quella del proprio corpo (il fango del quale è impastato) e della propria esistenza. Ma i tesori che si trovano in questo tipo di campo sono di solito sporchi di terra, hanno un'apparenza dimessa e molto poco preziosa: bisogna conoscerli, studiarli bene, ripulirli dal fango e dalle zolle per accorgersi di che cosa si tratta.
E non è detto che il «tesoro» sia tale per tutti.
Esso è, molto semplicemente, quello che si cerca, quello di cui si ha bisogno. Può anzi essere magari una piccola e povera cosa, che però costituisce anche la chiave della propria esistenza.
Il regno dei cieli, questo regno dei cieli, è qualcosa di molto simile a quel che nel linguaggio di tutti i giorni si definirebbe la propria vocazione, il proprio posto nel mondo e la capacità di accettarlo con gioia per quel che esso è. Non si direbbe che, parlando di questo regno dei cieli, Gesù alluda a qualcosa di particolarmente elevato o soprannaturale: si ha l'impressione piuttosto che egli stia parlando di qualcosa di conseguibile qui, su questa terra, nella nostra vita. Una chiave della serenità, della felicità, della pace con se stessi e con gli altri. Spesso, nella nostra riflessione sul cristianesimo, diamo forse eccessiva importanza ai «grandi» modelli. Intendo dire che senza dubbio il cristianesimo è una religione eroica: la misura del Cristo sulla croce, della testimonianza dei martiri, della vittoria sulla morte, è quella fondamentale e privilegiata di essa. Eppure, il Signore conosce le nostre debolezze e non ci vuole tutti eroi; di più, egli non ci vuole infelici su questa terra. Ecco perché la volontà di cercare e di trovare il regno dei cieli in questa vita e su questa terra, utopistica ed eretica volontà se tradotta in termini di realizzazione storica collettiva, diviene legittima e necessaria per quanto riguarda la nostra esperienza e il nostro modo di essere e di agire. Il tesoro nascosto nel campo è la serenità, la capacità di accettarci e nel contempo la volontà di migliorarci. Ogni campo, anche il più misero e sterile, ha un tesoro nascosto di questo tipo. Il punto è che non è sempre facile trovarlo.
«Io sarò con te» è stata la promessa fatta dal Signore ad Abramo, a Isacco, a Giacobbe, a Mosè, a tutte le grandi guide d’Israele e ai suoi profeti. In risposta, il credente che cammina nelle vie faticose della storia si rivolge al suo Dio con le parole del Salmo: «Tu sei con me». Lungo questo anno abbiamo percorso a grandi tappe la storia della salvezza, il cammino di Dio con l’uomo e dell’uomo con Dio. Un cammino fatto di attesa e di silenzi, di fede e di segni, come quando due amici si inviano messaggi nell’attesa dell’incontro.
I testi proposti, anche del prossimo numero, sono parte del programma annuale 2019 concordato già con Madre Cánopi e presi da registrazioni di Lectio che aveva tenuto.
Aprendo la Sacra Scrittura nelle pagine del libro del profeta Geremia, ci troviamo di fronte ad una situazione di inaudita attualità. Il popolo di Israele – e noi possiamo mettere il nome di tanti altri popoli del Medio Oriente, dell’Africa, dell’America latina… – vive un momento drammatico: privo di una guida saggia e fedele, è deportato, sottomesso a potenze straniere, trascinato all’idolatria. In una parola, spezza l’alleanza con il Signore, solennemente sancita da Mosè e più volte rinnovata lungo il cammino dell’Esodo fino all’ingresso nella terra promessa e oltre.
Iniziando le sue Catechesi sulla speranza cristiana, papa Francesco tratteggiava con poche parole il panorama del nostro tempo. Un tempo – diceva (e non si può che concordare) – che appare oscuro, «in cui a volte ci sentiamo smarriti davanti al male e alla violenza che ci circondano, davanti al dolore di tanti nostri fratelli. Ci sentiamo anche un po’ scoraggiati, perché ci troviamo impotenti e ci sembra che questo buio non debba mai finire» (7 dicembre 2016). Tuttavia, proseguendo affermava che quanto più i tempi sono oscuri e difficili, tanto più il cristiano è chiamato ad offrire la testimonianza di una «speranza viva», di una speranza che non vacilla neppure davanti alle più grandi tragedie. Come è possibile? Si può sperare contro ogni speranza perché – affermava il Papa – «Dio con il suo amore cammina con noi».
Continuando il nostro viaggio biblico, incontriamo Gedeone, un personaggio molto caratteristico: pieno di titubanze e di resistenze, pieno di domande e di obiezioni, non teme di contestare Dio, ma lo fa con quella schiettezza e quella spontaneità che non chiudono il dialogo e non spezzano l’amicizia, anzi, la approfondiscono e la rendono più forte e più vera.
Adamo ed Eva, Noè, Abramo, Mosè… Cercata e chiamata da Dio, l’umanità smarrita in una terra di triboli e spine, ha iniziato il cammino di ritorno al Padre, sempre sostenuta dalla sua costante e amorevole presenza: «Non temere, io sono con te!».
Benedetta da Dio, la discendenza di Abramo è feconda per grazia. Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli, i dodici capostipiti delle dodici tribù di Israele. Dopo il lungo pellegrinare di Abramo, questo primo nucleo del popolo eletto si stabilisce nella terra di Canaan ancora del tutto ignaro del proprio destino nel mirabile disegno di Dio a salvezza dell’umanità caduta nel peccato e perciò preda della morte.
Come scrive san Gregorio di Nissa, la storia procede di inizio in inizio, verso sempre nuovi inizi; non inizi che annullano il passato, ma inizi che portano sempre “oltre”: oltre ogni pensiero ed immaginazione, oltre ogni umana possibilità. Ad ogni “fallimento” dovuto alla fragilità dell’uomo, Dio risponde con un “di più” di amore e si fa conoscere sempre di più come un Dio paziente, un Dio vicino, un Dio con l’uomo.
«Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gen 1, 31). Con questa visione di pace e di bellezza si conclude il racconto della creazione. Poi, Dio «cessò da ogni suo lavoro» (Gen 2, 2) e in questo suo riposo passeggiava nell’Eden, dialogando con la creatura umana, fatta a sua immagine e somiglianza. Gioia ineffabile era la piena corrispondenza tra il Creatore e la creatura!
Ma questa gioia ben presto si mutò in paura e pianto a causa della tentazione e della caduta di Adamo ed Eva (cf. Gen 3, 1-24). Incomprensibile mistero d’iniquità!
«In principio Dio creò il cielo e la terra» (Gen 1, 1): creò la luce, creò il sole, la luna e le scintillanti stelle, creò le innumerevoli specie di animali e di piante. Con la sua Parola onnipotente dal nulla diede vita al cosmo. E Dio vide che era cosa buona e bella. E se ne rallegrò. Sì, tutto ormai era pronto per la sua ultima opera, il suo capolavoro: «Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza…”.
In Gesù tutte le promesse di Dio sono diventate un «sì» (cf. 2 Cor 1,20). In lui trovano il loro pieno compimento tutti gli «eccomi» che abbiamo sentito risuonare attraverso le pagine sacre, dall’“eccomi” di Abramo fino a quello di Maria santissima.
Nella Lettera agli Ebrei, la missione redentrice di Cristo è come racchiusa tra due «eccomi», quello della sua entrata nel mondo e quello del suo ritorno al Padre dopo la passione e morte.