Il Beato Pio IX l’8 dicembre del 1870 proclamò San Giuseppe patrono della Chiesa universale. In momenti difficili per le vicende storiche della Chiesa italiana Pio IX inizia il suo Decreto con l’immagine di Giuseppe il figlio di Giacobbe che in Egitto riserva nei magazzini il grano per il nutrimento di quel nucleo iniziale del futuro popolo di Israele. Nella “pienezza dei tempi” Dio manda al suo popolo un altro Giuseppe con il compito di educare e accompagnare suo Figlio Gesù nella sua permanenza sulla terra per acquisire concretamente il sapore delle gioie e delle speranze dell’umanità.
a cura di Graziella Fons
Da qualche tempo durante le celebrazioni liturgiche si consigliano dei momenti di silenzio. Qualche volta ho la sensazione di un disagio come se fosse un silenzio senz’anima. Allora perché quando più che un’elevazione dello spirito è un silenzio di piombo?
Siamo abituati a vivere nella «Geenna del rumore», come è stato chiamato il nostro tempo rumoroso che affligge e stordisce. Per il cammino spirituale il silenzio è un elemento essenziale per progredire in un rapporto profondo con Dio. Se vogliamo arrivare a sentire in modo autentico la Parola di Dio che agisce nella nostra coscienza è necessario intraprendere un strada educativa, che non vale solo per i monaci di clausura. Il silenzio passeggero delle nostre celebrazioni è un silenzio sterile e fastidioso.
Se l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso non sono “luoghi”, ma “stati”, il corpo del Cristo Risorto dove sta se non in un luogo?
Nessuno è stato nell’al di là ed è tornato a dirci com’è, perciò, quando vogliamo ricostruire quel mondo, si deve essere molto cauti e soprattutto tener conto che su questa terra siamo sempre condizionati dai nostri modi di conoscere il mondo che ci circonda. La teologia cattolica ha sempre sostenuto che per parlare di Dio e delle realtà soprannaturali possiamo solo usare un linguaggio “analogo” e non “univoco”, cioè, per dirlo in modo più semplice, ci serviamo di immagini che però non esauriscono tutta la realtà.
Abitualmente, mentre mi reco al lavoro guidando l’auto, prego mentalmente e così sono abituato a fare anche in altri momenti della giornata, magari quando nel letto tardo a prendere sonno. Che valore ha questa preghiera fatta solo mentalmente? è meno efficace di quella vocale?
Nell’ultima confessione un sacerdote, dal quale mi confessavo per la prima volta, non mi ha assegnato alcuna penitenza. Ma mi capita spesso di ricevere, anche dal mio confessore abituale, delle penitenze per così dire “generiche”, del tipo “offri lo sforzo che fai per non cadere nel peccato” o “cerca di vivere secondo le indicazioni che ti ho dato” oppure ancora “di qualche preghiera”. Mi sembra che ci sia molta arbitrarietà. Esiste un criterio in base al quale viene assegnata la penitenza in confessione?
Giovanni Paolo II, nell’Esortazione Apostolica “Reconciliatio et poenitentia”, ricorda che la soddisfazione, o penitenza come viene chiamata da noi, è l’atto finale che corona il sacramento della Riconciliazione.
E sottolinea tre aspetti delle opere di penitenza imposte dal confessore.
Una coppia aspetta da molto un bambino e finalmente lei rimane incinta. Dalle varie analisi emerge però che il feto ha varie malformazioni, tali da mettere in forse la sua nascita o per lo meno da condizionare la sua esistenza, costringendolo a una vita “diversa”. Qualcuno dei miei amici, anche credenti, afferma che in casi in cui vi è la certezza di pesanti malformazioni o, al limite, quando è in pericolo la vita della madre, è lecita la pratica dell’aborto. Cosa dice la morale cristiana?
Papa Francesco è esplicito nella Evangelii Gaudium quando afferma che fra le persone più deboli «di cui la Chiesa vuole prendersi cura ci sono i bambini nascituri, a cui si vuole negare la dignità umana», dimenticando che «un essere umano è sempre sacro e inviolabile in qualunque situazione e in ogni fase del suo sviluppo» (EG 21,3).
La filosofia di fondo che sottintende la mentalità abortista è sovente l’idea di evitare al bambino una vita “diversa”, magari segnata dalla sofferenza a causa della patologia o della difficoltà che incontrerà per trovare un posto in una società dominata dalla “cultura dello scarto”, ma in realtà assai spesso è un’ipocrisia che copre la concezione che la vita sia vera solo quando è in grado di produrre e offrire prestazioni. Spesso si definisce l’aborto come un mezzo terapeutico : è una falsità, perché le terapie servono a curare, mentre qui si tratta di un vero aborto eugenetico, destinato a eliminare il problema alla radice. Le diagnosi prenatali possono aiutare a conoscere lo stato di salute di un nascituro, permettendo terapie adeguate e anche di prepararsi psicologicamente all’accoglienza, che può anche essere delicata e combattuta.
Purtroppo però oggigiorno nella nostra società occidentale spesso la diagnosi indesiderata diventa l’anticamera dell’aborto. In Italia, per esempio, si fanno tanti proclami sull’accoglienza delle persone Down: ma pochi sanno che l’80% dei bambini Down vengono abortiti. La legge italiana permette l’aborto eugenetico entro il novantesimo giorno dal concepimento: non si capisce che differenza ci sia, nel rispetto della vita, fra un feto Down di due mesi e mezzo e uno di sei mesi o di un neonato Down. Ancora Papa Francesco ha avuto parole forti sull’aborto, definendolo un dramma e uno dei più grandi problemi del nostro tempo, delineando allo stesso tempo due atteggiamenti: quello di chi lo vive «con una consapevolezza superficiale, quasi non rendendosi conto del gravissimo male che un simile atto comporta», e invece di quelli che «pur vivendo questo momento come una sconfitta, ritengono di non avere altra strada da percorrere».
Egli ha voluto concedere, in questo anno della misericordia, a tutti i sacerdoti la facoltà di sciogliere dalla scomunica e assolvere le donne che hanno abortito e coloro che hanno cooperato all’aborto, con lo scopo che attraverso il loro ministero sacramentale aiutino a «comprendere il peccato commesso e indicare un percorso di conversione autentica per giungere a cogliere il vero e generoso perdono del Padre che tutto rinnova con la sua presenza».
Andare dai maghi e credere alla stregoneria? Oppure semplicemente compiere gesti scaramantici a cui si attribuisce un effetto positivo, pensando che “portino bene”?
Sono atteggiamenti contrari agli insegnamenti del cristianesimo. Il Catechismo della Chiesa Cattolica è esplicito: «Tutte le forme di divinazione sono da respingere: ricorso a Satana o ai demoni, evocazione dei morti o altre pratiche che a torto si ritiene che “svelino” l’avvenire.
Ricordo che ai tempi del seminario, il 1° maggio celebravamo con grande fervore la solennità di San Giuseppe Operaio, un importante momento di spiritualità che le rubriche liturgiche del tempo qualificavano come “festa di prima classe”, al punto da attribuirle una importanza se non maggiore, almeno pari alla Domenica.
Nel giorno del compleanno di don Guanella, il 19 dicembre, la sua famiglia religiosa ( le suore, i preti e i cooperatori guanelliani) ha concluso le iniziative in programma per solennizzare il centenario della sua nascita al cielo. È stato un anno denso di spunti per ridare vigore al carisma di carità, prendere coraggiosamente il patrimonio della sua santità nelle mani e attivarsi affinché il profumo di un’azione sempre più vasta di attenzione verso gli “scarti” della nostra società vengano “riciclati” e restituiti alla dignità di figli amati e rispettati.
Il logo scelto per l'anno giubilare, opera del padre gesuita Marko Rupnik, si presenta come una piccola sintesi di queste tre forme di misericordia. Mostra, infatti, il Figlio che si carica sulle spalle l’uomo smarrito, recuperando un'immagine molto cara alla Chiesa antica, perché indica l'amore Cristo di che porta a compimento il mistero della sua Incarnazione con la Redenzione. Il disegno è realizzato in modo tale da far emergere che il Buon Pastore tocca in profondità la carne dell'uomo, e lo fa con amore tale da cambiargli la vita. Visibilmente si tratta di un abbraccio.
La foto di copertina della rivista del mese di novembre due mani alzate in atteggiamento di supplica, mi ha spinto a chiedere il perché si tengono le mani giunte quando si prega. È solo un simbolo oppure è un modo di tenere concentrata l’anima sui sentimenti della preghiera stessa?
Rovira Alessio, Castel Madama (RM)
Nell'antichità cristiana si era solito alzare le mani in atteggiamento di offrire o di ricevere. Come vediamo negli affreschi delle catacombe romane, era l'atteggiamento di chi sta in preghiera, e lo si osserva ancora oggi. Le rubriche liturgiche prescrivono che il sacerdote, in alcuni momenti della Messa, preghi a mani alzate.
In seguito è stato introdotto l'uso delle mani giunte. Le mani giunte ricordano il gesto antico di legare le mani ai prigionieri (azione che ancora si oggi si mantiene viva per le spose nelle liturgie orientali). Per questo, chi stava per essere martirizzato, procedeva con le mani giunte e in quei momenti sicuramente pregava.
Il vento della preghiera riaccende la luce della grazia e della comunione con Dio. La vita eterna è «l’attimo di amore senza fine». È un attimo infinito in cui Dio ci avvolge con il suo abbraccio di amore. Nel linguaggio umano dobbiamo ricorrere all’esperienza dei nostri occhi quando guardano la tenerezza di due innamorati, o come un bambino attaccato al seno della madre che fissa i suoi occhietti negli occhi della madre per avere oltre al latte il conforto del suo sorriso e della sua benevolenza. Il catechismo della Chiesa cattolica afferma che il Purgatorio non è tanto un luogo, ma una condizione di fremente nostalgia nel possedere in pienezza quella luce che momentaneamente abbiamo perso a causa della nostra fragilità e dei nostri peccati. Il nostro rapporto con i defunti non cessa al momento della loro morte, ma il sacramento del battesimo, che ci unisce a Cristo risorto, mantiene saldi questi vincoli di comunione. Il nostro amore per i nostri cari defunti va oltre la barriera del tempo. Il nostro cammino di conversione, di preghiera, di digiuni e di opere buone a vantaggio dei nostri fratelli e sorelle bisognose, è come un vento che soffia sul fuoco dell’amore di Dio che abbraccia e riscalda i nostri cari defunti e permette loro di partecipare alla gioia della luce divina.