A quel tempo nel piccolo paese in cui abitavo non c’era né asilo nido, né scuola materna. Si incominciava con la scuola elementare, e questo costituiva un grande evento sia per i bambini che per le famiglie, specialmente per chi abitava in case isolate.
Si trattava, infatti, di abituarsi ad entrare in relazione con altri bambini sconosciuti e con una insegnante che – per quanto fosse materna – non poteva supplire la mamma.
La scuola come luogo per imparare a leggere e a scrivere mi piaceva molto, ma la mia estrema timidezza mi metteva in difficoltà con alcuni compagni dispettosi, che arrivavano persino a intingermi la punta delle treccine bionde nel calamaio! Allora, infatti, non c’erano ancora le biro o le penne stilografiche, ma si usavano le cannucce di legno con i pennini infilati sulla punta, quindi su ogni banco di scuola c’erano i calamai incastrati in un foro per intingere, e si usava la carta assorbente per le inevitabili macchie.
Canopi/Gennaio2011
Rievocare in età avanzata le esperienze e le impressioni avute nella prima infanzia può essere per tutti un modo di ricuperare un mondo apparentemente perduto e forse anche per ritrovare la chiave di lettura del proprio mondo interiore nel momento attuale. Non è però facile rievocare la propria infanzia “a voce alta”, ossia raccontarla ad altri. C’è una innata riservatezza, come un velo oltre il quale neppure noi possiamo spingere lo sguardo. Siamo pienamente conosciuti soltanto da Dio, poiché egli è l’Amore che ci ha creati e che ci sostiene in vita.
Siamo arrivati alla fine del Decalogo, e uniamo gli ultimi due comandamenti, o parole, quelli che tradizionalmente vanno sotto una sorta di duplicazione: “non desiderare la donna d’altri”, e “non desiderare la roba d’altri”. Li unifichiamo in un unico “non desiderare”, che è una sorta di minimo comune denominatore.
Per iniziare a chiarirci il senso di questa Parola, dobbiamo innanzi tutto distinguere tra “desideri” e “voglie”, o capricci. Il desiderio è qualcosa di profondo, che scolpisce la nostra identità e che costituisce ciò per cui Iddio ci ha creati: così uno può desiderare studiare fisica, o fare l’astronauta, o diventare papà, o consacrarsi a Dio. Questi tipi di desideri dicono la nostra vocazione stessa: ogni altro tipo di esperienza sarà meno significativo e importante per chi li vive, e verosimilmente questi desideri rimarranno profondamente radicati in noi, superando ogni prova contraria o avversa. Potrà essere difficile restarvi fedeli, ma non è impossibile, e la fatica fatta in questo senso contribuirà a farci sentire noi stessi, autori e protagonisti delle nostre scelte. Il vero desiderio è indelebile, proprio perché, in ultima analisi, viene da Dio.
Proseguiamo la nostra riflessione sulle dieci parole che ci rendono liberi. Il settimo comandamento dice: “non rubare”, e con questo ognuno di noi si sente esentato da ogni colpa. Infatti nessuno di noi è mai andato a rapinare una banca, o a borseggiare le vecchiette sull’autobus. Ma è evidente che il comandamento, o, meglio, la parola, ha un significato ben più pregnante.
Innanzitutto, vorrei osservare che se ne parla abbastanza poco. Di fatto, mentre il sesto comandamento, quello sulla castità, è sentito come veramente obbligante, una sorta di spauracchio dal quale dipende o no l’essere in stato di grazia, sul settimo si sorvola abbastanza, come se al Signore non fossero gradite le virtù “pubbliche”, ma solo quelle “private”.
A conclusione di queste riflessioni sul sesto comandamento, possiamo quindi dire alcune cose molto semplici. Innanzi tutto, che la sessualità è un impulso molto potente in ognuno, e che quindi deve essere ben vissuto, perché questa forza deve essere ben incanalata: non si tratta quindi di negarla o reprimerla – si farebbe solo peggio – ma di integrarla in un contesto di vita pienamente umana, di relazioni affettive e profonde e non false o illusorie. Insomma, il sesto comandamento ci invita ad imparare ad amare, perché, nonostante il fatto che tutti ne siamo “naturalmente” capaci, questo non significa che ci riesca sempre bene. In fondo, dobbiamo dire che anche l'amore, come qualunque altra realtà umana, ha bisogno di essere redento: ed è questo del resto il senso profondo del sacramento del matrimonio, che è volto a liberare la coppia da ambiguità o distorsioni che sempre possono sorgere in questa relazione.
Abbiamo già accennato al senso profondo del sesto comandamento, che non è quello di reprimere, ma di liberare la nostra affettività e la nostra stessa sessualità. Infatti è evidente che queste pulsioni possono essere disordinate e essere vissute in modo distruttivo, cioè non umano, ma semplicemente animale: vissute così, non sono nemmeno appaganti, proprio perché l'amore non è una semplice meccanica di organi, ma un accordo di anime, o, se preferite, di cuori. Ognuno di noi, sposato o no, laico o sacerdote, è segnato dal bisogno profondo di amare ed essere amato: se si pensasse che la castità consista nel sopprimere questo, si sarebbe completamente fuori strada. In questo senso, come accennavamo, il sesto comandamento non ci insegna a reprimere, ma ad integrare e a vivere più pienamente il mondo dei nostri affetti, perché è invece possibile viverli malamente o “di meno”.
Siamo arrivati così alla trattazione del sesto comandamento, di fronte al quale tutti, fin dall'adolescenza, ci sentiamo un po' impauriti. Ed è un peccato essere impauriti, perché questo comandamento, come del resto tutti gli altri, non vuole essere uno spauracchio o imporre dei pesi che non possiamo portare, ma piuttosto aprire la nostra mente ed il nostro cuore ad una dimensione importante della nostra vita, qui l'affettività e la sessualità, pulsioni interiori profondissime in ciascuno di noi. Il senso quindi del comandamento non è: “stai attento a quel che fai, perché qui c'è sempre e solo peccato mortale”, ma piuttosto “impara a vivere da vero uomo”, cioè non da angelo asessuato, quale non siamo, ma nemmeno da bestia, quali non siamo, ma potremmo diventare.
Proseguiamo la nostra riflessione sulla quinta parola del Decalogo: non uccidere. Abbiamo già visto che “uccidere” qui dice la relazione con l’altro resa spezzata o deformata dalla violenza. In estrema sintesi, potremmo dire che “uccidere” si verifica tutte le volte che un altro viene cancellato dalla nostra vita. Ancora, abbiamo osservato che la fraternità che il comandamento ci impegna a vivere non è un rapporto a due, io e il mio amico, ma un rapporto a tre: io, l’altro e Colui che ci ha posti l’uno accanto all’altro. In questo senso, per risanare le ferite nelle nostre relazioni interpersonali dobbiamo guardare a questo terzo soggetto, Iddio, che ha amato entrambi per primo condonando a ognuno ogni debito: possiamo quindi accoglierci gli uni gli altri, come Lui ci ha accolto.
Nel cap. 15 del libro della Genesi, Dio promette ad Abramo una ‘ricompensa molto grande’ (v.1). Abramo comprende che si tratta di quello che gli stava fortemente a cuore, a lui e alla moglie Sara: non solo la promessa della ‘terra’, ma soprattutto, una ‘discendenza’.
Il dialogo tra Dio e Abramo, secondo la tradizione jahvista, è sempre descritto con semplicità scarna, ma non è privo di dramma: «Signore Dio, che cosa mi darai? Io me ne vado senza figli… Ecco, a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà il mio erede» (vv 2.3). Qui, per la prima volta, annota la Bibbia di Gersualemme, Abramo esprime la sua inquietudine, dal momento che le promesse di Dio sembrano irrealizzabili, date le condizioni fisiche di Abramo e della moglie Sara. Il Signore, allora, non si scompone davanti alle incertezze di Abramo; lo conduce fuori, sotto il cielo pieno di stelle, e gli dice: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci…e soggiunse: ‘Tale sarà la tua discendenza’» (v.5).
San Paolo nelle lettere indirizzate ai Romani e ai Galati, a proposito del confronto assai polemico col mondo ebraico (da cui Paolo veniva e nel quale era stato severamente educato), insiste sul rapporto che corre tra la Legge e la fede in Dio che “giustifica”.
L’apostolo fonda la sua dottrina della ‘giustificazione’ (= essere liberati dal peccato e partecipare alla eredità dei figli di Dio), ricorrendo alla fede di Abramo, il padre del popolo ebraico: Paolo afferma che in lui, in Abramo, anche i popoli pagani (oggetto della sua infaticabile predicazione), pur non conoscendo ancora Dio, sono chiamati, poiché il Signore aveva già ‘benedetto tutte le nazioni’ (Gal 3,8; cfr. Gen 12,3); e poiché la ‘fede’ di Abramo ‘gli fu accreditata come giustizia’ (Rm 4,8), Abramo può essere riconosciuto come ‘padre di tutti noi’ (4,16): da qui, la solenne proclamazione di Paolo: ‘di conseguenza quelli che vengono dalla fede, sono benedetti insieme ad Abramo, che credette’ (Gal 3,9).
L'Amoris laetitia
di don Nico Rutigliano
L’atteggiamento che papa Francesco ha assunto nei confronti della famiglia è quello di camminare vicino alle famiglie con sguardo amorevole. Egli guarda alla famiglia con uno stile tipico di chi abita la famiglia e usa un linguaggio fatto di metafore ed esempi tratti dalla vita quotidiana.
La esortazione apostolica Amoris laetitia è molto concreta e capace di affrontare una questione spinosa e di grande attualità: la realtà della famiglia e le sue sfide.
Egli guarda alla famiglia così com’è. Non alla famiglia ideale, ma alla famiglia reale. Non un modello astratto, ma la realtà concreta, fatta di bellezza e di criticità, di esaltazioni e di ferite. Non uno stereotipo, ma un mosaico fatto di grandi differenze che compongono qualcosa di unico. La famiglia è imperfetta e nella sua imperfezione sta anche la sua possibilità di aver bisogno degli altri, il suo desiderio di affidare le proprie difficoltà e incertezze ad una mano che la sorregga, la protegga e la aiuti.
Se l’aereo perde velocità, va in stallo. Per prendere quota, il pilota inesperto tende a puntare il muso verso l’alto: risultato è che l’aereo precipita. Bisogna invece puntare verso il basso.
Quando nella famiglia si tende a salvarsi da soli, è il fallimento. Il ruolo dell’accompagnamento, allora, è decisivo, non solo importante.
L’’esortazione apostolica Amoris laetitia è nata da lavori sinodali, cioè dall’impegno dei vescovi radunati in sinodo, fin dal 2013, quando si è notato un modo nuovo di procedere: un tema scelto dal Santo Padre sviluppato in due sinodi, con allegato un questionario. Con questo modo di lavorare insieme, la collegialità è diventata sinodalità.
Dal primo questionario è nato l’instrumentum laboris, discusso nella Assemblea straordinaria dei vescovi. Il segretario speciale per tutti e due i sinodi è stato monsignor Bruno Forte. Per volere del Papa, durante l’assemblea è stata adottata la lingua italiana: altra novità, in quanto nel passato si usava il latino. Nei circoli minori invece, si è parlata la lingua madre dei padri sinodali. L’instrumentum laboris è fatto di tre parti: le sfide, la vocazione, la missione della famiglia; ed è stato affidato ai lavori del secondo sinodo della famiglia.
Due Sinodi (2014 e 2015) voluti da Papa Francesco. La novità. Mai un Sinodo era stato preceduto da una consultazione di tutte le chiese del mondo. E qui si trattava di famiglia, matrimonio e sessualità, temi su cui al Concilio per decisione papale fu chiusa la discussione anche tra i vescovi. Dopo il Concilio il tema della famiglia ancora molte volte era stato affrontato, anche in un Sinodo dedicatogli e concluso con la “Familiaris Consortio” di San Giovanni Paolo II (1980). Tenendo conto di questo nel 2014 si poteva semplicemente rimandare al testo di San Giovanni Paolo II: conferma e avanti… Non è andata così…