Varie sono le difficoltà che rendono più difficile all’uomo di oggi coltivare la Parola per esserne interiormente abitato e fortificato. Innanzitutto il clima di dispersione dell’attuale cultura delle immagini e delle comunicazioni, dove le parole si moltiplicano e si svuotano di senso, e inoltre un diffuso attivismo con sovraccarico di impegni, per cui il tempo non ha più il suo ritmo, le sue feste; ne consegue uno stato permanente di stanchezza, di stress che genera una incapacità, quasi una insofferenza, a fermarsi per dedicarsi gratuitamente alla preghiera e alla lectio divina, ossia allo stare regolarmente a colloquio, a cuore a cuore, con Gesù, per crescere in quella conoscenza che è amore. Infatti, la Parola di Dio non trasforma l’uomo se non scende nel suo cuore e non vi dimora, proprio come avvenne in Maria nel mistero dell’Incarnazione e come Gesù stesso diceva agli apostoli: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23).
Preghiera e missione gemellati nell’azione. Accanto a San Francesco Saverio, non a caso è stata proclamata compatrona delle missioni Santa Teresa di Gesù Bambino, la quale mai si allontanò dalla Francia, ma consumò la sua breve vita entro le mura del Carmelo di Lisieux.
«I Padri conciliari… sentendo profondamente il dovere di diffondere dappertutto il regno di Dio, rivolgono un saluto affettuosissimo a tutti i messaggeri del Vangelo, a coloro specialmente che soffrono persecuzioni per il nome di Cristo, e si associano alle loro sofferenze. Sono anch’essi infiammati da quello stesso amore, di cui ardeva Cristo per gli uomini. Consapevoli che è Dio a far sì che venga il suo regno sulla terra, insieme con tutti i fedeli essi pregano perché, mediante l'intercessione della Vergine Maria, degli apostoli, le nazioni siano quanto prima condotte alla conoscenza della verità (cfr. 1 Tm 2,4) e la gloria di Dio, che rifulge sul volto di Cristo Gesù, cominci a brillare in tutti gli uomini per l'azione dello Spirito Santo (2 Cor 4,6)».
Come abbiamo già avuto modo di vedere, i documenti conciliari trattando i vari ambiti della Chiesa, mettono in chiara evidenza la caratteristica comunionale della vita cristiana. In forza del battesimo, la persona – che già a livello semplicemente naturale esiste solo se è in relazione vitale con gli altri – entra a far parte di una nuova famiglia di ordine soprannaturale. Elemento costitutivo della famiglia dei figli di Dio –– è la comune vocazione alla santità. In quanto cristiani, dunque, abbiamo tutti davanti un’unica mèta, un fine meraviglioso, che dovrebbe ogni giorno dare slancio alla nostra vita: l’anelito alla piena comunione con Dio, attraverso la progressiva conformazione a Cristo, il Figlio che si è fatto uomo, nostro Fratello, per mostrarci il Volto del Padre e condurci a Lui.
La mia ormai lunga esperienza di formatrice e di guida spirituale nella vita monastica mi conferma sempre più che veramente soltanto l’Amore fa crescere la persona umana e fa fiorire le anime nella santità, anche quando esse sembrano fili d’erba avvizziti, senza potenzialità di riprendersi. L’educazione è un miracolo dell’amore, dello Spirito Santo che agisce con tutti i suoi doni di grazia.
Qui troviamo tutto. Durante la scansione delle dieci “Ave”, possiamo fare memoria delle parole di Gesù: Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno. E’ la grande assoluzione che Gesù ha donato a tutto il mondo, quel mondo che pure, quando Egli venne tra i suoi, non lo ha voluto accogliere. Gesù ci mostra il Padre in queste parole, e in particolare ci mostra la Sua giustizia: infatti non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Lui che ci ha amato per primo. Ancora, san Paolo afferma che Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza – quella disobbedienza che ci è denunciata e rivelata al tempo stesso dalla legge – per usare a tutti misericordia. Possiamo sentire intimamente come questa misericordia, il perdono di Gesù su noi, avvolge tutti gli uomini, credenti e non credenti, vicini e lontani: anzi, in Cristo tutti noi che eravamo i lontani – lontani cioè da Dio per le nostre colpe – siamo diventati i vicini. Allora, visto che siamo stati perdonati, possiamo perdonare: contemplare il perdono di Gesù su tutti noi, perdono ingiustamente concesso perché nessuno lo aveva meritato, ci aiuta a perdonare a nostra volta, superando ogni divisione e inimicizia.
Nessuno di noi sale al Calvario volentieri: questo è certo, e c’è di che raffreddare le nostre emozioni illusorie. Del resto, tutto è scritto nel Vangelo: è il Cireneo uno che aiuta Gesù a portare la croce. Ma chi era questo uomo di Cirene, appunto, una regione, tra l’altro, semi pagana, dove il culto non poteva essere osservato in tutta la sua purezza legale, secondo cioè i precetti di Mosè? Era uno che ritornava dalla campagna, dopo una giornata di duro lavoro; si trovò di fronte una scena abbastanza normale per quei tempi, cioè uno squadrone di polizia che portava al supplizio un poveraccio, accusato di sedizione, dunque di avere cospirato contro il potere di Roma, inviso agli scribi e ai farisei, cioè in fondo alle persone più in vista e verosimilmente più pie di tutto Israele.
Quante volte nella Scrittura troviamo espressioni come: “Illumina su di noi il tuo volto, Signore”. Ed ecco come quelle invocazioni sono state esaudite: Dio mostra il Suo volto nel Figlio, perché davvero chi vede lui vede il Padre; ed il Figlio mostra la Sua gloria non nella logica umana, ma nella sua sapienza, che è follia agli occhi di questo mondo, cioè nel Suo volto schernito, deriso, sfigurato, facendosi “uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia”, secondo Isaia.
Infatti davanti a tutti i poveri noi giriamo il volto da un’altra parte, proprio perché ci è difficile sostenere il loro sguardo; ma così chiudiamo gli occhi davanti a Gesù stesso, in loro realmente presente. E così la contemplazione di questo mistero deve portarci lungo due binari, che poi sono il medesimo: da un lato il contemplare Dio, come si è manifestato, e dall’altro contemplare gli uomini, i loro stessi volti come immagine e somiglianza del volto di Dio.
Contemplare la flagellazione del Salvatore significa entrare nel mistero per il quale Egli scelse di salvare il mondo precisamente umiliandosi, ossia rinunciando a quel che gli sarebbe spettato per diritto, a quel che era giusto, a quel che sarebbe stato dovuto. La flagellazione è dolorosa non solamente dal punto di vista fisico; ciò che la rende veramente insopportabile è la sua ingiustizia. Gesù è continuamente provocato durante il suo processo: ma Egli non aprì bocca, non fece valere le sue ragioni, non chiese nemmeno al Padre una legione di angeli che lo liberassero. Rinunciò a farsi giustizia, a fare valere i suoi diritti, affidando al Padre la sua causa, rimettendo la propria sofferenza nelle Sue mani.
Possiamo contemplare la scena, mentre recitiamo le “Ave Maria”: qui è vedere come il Signore è prostrato a terra, e supplica il Padre di avere misericordia dei suoi discepoli, che stanno per abbandonarlo, e di tutto il mondo, che non lo ha accolto. Si adempiono qui le parole del Salmo: “Mi angustiavo come per l’amico, per il fratello; come in lutto per la madre mi prostravo nel dolore”; e noi sappiamo che Gesù ha chiamato fratello, sorella e madre coloro che fanno la volontà del Padre suo: e compiere la volontà del Padre è credere a Colui che Egli ha mandato.