La Settimana Santa è il cuore dell’anno liturgico, poiché dal mistero pasquale, in essa solennemente celebrato, scaturisce il fiume della grazia, il dono della salvezza.
Ogni cristiano che nelle settimane di Quaresima si è impegnato nella lotta contro il male e che, nello sforzo della propria purificazione, ha tenuto lo sguardo contemporaneamente rivolto a Dio e a se stesso, ora è invitato dalla Liturgia a non avere occhi che per il Cristo. È unicamente la sua Persona – le sue parole, i suoi gesti, i suoi silenzi – a colmare tutto questo sacro tempo e attirare tutta la nostra attenzione, fino a immedesimarci in Lui, per condividerne la Passione in uno slancio di autentica empatia, di profonda “com-passione”.
La spiritualità del tempo di Quaresima
è un costante appello a ritornare a Dio.
Far dimorare Dio al centro dei nostri interessi
e gestire il nostro vivere in comproprietà
Già all’inizio del IV secolo si ha testimonianza della pratica, nella Chiesa, di un periodo di quaranta giorni in preparazione alla celebrazione del Sacro Triduo pasquale – Passione, Morte e Risurrezione di Cristo – che è il centro di tutto l’anno liturgico.
Originariamente questo tempo – che trae il suo significato simbolico dai quarant’anni della traversata del deserto da parte del popolo eletto (esodo), dal ritiro di Mosè sul Sinai e più ancora di Gesù stesso nel deserto all’inizio della sua predicazione – coincideva con la preparazione dei catecumeni che a Pasqua avrebbero ricevuto il Battesimo. Essi erano così premurosamente sostenuti da tutta la comunità cristiana che con loro si preparava ad una nuova rinascita spirituale. La Quaresima era pure con il periodo in cui i pubblici peccatori si sottoponevano ad una particolare austerità di vita, per essere riammessi, il Giovedì Santo, nella comunità ecclesiale accostandosi alla mensa eucaristica.
«Tutti vengono a te», canta ancora
la liturgia; ma questo “andare”
è sempre all’inizio, ha sempre bisogno
di essere nuovamente sospinto
Sulla soglia del nuovo anno troviamo ad accoglierci, con sorriso rassicurante, Colei che il Concilio di Efeso ha riconosciuto a pieno titolo “Madre di Dio”. Come umile e insieme altissimo trono, ella regge sulle ginocchia il Rex Pacificus. Felicemente perciò la Chiesa ha fatto la scelta di celebrare proprio il 1° gennaio anche la “giornata della pace”.
Quasi presi per mano e guidati da Maria, ci avviamo, dunque, per i sentieri di questo nuovo spazio di tempo che il Signore ci dona per ritornare a lui con tutto il cuore.
La liturgia ci fa ancora sostare alla grotta di Betlemme, dove troviamo la Vergine Madre che, dopo la visita dei pastori, va meditando nel suo cuore quanto sta accadendo attorno a lei e quanto si va dicendo del Bambino che stringe tra le sue braccia.
Il Padre, che ha generato un Figlio per amarlo, ha creato il fratello, copia minore di quel Figlio, perché noi possiamo amarlo. Il fratello è immagine di Dio: sua progenie, frutto del suo sangue: sì che in lui si ama Dio per effigie e per rappresentanza. Né basta: il fratello è tale perché figlio d'uno stesso Padre, Dio; ridivenuto figlio di Dio per l'incarnazione, passione e morte di Gesù. Si può dire che il fratello ci è stato dato perché ci ricordi, per similitudine, Dio [...].
Il quale, perché infinito, non si può vedere con pupille limitate: lo si vede, come in uno specchio, nel fratello. Infinito, Dio non si può amare con servizi congrui alla sua infinità. Lo si può servire nei fratelli, in cui è Cristo, poiché i fratelli abbisognano di servizi limitati, congrui alle nostre possibilità.
«Entrai nell’intimità
del mio cuore…
e vidi con l’ochio
dell’anima mia
una luce inalterabile…
non era una luce terrena.
Era un’altra luce…
era la luce
che mi ha creato.
Chi conosce
la verità
conosce
questa luce».
Sant’Agostino,
Le confessioni
di Andrea Ciucci
E prima di andare a dormire, anche se è tardi, ogni membro della famiglia preghi per il festeggiato, e i genitori benedicano il proprio figlio con un segno di croce sulla fronte prima di dargli il bacio della buona notte. Anche se ha quasi trent’anni e il giorno dopo, finalmente, si sposa! nSe c’è bisogno, questo è il momento per chiedersi reciprocamente scusa e fare la pace. Infine, se il festeggiato è uno della famiglia, vivete con intensità e cura particolare la sera precedente. Cenate insieme, evitate di guardare programmi idioti alla televisione, tenete gioiosamente alto il tono della discussione.
Proseguiamo la nostra riflessione sulle singole espressioni della preghiera del Signore, sulla falsariga del “secondo modo di pregare” proposto da Sant’Ignazio: si tratta di riprendere le singole parole o frasi compiute e di pregare riflettendo su di esse, domandandosi che cosa vogliano dire, riflettendole nella nostra vita, nelle nostre azioni, nei nostri interessi quotidiani. Quando diciamo “sia santificato il tuo nome”, a quale nome ci intendiamo riferire?
Ovviamente al nome che riassume in sé tutti i titoli di Dio, elevandoli, se possibile, ancora più in alto: il nome stesso di Padre. Dio infatti non è solo l’Onnipotente, il creatore, il Giudice, il Signore: è soprattutto Padre, e questo nome di padre ci aiuta a comprendere esattamente il vero senso di tutti gli altri titoli che gli attribuiamo.
Così è un giudice come lo è un padre per i figli; è onnipotente, e questa sua onnipotenza è quella di un padre per i suoi figli; è legislatore, e in questo senso è come un padre che dà regole giuste e vere, non comandi arbitrari e dispotici, per i suoi figli. Il nome dunque di Padre rischiara ed illumina tutto quello che possiamo dire di Dio e su Dio.
di Ottavio De Bertolis
Vogliamo riprendere le singole parole della preghiera del Signore, come abbiamo fatto nei nostri incontri precedenti, per poterle gustare intimamente: molte volte le abbiamo ripetute, ma non sempre ci siamo soffermati in esse. Sant’Ignazio ci insegna proprio che è necessario “sentire e gustare intimamente” la preghiera che facciamo: il rischio sarebbe infatti quello di “dire su” orazioni, un po’ a pappagallo, certo sinceramente, ma con poco senso, e quindi con meno frutto spirituale.
Vogliamo ora considerare la seconda parola della preghiera del Signore: non solo abbiamo invocato Dio come Padre, ma in più aggiungiamo “nostro”. Non è un’aggiunta poco significativa: la preghiera infatti non ci pone in una sorta di individualismo, ma ci apre al rapporto con gli altri. Nessuno prega per se stesso, si potrebbe dire, ma ogni preghiera, anche quella rivolta per i bisogni più personali, è sempre una preghiera nella Chiesa e per la Chiesa.
Nasce in un contesto comunitario, e sfocia per il bene di tutti: proprio come le preghiere liturgiche, quelle della Messa per intenderci, non sono mai formulate in prima persona singolare, con un “io” iniziale, ma sempre con il “noi”, proprio perché sono rivolte per il bene di tutti. Così, anche se il sacerdote celebrasse la Messa da solo, dovrebbe sempre dire “preghiamo”, prima di ogni orazione.
Abbiamo già parlato del “secondo modo” di pregare secondo Sant’Ignazio, come cioè si deve semplicemente fermarsi sul significato del Padre nostro, illuminando le singole parole con ragionamenti o paragoni, in modo tale che le espressioni che noi usiamo scendano maggiormente nel nostro cuore; per gustare e capire maggiormente quello che diciamo, possiamo ripeterlo più volte, come una sorta di litania, per tutto il tempo che desideriamo, prendendocela comoda, come si dice, ossia fino a quando sentiamo interiormente che quello che abbiamo ripetuto ci illumina e conforta.
Possiamo innanzitutto partire dalla prima parola: “Padre”. Che cosa significa, e che cosa significa per me? Va, innanzitutto, osservato che Dio non è un padre come quelli che abbiamo avuto secondo la carne, ma moltiplicato, per così dire, all’ennesima potenza.
Potremmo dire, al contrario, che i nostri genitori sono “padri” tanto quanto a Lui rassomigliano, e a Lui in qualche modo rinviano. Dio non è la proiezione della nostra esperienza filiale (che potrebbe anche non essere affatto così bella o “divina”), né è un padre assente o un padre padrone; al contrario, noi siamo “padri” tanto quanto assomigliamo a Lui.
Proseguiamo la nostra riflessione sulle parole della più comune preghiera cattolica dopo il Padre nostro, seguendo in fondo lo stesso metodo indicato da S. Ignazio nel così detto “secondo modo di pregare”, quando ci invita a riflettere e a gustare intimamente le singole parole delle preghiere vocali a noi note. “Benedetta tu tra le donne”: com’è noto, l’ebraico non ha il superlativo negli aggettivi, e pertanto ricorre ad una perifrasi: così questa espressione in realtà significa “tu sei la benedettissima”, il che in qualche modo ci collega a quanto detto appena prima, ossia “piena di grazia, il Signore è con te”. Tuttavia queste parole non sono dell’Angelo che saluta la Vergine, ma di Elisabetta, nell’episodio della visitazione.
Vogliamo imparare a pregare con una delle preghiere più semplici e comuni del popolo cristiano, l’Ave Maria. Dopo il “Padre nostro” è certamente la più frequente sulle nostre labbra, ed è importante capire che cosa diciamo mentre preghiamo. La parola “Ave”, com’è noto, in italiano non significa niente, ed ha senso solo quando noi la usiamo in questo contesto, in quanto tutti noi sappiamo che comunque intendiamo ripetere il saluto che l’Angelo rivolse a Maria nell’annunciazione: anzi, è lo stesso suo saluto, e questo mostra innanzi tutto come sia una preghiera ispirata alla sacra scrittura, che trova le sue radici in essa.
“Ave” è un’espressione latina, che traduce il verbo greco “cháire”, che significa esattamente “rallegrati”: “Ave Maria” significa quindi “rallegrati Maria”, ed è una citazione del profeta Sofonia, quando questi invita Gerusalemme a rallegrarsi perché si sono compiuti i tempi messianici. In tal modo, con questa espressione che troviamo nel vangelo di Luca, e che Luca riprende dall’Antico Testamento, contempliamo in Maria la vera “figlia di Sion”, la personificazione di Gerusalemme, la fede dell’Antico Testamento compiuta e perfetta.
Santa Teresa d’Avila affermava che nel “Padre nostro” le prime tre domande sono rivolte, rispettivamente, alle tre Persone della santissima Trinità: così, come abbiamo visto la volta precedente, “sia santificato il tuo Nome” è la preghiera che rivolgiamo al Padre; in tal modo, “venga il tuo regno” è la supplica che rivolgiamo al Figlio.
Chiediamo così che venga il regno di Cristo: non solo in noi stessi, nella nostra interiorità, ma anche nel mondo esterno. In altri termini, chiediamo che all’apparente vittoria delle potenze del mondo che segnano una società basata sul denaro, sul successo, in ultima analisi sulla violenza dell’uno sull’altro, si sostituisca la vittoria evangelica della potenza di Gesù, che confermi i miti, i misericordiosi, i poveri, nel suo servizio, e li sostenga nella costruzione di una comunità più giusta e più umana. Infatti il regno di Gesù è la piena realizzazione delle aspirazioni di verità, di bontà, di giustizia, che sono proprie degli uomini. Non è una teocrazia, o una specie di “governo della Chiesa” o “dei preti”, ma è il regno e il governo del bene.
Nell’itinerario di “rivisitazione” dei documenti del Concilio Vaticano II non può mancare un’attenzione particolare alla Costituzione pastorale Gaudium et Spes sulla Chiesa e il mondo contemporaneo. Tra tutti i documenti conciliari forse questo poteva essere considerato meno interessante per chi aveva abbracciato la vita monastica claustrale, la quale è, per sua natura, vocazione di “separazione dal mondo”. Ma già alla lettura del Proemio ci si poteva convincere che non era affatto così. Personalmente, lo sentii subito molto consono al mio modo di intendere e vivere la mia vocazione, che era andata maturando proprio nei difficili anni della guerra e dell’immediato periodo post-bellico, quindi a contatto con la più atroce e insensata violenza, a contatto con il dolore umano, nell’esperienza dell’impotenza a lenire tanta sofferenza e a fasciare le ferite di tanti cuori…