Così avvenne che dopo la caduta di Adamo ed Eva (Gen 3), dopo l’uccisione di Abele per mano del fratello Caino (Gen 4), dopo il diluvio universale (Gen 6-7), dopo la distruzione della torre di Babele, quando ormai tutte le lingue erano mescolate e gli uomini non si capivano più (Gen 11), quando ormai si era ritornati al caos iniziale, anzi, un caos ancora peggiore, perché conseguenza di disobbedienza a Dio e di ingratitudine al suo amore, l’orizzonte di nuovo si apre in modo inatteso e sorprendente (cf. Gen 12).
«Il Signore disse ad Abram:
“Vattene dalla tua terra,
dalla tua parentela
e dalla casa di tuo padre,
verso la terra
che io ti indicherò.
Farò di te una grande nazione
e ti benedirò
renderò grande il tuo nome
e possa tu essere una benedizione”…»(Gen 12, 1-2).
Ancora una volta Dio non dispera dell’uomo ed entra in relazione con lui. Fa udire la sua voce e chiama Abramo. Ma chi è Abramo? Non sappiamo molto di lui. Non si dice che sia un “giusto” come Noè e che abbia trovato grazia agli occhi di Dio per la sua bontà; non è, dunque, chiamato per le sue qualità, per la sua virtù. La Bibbia ci dice solo che proveniva da Ur dei Caldei e che si era stabilito in Carran: era un seminomade immerso in un mondo idolatra.
La voce di Dio lo sorprende all’improvviso. Egli ascolta e obbedisce. Ecco il segreto, che farà di lui un “amico” per Dio e un “padre” per tutti noi che siamo come lui pellegrini e stranieri sulla terra.
L’ascolto e l’obbedienza di Abramo – la sua fede – permettono a Dio di dare inizio alla storia della salvezza, che comincia con un ordine forte, con un comando radicale: Vattene…
Tutto Abramo deve lasciare, per appartenere a Dio solo.
Abramo accettò di mettersi in cammino senza sapere dove andava, sapendo solo quello che lasciava. Ma egli aveva ricevuto una promessa, e questa promessa era per lui un tesoro più prezioso di tutte le sue ricchezze materiali e spirituali, più prezioso persino dei legami familiari più stretti e più cari.
Come non pensare a san Paolo? Anch’egli, fiero fariseo, dopo essere stato afferrato da Cristo, poté dire: «Queste cose, che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo. Anzi, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo… Non ho certo raggiunto la mèta… ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù (Fil 3, 7-8.12).
Abramo, conquistato dalla voce di Dio che lo chiamava, «partì, come gli aveva ordinato il Signore» (Gen 12, 4). E Dio – la voce di Dio – sarà sempre con lui lungo tutto il suo viaggio, di notte in notte, sotto un cielo buio o trapunto di stelle: la notte richiede da lui la fede per avanzare nell’oscurità; le stelle sono un segno di speranza che lo sospinge avanti. Avanzando con fede e speranza, Abramo crebbe nell’amore: un amore che sarà capace del sacrificio più grande.
Egli, dunque, si mise in cammino. Di tappa in tappa costruiva degli altari, perché ogni passo era da lui compiuto in obbedienza a Dio, sulla sua parola, per dare gloria a lui solo (cfr. Gen 12, 8; 13, 18; 22, 9). Uomo di pace, seppe rinunziare ad una terra fertile e scegliere per sé una terra più povera, pur di salvaguardare la concordia con Lot, figlio di suo fratello, che era partito con lui (cf. Gen 13, 1-12). Per questo suo atto d’amore, meritò di udire nuovamente la voce di Dio che gli rinnovava la promessa: «Alza gli occhi… Tutta la terra che tu vedi, io la darò a te e alla tua discendenza per sempre. Renderò la tua discendenza come la polvere della terra: se uno può contare la polvere della terra, potrà contare anche i tuoi discendenti» (Gen 13, 14-16).
La tua discendenza: ecco la prima grande prova di Abramo. La moglie Sara era sterile e avanti negli anni. Da dove gli sarebbe venuta la discendenza?
In una notte più buia di ogni altra notte, Abramo aprì il cuore al suo Dio: «Signore Dio, io me ne vado senza figli» (Gen 15,2). E di nuovo, fedelmente, la voce di Dio gli si fece udire, riconfermando la promessa: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle»; e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza» (v. 5). E qui Dio concluse con Abramo un’alleanza stipulata nel fuoco: «Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un braciere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi» (Gen 15, 17), pronti per il sacrificio. La fede di Abramo, infatti, doveva essere purificata nel crogiolo.
Finalmente nacque il figlio atteso, Isacco (cf. Gen 21). E fu – secondo il significato del suo nome – motivo di lieto sorriso per la madre Sara e per il padre Abramo: gioia per il dono della maternità per l’una, gioia per l’assicurata discendenza per l’altro. Come dopo un lungo e rigido inverno, la prima gemma sui nudi rami degli alberi è annunzio di una nuova primavera e di una feconda estate, così Abramo, guardando Isacco, già vedeva la sua discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia sul lido del mare.
Ma la voce di Dio ancora si fece udire. «Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: “Abramo!”. Rispose: “Eccomi!”. Riprese: “Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò”» (Gen 22, 1-2).
La voce di Dio che sempre aveva invitato Abramo a non temere, a guardare avanti con speranza, ora gli chiede di sacrificare proprio la sua speranza: quel figlio che era il primo germoglio della promessa. Di fronte all’assurdo e all’impossibile, Abramo ancora una volta credette, perché – come dice la Lettera agli Ebrei – «egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti» (Eb 11,19).
Di buon mattino si mise in viaggio con Isacco: viaggiò nel silenzio e nella fede, interrotto solo dalla domanda del figlio che trapassò come una spada il cuore del padre: «Padre, ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?» (Gen 22, 7). «Dio stesso – rispose il padre – si provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio!» (v. 8). E non fu una risposta di tranquillità, ma una risposta di fede, perché veramente Abramo credeva e sperava contro ogni evidenza.
Padre e figlio procedettero insieme, di nuovo in silenzio, verso il monte indicato, il monte Mòria – che la tradizione ha identificato a volte con il Sinai, più spesso, con il Calvario. Giunti sulla vetta, mentre già Abramo aveva in mano il coltello per offrire in olocausto il figlio, ecco di nuovo una voce si fece udire dal cielo: la voce dell’angelo, messaggero di Dio: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito».
Così Abramo riebbe il figlio: e fu come un simbolo (cf. Eb 11, 19): simbolo della storia della salvezza che era cominciata e che sarebbe culminata nel Figlio veramente offerto in olocausto e veramente risorto: Gesù.
Per la sua fede, Abramo divenne “amico di Dio” ed Egli stesso volle chiamarsi il Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, ossia il Dio dei viventi che camminano nella fede…
Per la sua fede, Abramo divenne padre di tutti noi, pellegrini e stranieri in questa terra.
Sulle sue orme camminarono i patriarchi, i profeti e tutti i testimoni, come si legge nella Lettera agli Ebrei, in quella commovente litania di nomi che ripercorre il cammino del popolo eletto verso la terra promessa, e che noi oggi possiamo proseguire, perché anche noi siamo ancora pellegrini che avanzano verso il cielo, portando nel cuore la promessa di Gesù: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20).
Abramo
nostro padre
nella fede,
sulle tue orme
vogliamo camminare
per essere anche noi
graditi a Dio.
Insegnaci il segreto
di rispondere
sempre di “sì”
ad ogni chiamata
del Signore,
per lasciarci condurre
docilmente
verso il monte
dell’immolazione,
del sacrificio
dell’Isacco
che è in noi
– il nostro stesso “io” –
e diventare veramente
testimoni credibili
della fede,
pellegrini
nella speranza
e, come te,
“amici di Dio”.
Amen.