Nella nostra società del benessere e dell’apparire, il Natale si è trasformato in uno sfolgorio di luci per gli occhi del corpo; ma, per chi davvero crede, il Natale, è la festa della vita e nell’anima si accende una luminosa fontana di speranza.
In un mondo spiritualmente anemico, la speranza continua ad essere una insostituibile nervatura che ci permette di camminare e di guardare con fiducia e a schiena dritta il futuro.
A Natale celebriamo l’evento straordinario del Creatore dell’universo che si fa creatura. Dio, definitivamente, decide di porre fine al suo esilio concreto e tangibile dalla storia umana.
Nel momento opportuno, che san Paolo chiama “pienezza dei tempi”, una giovane famiglia arriva a Betlemme: la donna, Maria, è incinta di luce divina e l’uomo, Giuseppe, le sta accanto con verginale stupore in attesa dell’esplosione di una luce intramontabile. Sta per nascere una luce che non conoscerà tramonto. In quel Bambino che sta per nascere è racchiusa la pienezza della vita, è la luce degli uomini - scriverà l’evangelista san Giovanni nel prologo del suo Vangelo - «la luce splende nelle tenebre e le tenebre non vinceranno».
Da quel nido di amore si è aperta una vela e il vento, impregnato di luce e dal canto degli angeli, ha condotto i pastori a riconoscere e adorare Dio, nella fragilità della carne di un bambino. Dio ha deciso di mettere la sua tenda solidale nell’accampamento dei poveri.
In quella notte sul volto dei pastori, indurito dal freddo dell’inverno, era riflessa una luce misteriosa che donava ai loro occhi lo stupore di essere testimoni di un evento irripetibile: Dio si è rivestito di carne umana ed è apparso tra noi.
Sul “natale” di Dio tra noi non cala mai il sipario. Da quella notte gli angeli continuano a volare sulle nostre strade, il cuore degli uomini e delle donne è divenuto la loro dimora e sempre sono pronti ad intonare l’inno della gioia. Le note musicali della gioia nascono dal grembo della speranza. Senza l’energia della speranza tutto è pietrificato. Il più grande regalo che Dio, a Natale, appende all’albero della vita è la speranza: la stella più luminosa nel percorso dell’esistenza umana.
Per questo Gesù non ha voluto nascere in una reggia, nei palazzi del potere, ma nella periferia di un piccolo borgo con un nome affascinate e significativo: Betlemme, che vuol dire: «casa del pane».
Dicevano i latini che «nomen est omen»: il nome è il destino di una vita. Nome bello, quindi, vita bella, gustosa come la fragranza del pane appena sfornato.
Da quel giorno, negli accampamenti dei poveri, la speranza si fa pane di vita, scommessa sul futuro, pane della condivisione, pane dell’amicizia e pane della fiducia nell’amore misericordioso di Dio.
La speranza è come il respiro per la vita. Il respiro è un soffio leggero, impercettibile, silenzioso come una carezza, ma capace di fornire energia al nostro organismo per pensare, camminare, progettare, agire.
Un poeta, che come tutti i poeti possiede l’arte di far cantare e danzare con le sue parole una realtà inanimata, ha paragonato la virtù della speranza ad una timida e gracile fanciulla accompagnata al mattino a scuola dalle due sorelle maggiori, la fede e la carità. Queste due sorelle maggiori - immagina il poeta Charles Peguy - la tengono per mano quasi a sostenere la fragilità della sorellina più piccola, ma in effetti è lei, la speranza, a sostenere il loro passo. È la nervatura della speranza che dona stabilità sia alla fede sia alla carità.
Nella notte di Natale ci metteremo in adorazione davanti a Gesù, in compagnia della nostra “sorellina”, la speranza, e solo con la sua luce scorgeremo la presenza degli angeli e negli occhi di chi ci sta accanto scopriremo il riflesso della gioia per la nascita di questo bambino che ci dona un tempo senza fine, un giorno senza tramonto, un desiderio di pace e la voglia di costruirla.
Il Natale non sia solo una data, ma un canto perenne alla vita seminata di un amore che si fa immortalità.
Auguri per un felice Natale del Redentore e per un nuovo anno speso nel condividere la gioia evangelica della vita.
«Gli antichi dicevano che pregare è respirare. Qui si vede quanto sia sciocco voler parlare di un “perché pregare”. Perché io respiro? Perché altrimenti morirei. Così la preghiera». Questa citazione di Søren Kierkegaard, che fu filosofo, teologo e letterato, quindi esperto del vivere umano, ci introduce a comprendere anche gli avvenimenti dei tre pastorelli di Fatima.
Un evento, un’email, un’emozione e la certezza che il raccontarsi è il respiro delle comunione tra le persone. In un venerdì di quaresima di quest’anno papa Francesco ha voluto far risplendere la perla di un’opera di misericordia visitando l’Istituto per ciechi Sant’Alessio. Il giorno successivo il direttore del Sant’Alessio, Amedeo Piva, amico solidale nel coltivare il bene, mi ha invito un’e-mail raccontandomi l’evento vissuto in prima persona.
«La speranza è la balia della vita cristiana». Mi piace questa definizione perché sono persuaso che la fede e la carità ricevono linfa ed energia per offrire alla nostra carne mortale un frammento di eternità attorno al quale costruire un’esistenza come persone libere dalle molteplici schiavitù che attentano la vita. Le nostre schiavitù non portano le catene ma sottili e invisibili fili che mortificano le qualità grandi presenti in ogni vita. Per la nostra fede Cristo, il risorto, è il vincitore non solo della morte fisica ma di tutti i condizionamenti che appesantiscono il cammino della santità.
Nella Bibbia il libro del Qohèlet è uno scrigno di saggezza. Qohèlet Un volto che si fa parola e parole che si fanno creature viventi e protagoniste di una storia. è un predicatore che dà risposte, ma soprattutto sa fare domande, come quando si interroga chiedendosi: «Quale profitto c’è per l’uomo in tutta la sua fatica e in tutto l’affanno del suo cuore con cui si affatica sotto il sole?».
Nella vita, a volte, capita che un “particolare” rubi la scena all’essenziale. È come quando con l’indice si mostra la luna e il nostro interlocutore si limita a guardare il dito e non la luna. Qualcosa di simile è capitato anche per la festa della Presentazione di Gesù al tempio che la liturgia celebra il 2 febbraio, quaranta giorni dopo il Natale. La cosiddetta “candelora”, “una piccola candelina” nel passato aveva rubato la scena alla sorgente della luce.
Ogni momento della nostra esistenza, fecondata dalla potenza della grazia di Dio, inizia “Nel nome” di quel Padre, che Gesù ci ha rivelato non come un imperatore despota, ma un padre tenero che dall’eternità ci ha chiamati per nome e ci segue con amore. L’inizio di un anno è sempre un momento di “preventivi”. Si investe il tempo in progetti futuri, sogni, desideri e si programmano le tappe auspicando benessere fisico e spirituale.
Con la nascita di Gesù Dio “mette su famiglia”, realizza il suo sogno d’amore; entra nella vita umana; assume la carne di una donna e il Dio invisibile, cercato nelle coordinate della natura, accende la luce per un primo passo verso l’eternità.
In quella grotta inizia un altro capitolo, il definitivo, della “genesi”. Da quel momento vedere Gesù è vedere il volto del Padre. Nella tradizione ebraica, commentando il capitolo della creazione, descritto nel libro della Genesi, si racconta che «In principio Dio creò il punto di domanda e lo depose nel cuore dell’uomo». La folla di domande che agitano la vita dell’uomo, contengono tesori, aprono le piste alla rivelazione che conduce alla porta della casa di Dio.
Il mese di novembre inizia con uno squillo di gioia: la festa di tutti i santi. I santi ci affascinano perché sono l’immagine di Dio stampata nella carne umana. Il giorno successivo cala un velo di nebbia sull’anima. Siamo chiamati a navigare nel mare della memoria. Siamo in cammino nei sentieri del cimitero e scopriamo volti amati che ci rassomigliano per le loro virtù e per i loro peccati, per i sogni e i fallimenti, per gli ideali nobili che hanno elevato la loro vita o il tonfo sordo nella caduta, per la grettezza del loro animo.
Nella Bibbia è frequente incontrare l'immagine della sentinella che veglia sulla città. Il profeta fa chiedere: «Sentinella, a che punto è la notte?». È un ritornello che attraversa anche la nostra vita: quanto tempo manca perché possiamo vedere con trasparenza i frammenti di luce che hanno guidato i passi nell’edificare la civiltà dell’amore?
Ricorre in questi mesi il cinquecentesimo anniversario della morte di uno scrittore di cui tutti abbiamo letto o sentito raccontare: Miguel Cervantes (+1616), autore di Don Chisciotte de la Mancha. Al di là delle fantasiose e stravaganti avventure vissute dal suo personaggio, archetipo universale del cavaliere errante, nel suo raccontare Cervantes ha seminato perle di saggezza come questa: «L’arco non può star sempre teso, né la frugalità umana può resistere senza qualche legittima ricreazione».
A don Guanella sarebbe piaciuto poter chiamare i suoi sacerdoti con questo nome: “Figli del Sacro Cuore”. Desiderava che gli eredi del suo carisma di carità potessero esprimere nella loro attività una tensione di amore a imitazione del cuore di Gesù: «Quel cuore che aveva tanto amato gli uomini». Non fu possibile perché un’altra congregazione recava già questo nome e allora ripiegò su un altro, ugualmente carico di un cordiale amore e chiamò i suoi preti “Servi della Carità”, servi dell’amore misericordioso a imitazione di Gesù.
di Mario Carrera
Mi piace iniziare questa «confidenza» nel tempo pasquale con il rilancio dell’essenziale annuncio della fede cristiana: Cristo è risorto! Questo evento ha fatto rinascere l’umanità, degradata dalla corruzione del peccato, e ha squarciato i cieli proiettando luce nell’angolo più oscuro dell’esistenza umana: la morte. Il duello cosmico tra le tenebre e la luce, tra il male e il bene, tra la menzogna e la verità si è risolto in modo positivo: il riprovevole è stato sconfitto e la luce si è fatta aurora di vita. Per frantumare la creta che teneva prigioniera la luce e scrivere con l’alfabeto della risurrezione,
Mi sto incamminando verso la Pasqua di resurrezione con una parola “martellante” di san Paolo «Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo». A quei patimenti manca solo la mia solidale partecipazione, creare uno spazio, una culla calda di amore per ricevere, come dice il profeta Ezechiele, «un cuore nuovo, respirare un respiro nuovo, abbandonare il cuore di pietra e sentire pulsare un cuore di carne». Nella Pasqua si esegue un trapianto. Con la sua Risurrezione Gesù afferma: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» e sono chiamato a entrare in una realtà nuova.