In ultima analisi potremmo rispondere molto semplicemente e in maniera sbrigativa che non sappiamo nulla, perché i Vangeli e gli altri scritti del Nuovo Testamento non ci dicono nulla dell’aspetto fisico di Gesù. Cogliamo nei racconti evangelici alcuni suoi momenti di commozione, di turbamento, di gioia, perfino di angoscia; lo vediamo piangere, soffrire, allietarsi, persino scherzare, dormire e mangiare come anche camminare e affaticarsi. Veniamo anche a conoscenza della sua relativa giovinezza: Lc 3, 23 ci racconta che «Gesù quando iniziò il suo ministero aveva circa trent’anni».
In questi mesi, dalla celebrazione del Sinodo dei Vescovi sull’Amazzonia dell’ottobre scorso, il celibato sacerdotale ha spopolato sui web, sulla stampa e nei discorsi. Ma quanti hanno saputo documentarsi, prima di allinearsi alle opinioni di tanti “bar dello sport”?
Nell’“emergenza educativa” che investe oggi il mondo giovanile, e non solo, grande spazio è dato alla necessità di ritornare all’incontro con un buon libro, staccandosi dalla dipendenza maniacale del web. Leggere amplia i nostri orizzonti, nutre lo spirito e ci aiuta a dar voce al nostro mondo interiore. Spesso è stato questo l’avvio alla conversione per molti peccatori. Lo ricorda san Josemaria Escrivà: «Non tralasciare la lettura spirituale; la lettura ha fatto molti santi».
Non è mai stato difficile professare la propria fede cristiana: lo testimoniano già gli scritti del Nuovo Testamento e le varie epoche della Chiesa. Nessuna meraviglia quindi che lo sia anche oggi in questo nostro «cambiamento d’epoca», come ebbe a definirla papa Francesco nell’incontro con i rappresentanti del quinto convegno nazionale della Chiesa italiana a Firenze il 10 novembre 2015.
Che la storia sia “maestra della vita”, al dire di Cicerone, sono in tanti a dimenticarlo e così periodicamente ci si ritrova a fare i conti con i medesimi errori già compiuti e con le conseguenze da pagare. In questo giorni n cui, in Italia, si dibatte l’annosa questione della lotta all’evasione fiscale, sarebbe bene ricordare l’esperienza del dopoguerra in questo settore. L’evasione era cresciuta, e ognuno si autogiustificava. Però poi lo Stato invertì la marcia, perché diminuendo le imposte ed essendo più sopportabili, i cittadini si sentivano invogliati a impegnare i redditi che prima tenevano occultati, e così si fece strada la mentalità del valore etico del sistema fiscale. Dal 1949 al 1956 il gettito fiscale aumentò del 58%, mentre la spesa pubblica era salito del 48%.
Per comprendere questa bellissima invocazione, dobbiamo andare all’Antico Testamento, e per la precisione al profeta Ezechiele. Tutti ricorderete che al cap. 47 abbiamo una visione molto significativa: «[L’angelo] mi condusse all’ingresso del tempio e vidi che sotto la soglia del tempio usciva acqua verso oriente […] dal lato destro […] poi mi fece attraversare quell’acqua: mi giungeva alla caviglia […] poi […] mi giungeva ai fianchi […] le acque erano cresciute, erano acque navigabili, un fiume da non potersi passare a guado» (Ez 47, 1-5).
Questa litania sembra forse un po’ troppo “filosofica”, e in questo senso può non piacere a tutti. Così la pensavo anch’io, ma poi ho scoperto che in realtà ci rivela davvero il senso della spiritualità del Cuore di Cristo. Infatti il cuore di una persona è rivelato da ciò che quella persona dice, fa, o, ancora di più, mostra in se stessa; così per il Cuore di Cristo.
Per comprendere questa preghiera dobbiamo richiamare il Vangelo, e precisamente quando è detto che «lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo» (Lc 1, 35). La parola dell’Angelo a Maria richiama poi la presenza della Gloria di Dio nel santuario costruito nel deserto, a indicare che Maria è il nuovo e vero Santuario, il luogo ove Dio pone la sua tenda in mezzo a noi, del quale l’antico era solo ombra e figura: «allora la nube coprì la tenda del convegno e la Gloria del Signore riempì la Dimora. Mosè non poté entrare nella tenda del convegno, perché la nube dimorava su di essa e la Gloria del Signore riempiva la dimora» (Es 40, 34-35).
di Ottavio De Bertolis
Tutti Conosciamo le Litanie del Sacro Cuore: approvate da Papa Leone XIII nel 1899, sono un modo semplice e profondo di invocare il Cuore di Gesù, contemplato sotto varie aspetti e in diverse figure. Con oggi, iniziamo a proporre ai nostre lettori qualche riflessione sulle singole litanie, perché più facilmente possano sentire e gustare la profondità delle Scritture ivi racchiusa e in qualche modo concentrata. Iniziamo quindi dalla prima.
Da Gerusalemme a Gerico la strada è ripida, tortuosa, su un paesaggio di rocce aride che solo verso il fondovalle del Giordano si copre d'un oasi lussureggiante. Da Gerusalemme, 755 metri sul livello del mare, si scende al livello del Mar Morto, 400 metri sotto rispetto ai liberi mari della terra.
L'intero capitolo 12 di Luca è ispirato alla vigilanza e alla preveggenza. Un tema che evidentemente interessava a Pietro, il quale a un certo punto interviene - appunto - direttamente per chiedere se la necessità di essere “sempre pronti” riguardava i soli discepoli, o chiunque. Gesù risponde con un’altra famosa parabola: quella del servo accorto, che si fa sempre trovare al lavoro dal suo padrone in quanto non si stanca mai di fare il suo dovere interpretando la volontà del signore, a differenza di quello improvvido che fa i suoi comodi confidando nel fatto che non verrà scoperto. Il padrone, difatti, ama far delle improvvisate: giunge nei momenti più impensati, quando nessuno se lo aspetta. E punisce chi coglie in fallo, premia chi trova in regola.
Il lievito, la farina, il pane. Immagini pacifiche di una lontana civiltà contadina. E immagini sacrali, simboli che di continuo precorrono il Mistero. Il Vangelo si presenta sempre così: e, in quella donna che impasta il pane, noi vediamo in controluce già un accenno all'eucaristia. Ma il lievito - assente dalle specie visibili del sacramento eucaristico nella tradizione occidentale; presente invece in quelle delle Chiese orientali - è ancora una volta il regno dei cieli, inteso non tanto come realtà escatologica quanto piuttosto come presenza reale, sostanza della fede di chiunque crede e vuol vivere il messaggio cristiano. In questo senso - senza immanentismi o millenarismi di sorta - possiamo dire che il regno dei cieli è già qui, fra noi e con noi.
«Chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio...» (Lc 12, 16-21)
di Franco Cardini
Dalla Galilea, Gesù si sposta verso Gerusalemme dove affronterà la Passione. è, questo suo, un viaggio denso di avvenimenti e di significato: l’incontro con i samaritani che si rifiutano di riceverlo, il contatto con tanti che chiedono di seguirlo – e ai quali egli propone con durezza le sue condizioni –, l’organizzazione dei discepoli inviati due a due nelle varie località nelle quali Egli intendeva annunziare il suo messaggio, l’annunzio dell'elezione dei “piccoli”, le polemiche con i farisei, la visita a Betania, la fondazione della preghiera cristiana che tale resterà per eccellenza, il Pater; è durante questo viaggio che viene narrata anche la parabola del «buon samaritano».
Dobbiamo a Luca – e quindi all'insistenza della testimonianza di Pietro – il rilievo di questo viaggio, che non è presente in questa forma e con questi medesimi intensità e significato negli altri due «sinottici». Il viaggio di Gesù, come lo narra l’evangelista Luca, diventa davvero paradigmatico per la condizione di tutta la Chiesa pellegrina sulla terra e del cristiano stesso, pellegrino nella vita. Non a caso è a queste pagine che si ispirò soprattutto Francesco d’Assisi per la formulazione della sua norma di vita, specie per quel che riguarda la povertà.
Sappiamo tuttavia poco, sul piano storico, di tutto questo episodio. Ad esempio ci sfugge quasi del tutto l’effetto della predicazione dei discepoli, per quanto Luca testimoni che esso fu straordinario. Se davvero fu così, già da questo momento Gesù cominciò a venir sentito come un pericolo per la casta sacerdotale che già sentiva malfermo il suo prestigio fra gli ebrei e per i farisei che riducevano la Legge alle questioni formali. è sintomatica la sequenza istituita da Luca nei capitoli 10-12: privilegio dei piccoli e degli indotti sui sapienti; comando supremo dell’amore rivolto essenzialmente a Dio e poi al prossimo da amare nella stessa misura nella quale si ama noi stessi; elogio della contemplazione rispetto alla quale la vita pratica – lungi dall’essere sottovalutata – viene tuttavia collegata a quelle cose che saranno tolte all’uomo, e che quindi non gli sono essenziali; preghiera del Pater; denunzia dell’ipocrisia e del formalismo rituale nella misura in cui (e solo in quella misura) non viene accompagnato da una corretta disposizione d’animo; esortazione contro la cupidigia poiché «anche se uno è in abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni».
E qui, appunto, si situa la parabola del ricco sconsiderato: la più «attuale» e «moderna» forse, sotto il profilo psicosociologico, fra le parabole del Vangelo. Un uomo ricco ha avuto un raccolto particolarmente abbondante: felice, stabilisce quindi di costruire granai molto grandi, raccogliervi tutti i suoi beni e quindi ritirarsi a goderne in pace e opulenza i frutti. Ma Dio lo avverte: egli è ormai alla fine della sua vita, e tutto quel che si era preparato per sé andrà ad ignoti.
Non celiamoci il senso di malinconia profonda che ci sentiamo dentro ogni volta che rileggiamo questa pagina. Perché è la vita di noi tutti – e soprattutto di noi gente del XX secolo che vive correndo senza sosta dietro al danaro e al successo – quella che impietosamente Gesù qui ritrae. Il raccolto si fa dopo la semina; è sempre e comunque una fase posteriore alle altre. E quante volte chi è arrivato vicino a dove voleva arrivare – e per arrivarci ha sacrificato se stesso, i suoi cari, magari anche i suoi principi e i suoi ideali – si sorprende a riflettere malinconicamente che «la vita dovrebbe esser vissuta a rovescio», e «che non si sta mai bene»! Il tizio se ne va... poveraccio, proprio ora che si era sistemato, dopo una vita di sacrifici!
Malinconie. E non dobbiamo nemmeno nasconderci che sì, in fondo le cose stanno proprio così: è molto crudele che all’affannarsi di tutta un’esistenza non sempre corrisponda poi il dono di un po’ d’anni di tranquillo benessere. Perché – e anche questo va detto: perché noi occidentali amiamo molto vivere per il danaro e il successo e poi affettarne disprezzo se e quando ne parliamo – la ricchezza, il prestigio, la fama, gli onori non sono per nulla una maledizione. Anni e anni prima di falso ascetismo cristiano perseguitato peraltro solo a parole, poi di insana demagogia, ci hanno abituato al conformistico luogo comune che ricchezza e benessere siano qualcosa di cui ci si debba vergognare. Com’erano più saggi i nostri padri della Bibbia, che consideravano giustamente una benedizione di Dio la coppa di vino piena, il gregge ricco di agnelli, la vigna colma di grappoli...! Solo che, se questo è vero, non è meno vero che ricchezza e benessere tirano in basso, che fanno dimenticare il resto, che rendono duri e ottusi. In questo senso, e solo in questo senso, è più facile che un cammello passi dalla cruna d’un ago che un ricco si salvi.
A Dio che gli chiedeva che dono volesse, il giovane Salomone chiese la sapienza: che è, nell'esegesi teologica, la Pistis-Sophia, la Seconda Persona della Trinità, il Cristo. E Dio, al giovane tanto prudente da chiedere la sapienza, concesse anche tutti gli altri doni che si è soliti pensare propri di un sovrano. Questo chiedere il Cristo, questo cercare il Cristo come centro della propria esistenza è il nucleo della parabola. Il ricco dissennato non è tale perché pensa di godersi le sue ricchezze: è tale perché vive ed agisce come se al di fuori di esse non ci fosse altro e come se esse fossero tutto. E, in tal senso, il problema non è quello della speranza di vita, bensì della qualità che alla vita si vuol attribuire.
Qualcuno ha detto che nella vita si dovrebbe imparare ad agire come se ogni atto fosse l’ultimo che su questa terra ci è concesso di fare, e imparare al tempo stesso a pensare come se si dovesse vivere per sempre. Che significa proprio questo: fedeltà alla nostra misura umana nelle scelte e nelle azioni, fermo e profondo radicamento nel Cristo per quanto riguarda il pensiero.
Questa parabola mi ha sempre ricordato un passo fra quelli - per la sensibilità di noi cristiani contemporanei - più “imbarazzanti”, scritto da un padre che, quanto a testi “imbarazzanti”, non ha forse chi possa uguagliarlo. Nel 1147, il sublime e terribile Bernardo di Clairvaux predicava la crociata. Lo si rimprovera spesso di averlo fatto; e ci si dimentica che, appunto in tale circostanza, egli intervenne duramente in Germania contro i pogrom organizzati da alcuni predicatori vagabondi ai danni degli ebrei, e ricordò ai fedeli come il dolore d’Israele nel mondo fosse figura del Cristo che passa per le strade della Città Santa portando sulle spalle la croce. Ma troppo spesso la memoria storica rammenta e scorda quel che più le fa comodo. Bernardo predicava quindi la crociata. E, rivolto ai cristiani, diceva: «Se siete accorti mercanti dediti al guadagno, v’indico io una merce preziosa. Prendete il segno della croce (il che, significava sì partire per la crociata, ma essenzialmente a titolo di penitenza), e fate sì che la merce preziosa che io vi indico non si guasti». Un passo che si potrebbe interpretare in molti modi: e dove colpisce soprattutto la similitudine fra il legno della croce e quelle merci medievali per eccellenza ch'erano appunto le spezie, sovente prodotte da alberi e arbusti. «Il legno profumato della croce» è un’espressione molto cara ai mistici: e sa di porti, di mercati, di vita concreta ancor prima e piuttosto che non di chiostri monastici e di sagrestie.
Tutti noi siamo mercanti, e mercanti alla medievale: gente che cammina e naviga per le strade e sui mari della vita, e che cerca (spesso senza trovarla) la sua fortuna, la sua perla rara. In una bella poesia, Cardarelli parla di un’adolescente ancora vergine e dell'uomo che l'avrà per primo: forse uno che non sarà in grado di apprezzare quella meravigliosa perla rara, un ignaro pescatore di perle. Ma per i pescatori di perle, quel che essi pescano non è affatto prezioso. Le cose non hanno tanto un valore obiettivo, assoluto, quanto uno relativo, quel che noi siamo disposti a conferir loro. Il pescatore di perle rischia la vita per strappare al mare qualche sferetta traslucida che gli viene pagata pochi soldi: soltanto sul banco del gioielliere, in fondo, la perla diventa quel che noi siamo abituati a considerare che sia. La ricerca di quella perla per la quale vale la pena vendere tutti gli averi è un fatto strettamente personale: ognuno cerca la sua perla, e i più fortunati di noi riescono a individuarla anche sotto la crosta della salsedine che la fa sembrare cosa da nulla; mentre molti, al contrario, buttano la loro vita per una pallina di vetro colorato.
Pure, la parabola del mercante e della perla ha nel suo fondo qualcosa di inestricabilmente ambiguo, e c’è da chiedersi se la critica filologica riuscirà mai a venirne davvero a capo. Di solito la s'interpreta come segue: il regno dei cieli è simile alla situazione del mercante che trova la perla e la compra vendendo ogni suo avere. Quindi, Gesù presenta una situazione nella quale il vero simbolo del regno dei cieli è la perla, e il consiglio che egli ci dà è di barattare con esso qualunque altra cosa, tendere solo ad esso e al suo possesso.
Ma il testo consente forse un'altra interpretazione. Il regno dei cieli, se vogliamo addirittura - Iddio e magari Iddio incarnato - è lui il mercante, che corre le strade del mondo alla ricerca di un vero tesoro. I lapidari medievali, cioè quei trattati che esponevano le virtù delle pietre preziose dal punto di vista magico simbolico, dicono spesso che la perla è il simbolo del Cristo, che cela la preziosità della sua natura divina entro l'involucro umano della conchiglia marina. Ma se rovesciamo le cose, e vediamo il Cristo nel mercante e magari la sua natura umana nella perla, sì, ma facendo attenzione al senso ultimo del pregio di quest’ultima, il discorso cambia. Allora è Dio che ci cerca, Dio che ci vuole, Dio che lascia tutto per ciascuno di noi. E ciascuno di noi può essere la perla preziosa chiamata a costituire la totalità del tesoro divino. Un senso nuovo, pieno, assoluto, da conferire alla nostra vita: non più come cercatori, ma come cercati. E come bisognosi di renderci degni della ricerca di cui Dio ci fa oggetto.