di Madre Maria Cánopi
A quel tempo nel piccolo paese in cui abitavo non c’era né asilo nido, né scuola materna. Si incominciava con la scuola elementare, e questo costituiva un grande evento sia per i bambini che per le famiglie, specialmente per chi abitava in case isolate.
Si trattava, infatti, di abituarsi ad entrare in relazione con altri bambini sconosciuti e con una insegnante che – per quanto fosse materna – non poteva supplire la mamma.
La scuola come luogo per imparare a leggere e a scrivere mi piaceva molto, ma la mia estrema timidezza mi metteva in difficoltà con alcuni compagni dispettosi, che arrivavano persino a intingermi la punta delle treccine bionde nel calamaio! Allora, infatti, non c’erano ancora le biro o le penne stilografiche, ma si usavano le cannucce di legno con i pennini infilati sulla punta, quindi su ogni banco di scuola c’erano i calamai incastrati in un foro per intingere, e si usava la carta assorbente per le inevitabili macchie.
L’episodio che mi è rimasto maggiormente impresso nella mente è quello riguardante la visita del Direttore didattico, verso la fine dell’anno scolastico. La maestra ci aveva avvisati il giorno prima perché andassimo ben preparati. Io ero così intimorita al pensiero di quell’uomo importante che veniva dalla città e che ci avrebbe interrogati, da non volere – per la prima volta – andare a scuola! Quel mattino, infatti, rimasi a piangere lungo la strada; ma la maestra – che non voleva rinunziare alla mia presenza, ritenendomi la migliore della classe! – venne personalmente a cercarmi e mi trascinò con forza fino alla scuola. Ricordo che, giunta a metà scala, visto che dovevo proprio entrare in classe, accoratamente la implorai: «Mi lasci asciugare gli occi (sic!)». Me li asciugò lei stessa, sorridendo. Tutto, poi, andò bene perché il Direttore mi venne vicino dolcemente e mi mise la mano sul capo; poi interrogò la classe. I compagni tacevano e mi guardavano sollecitandomi a rispondere. Lo feci in modo… da far meritare alla maestra e a tutta la classe un bel giudizio positivo; mi rimaneva, però, la vergogna per il tentativo che avevo fatto di non andare a scuola e per quegli occi, che avevo detto in forma dialettale, piangendo.
In seconda elementare già veniva il parroco nella scuoletta della nostra frazione a farci il catechismo in preparazione alla prima comunione e alla cresima. Ascoltavo le sue lezioni riempiendomi di dolcezza e di gioia; sentivo crescere in me il desiderio di ricevere i sacramenti, di ricevere Gesù e lo Spirito Santo, ma con una certa trepidazione.
La data della Prima Comunione era fissata in aprile, nel tempo pasquale, e la Cresima in maggio, per la festa di Pentecoste.
Quando il parroco venne ad amministrarci il sacramento della prima Confessione, mi aspettavo che lui stesso ci dicesse quali erano i nostri peccati, perciò mi sentii impacciata davanti alla sua domanda: «Hai fatto qualcosa che dispiace a Gesù?». «Non lo so – risposi –, non so che cosa gli dispiace…». E lui: «Per esempio, se hai disobbedito ai tuoi genitori, se hai litigato con i tuoi fratelli, se hai detto bugie… Se hai detto parole cattive…».
Non mi sembrava di aver commesso questi peccati; perciò gli risposi: «Non mi ricordo, ma se Gesù li ha visti, chiedo perdono…». Il sacerdote sorrise e, prendendomi il viso tra le mani, mi disse: «Gesù è contento di venire nel tuo cuore; ti do il suo perdono per tutto quello che non hai fatto proprio bene e con amore». Questa precisazione mi rimase impressa: cominciavo a capire che non basta fare bene, ma che bisogna fare anche tutto con amore, per amore di Gesù e di tutti. Finalmente giunse la domenica in albis, con un modestissimo abitino bianco, salii alla chiesetta di Canevino, attraversando i campi e il bosco nei quali si era già svegliata la primavera.
Mi accompagnavano le due sorelle maggiori e alcune vicine di casa. L’attesa trepidante di ricevere l’ostia santa si concluse però con un senso quasi di smarrimento; quell’ostia era una cosa tanto semplice, senza sapore – la pensavo dolcissima! – e subito si sciolse in bocca… Ma mi dicevo: Credo ugualmente che è il Signore!
E nel ritorno avevo il cuore che mi batteva forte, come se fosse stato quello di Gesù.
In famiglia tutto era come ogni domenica; non si facevano allora pranzi di festa con invitati, con doni e con foto-ricordo… Il motivo di gioia era solo Lui: Gesù!
Venne poi il giorno della Cresima. Si dovette andare in un’altra parrocchia, perché il Vescovo, in visita pastorale, radunava in quella chiesa tutti i cresimandi del vicariato. Mi accompagnarono ancora mia sorella maggiore e una giovane sarta che mi avrebbe fatto da madrina. Partendo di buon mattino, camminammo a lungo su una strada di campagna e attraversammo anche un torrente. Gli zoccoletti ai piedi e le scarpine in mano; anche la veste bianca la indossai alle porte del paese perché prima si sarebbe sciupata.
Ho sempre negli occhi quella grande chiesa – così mi parve! –, piena di gente. Il vescovo sull’altare, maestoso nei suoi paramenti pontificali… Profumo di incenso, luci, canti… Noi cresimandi eravamo disposti su due file – maschi e femmine – l’una di fronte all’altra, al centro della navata. Dietro a ciascuno, il padrino o la madrina. Mi avevano detto che il Vescovo dopo averci unto con il santo crisma ci avrebbe dato uno schiaffetto, come per dirci che dovevamo essere forti, pronti a soffrire come “soldati di Cristo”. Aspettavo quel momento con emozione, ma il Vescovo, quando si fermò davanti a me, mi unse la fronte e poi mi fece una carezza con tre dita!
Tornammo a casa, si può dire, volando. E per tutta la giornata, tra lo stupore dei miei familiari, cantai allo Spirito Santo con parole e melodie inventate dalla mia fantasia: «Vieni, Spirito Santo, / vieni, colomba, vieni dal cielo, / vieni nel mio cuore / e dammi ali per volare, / e dammi ali per volare, e dammi ali per volare!…».
Ero davvero sotto l’effetto dello Spirito che avevo ricevuto? Forse proprio in quel giorno sbocciò nel mio cuore la poesia. E sentivo che tutto il creato cantava con me.