Parabole e miracoli, nella vita di Gesù, vanno insieme. E sono, entrambi, tramiti per il salto verso un'altra dimensione. Il miracolo, in quanto interruzione dell'ordine naturale, richiama alle realtà sovrarazionali e sovrasensoriali; la parabola, in quanto racconto esemplare, si situa fuori del tempo storico, in quel tempus illud nel quale agiscono gli archetipi, e che somiglia al tempo del mito anziché a quello della storia.
Nel Vangelo di Matteo abbiamo non solo l'esposizione della prima parabola di Gesù, ma anche la spiegazione del perché egli ami esprimersi in parabole e infine, dalle sue stesse labbra, l’esegesi della parabola del seminatore.
La scena è quella del lago di Genezaret, o lago di Tiberiade, o Mare di Galilea; il tempo, quello della predicazione fra la Pasqua del 28 e quella del 29. Gesù è sulla riva del lago, e la gente gli si accalca attorno. Allora sale su una barca, vi si siede e comincia a raccontare pacatamente una storia molto nota a quel popolo di agricoltori. E per così dire, il romanzo del chicco di grano. Il seminatore ne sparge a piene mani (e ciò non è poco, in un tempo di frequenti carestie e di scarse rese): ma una parte finisce sulla strada e gli uccelli la divorano; una parte sul terreno sassoso, dove la terra è poca, e germoglia subito, ma non avendo radici secca appena il sole la bacia; una parte tra i rovi, che soffocano le pianticelle; un’altra parte invece sul terreno buono, che però non è mai tale nella medesima misura, per cui le rese dello stesso terreno buono saranno più alte qua e meno alte là.
Gesù stesso spiega la parabola in termini che, sotto la metafora del seme di grano, sembrano già adombrare il mistero del Verbo fatto carne e delle specie visibili del pane eucaristico nelle quali questa carne si manifesta. Il seme gettato sulla strada è la parola del regno che non è stata compresa, per cui il diavolo la porta via; quello caduto fra i sassi è la parola scesa in un cuore debole e incostante, che alla prima difficoltà la rifiuta e la lascia morire; quello caduto fra le spine è la parola che giunge in un cuore oppresso dalle preoccupazioni del mondo; quello seminato nel buon terreno, infine, dà frutti ottimi in senso assoluto, ma graduati in quello relativo. Ogni cuore che accoglie la parola di Dio e la fa fruttificare produce poi quello che può produrre (allo stesso modo, nella parabola dei talenti, ognuno fa fruttare il suo come può e secondo le proprie possibilità). La parola del Cristo non è mai astrattamente egalitaria e, del resto, l’egalitarismo è un’aberrazione di qualche dottrinario: non l’eguaglianza formale, ma l’equità è quella che interessa il cristiano.
Le basi dell'immaginario cristiano, in questa parabola, sono quindi poste: la parola divina come seme; l'animo dell'uomo come terreno, che può essere buono e cattivo e che richiama alla terra di cui i corpi sono fatti; gli uccelli dell’aria come demoni (è questo uno dei molti significati d'un simbolo, quello delle creature dell'aria, ricchissimo: ma anche Dante, nella Divina Commedia, fa sì che un diavolo sia apostrofato «malvagio uccello»); la terra arida e sassosa come metafora della superficialità e dell'incostanza; il terreno spinoso come simbolo delle preoccupazioni mondane che soffocano ogni anelito spirituale. E ora, a noi l’immaginare il nostro interiore paesaggio spirituale, sulla base di quell’antico panorama agrario di Galilea: siamo strade aperte, indifese dinanzi a qualunque tipo di male, su cui può tranquillamente planare il demonio? Siamo terreni sassosi, facili all'entusiasmo ma anche alla disillusione, alla stanchezza, al disincanto? O rovi inaccessibili a tutto quel che non parli il linguaggio della ricchezza e del successo mondano, che lasciano sì passare la parola di Dio, ma non le permettono di metter forti radici?
D’altro canto, nella pagina della parabola del Seminatore ben altri problemi sono sottintesi. Quello della grazia e del libero arbitrio ad esempio. Se la parola di Dio viene predicata a tutti così come il seme viene sparso su tutto il terreno, perché esistono terreni buoni e terreni cattivi? E quale merito ha il terreno buono di esser tale, e quale colpa quello cattivo di essere quel che è? «A chi ha – continua Gesù – sarà dato, e sarà nell'abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha». Sentenza dura, oscura, prediletta da chi vuol dimostrare l'incoerenza o addirittura la non-umanità del linguaggio evangelico.
Ma l'avere e il non avere ai quali Gesù qui si riferisce sono il dono della fede. Chi lo accetta, guadagnerà spiritualmente sempre di più; chi si rifiuta di accoglierlo, si troverà progressivamente spogliato di tutto.
Dalla Galilea, in quel lontano tempo fra il 28 e il 29 d.C., il Verbo fatto carne si apprestava a salire verso Gerusalemme; lì, il seme si sarebbe fatto pane eucaristico e sarebbe morto per fruttificare. La parabola del seminatore è la metafora dell'evangelizzazione e al tempo stesso il racconto dei dramma del rapporto fra l’anima di ciascun uomo e la verità della fede.
«Non di solo pane vive l'uomo, ma d'ogni parola che procede da Dio». Quella parola è il seme di grano e il pane spirituale. Gesù, ebreo di duemila anni fa, narra delle storie alla sua gente che non possiede raffinati strumenti intellettuali e la lingua della quale è inadatta alle astrazioni filosofiche che saranno consentite, per esempio, dal greco. Gesù predica a pastori, agricoltori, pescatori. Parla di grano, di reti, di lucerne spente o accese, di vino, d’olio, di greggi.
è difficile oggi cogliere il senso vero della parola di Gesù, superando il diaframma dei secoli e delle versioni: aramaico, caldeo, greco, latino. Il Cristo è Parola, ma proprio la parola, appunto, ci sfugge. Ha senso nelle megalopoli di oggi, nell’era dell'informatica, parlare ancora di semi di grano e di lucerne a olio?
è in realtà necessario tornare alla semplicità del linguaggio di Gesù, che è semplicità archetipica, di concetti e di principi primi.
Il Vangelo serve anche a questo: sfrondare il nostro essere e la nostra cultura di orpelli e di superfetazioni, tornare alle nostre radici mediterranee e contadine, tornar a immaginare Dio e l'uomo in termini di grano, di pane e di terra. L’ateismo ha cominciato ad attecchire, nel nostro mondo, appena si è cominciato a ragionare troppo per categorie e per concetti astratti. Ricordiamolo, anche nella pratica quotidiana.