Abbiamo già visto, nei precedenti articoli, pubblicati su questa Rivista ormai diversi anni fa e che ora in qualche modo desideriamo riprendere, che quella del Cuore di Cristo non è una “devozione”, ma, più profondamente, una “spiritualità”, un modo di vivere l’intera esperienza cristiana attraverso quel simbolo così significativo costituito dal Cuore di Cristo. Abbiamo anche visto che tutto questo non si basa solamente su rivelazioni private, o “promesse”, che Dio è certamente libero di fare e ha effettivamente compiuto, attraverso santa Margherita Maria e altri santi, ma piuttosto sulla Scrittura stessa, che è la pienezza della Rivelazione, dalla quale attingono i mistici stessi, e che le loro parole non fanno che confermare.
«Voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, avendo come pietra d’angolo lo stesso Cristo Gesù» (Ef 2,19-20). Il Signore ha voluto costruire la sua Chiesa con pietre scelte da Lui, da Lui levigate, da Lui collocate al posto giusto nel grande edificio.
«Quando Gesù nelle sue parabole parla del pastore che va dietro alla pecorella smarrita, della donna che cerca la dracma, del padre che va incontro al figliol prodigo e lo abbraccia, queste non sono soltanto parole…» (Deus caritas est, n. 12). Gesù è venuto nel mondo a manifestare come il Padre ami l’umanità – l’uomo perduto – fino a sacrificare per noi il suo unico Figlio, «andando – come dice ancora Papa Benedetto XVI – contro se stesso» a favore nostro. Se ci pensiamo bene, la parabola della pecorella smarrita ha tanti aspetti che ci riguardano.
«Veniamo alla parabola che più mi sconvolge. Come hai fatto, Gesù, a inventarla e a dirla? Io vorrei sapere come la dicevi? Con quale voce? Oh, vorrei sapere… pensavi allo strazio del padre? A chi alludevi? Voglio sapere se tu per caso non pensavi a me, in quel giorno o in quella sera, in quel momento…». Così ha scritto padre David Maria Turoldo commentando la parabola del figliol prodigo che, più propriamente, potrebbe essere detta la parabola del Padre misericordioso. Ciascuno sente che questa parabola è la “sua” parabola. Essa presenta una situazione molto comune. Una famiglia con due figli: uno docile, buono e quieto, l’altro irrequieto, ostinato, in cerca di “esperienze”. Il primo è tutto dedito al lavoro, l’altro reclama con arroganza la “sua” parte di patrimonio, per poi partire in piena autonomia e andare dove lo porta il cuore… E dove lo porta? In un «paese lontano», dice semplicemente il Vangelo. È la lontananza da Dio, dalla rettitudine, dal vero bene.
LA ZIZZANIA E IL BUON GRANO
Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo… Il campo è il mondo, l’umanità, in cui Dio ha seminato il buon grano: ha, infatti, mandato il suo Figlio che, come seme sepolto nella terra, è morto, portando frutti di salvezza per tutti. Semi buoni sono i sacramenti che ci dànno la grazia per vivere da figli di Dio, secondo il Vangelo. Tuttavia non sempre questo avviene. Nel campo della Chiesa e della società vi sono alcuni che operano il bene, mentre altri non si impegnano, anzi commettono il male, tanto male. Al vedere spuntare la zizzania in mezzo al buon grano, i servi della parabola si stupirono molto e subito corsero dal padrone del campo proponendogli di sradicarla. E anche noi, oggi, pensiamo proprio così: «Via i malvagi, così potremo vivere tranquilli…».
«Attraversare oggi la Porta Santa ci impegni a fare nostra la misericordia del buon samaritano». Con queste parole Papa Francesco terminava l’omelia della Santa Messa di apertura del Giubileo straordinario della Misericordia. La figura del buon samaritano ci è dunque additata come modello privilegiato in questo Anno Santo. Al cuore della parabola spicca, infatti, il verbo «ebbe compassione», un verbo che nella società violenta del nostro tempo sembra fuori uso; in realtà è il verbo più necessario da imparare a coniugare in tutti i suoi tempi e modi, come fece il buon Samaritano. La parabola nasce in risposta alla domanda che un dottore della legge rivolse a Gesù per metterlo alla prova: Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna? E Gesù rispose con un’altra domanda: Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi? Il dottore della legge rispose senza esitazione, citando esattamente il comandamento dell’amore di Dio e del prossimo (cf. Dt 6,5 e Lev 19,18). Tuttavia tale risposta lasciava aperto per lui il problema di interpretare nella concretezza delle situazioni chi fosse il prossimo.
Riconoscere la lezione della crisi, così come è stata delineata in queste riflessioni, richiede un cammino lento, doloroso, di purificazione del proprio io e dei criteri che si ritengono essere importanti circa la vita, se stessi, Dio, per rivestirsi dei sentimenti di Gesù (Fil 2,5). La fragilità, quando è riconosciuta ed accettata diventa luogo di incontro con il Signore, conoscendoLo intimamente. È sempre Paolo a riconoscerlo con stupore: «Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte» (2 Cor 12,9-10).
Le situazioni di frustrazione e fallimento possono dunque aprire a cammini opposti, di morte o di possibilità di pienezza. Per questo è indispensabile una guida spirituale che aiuti a leggere quanto accaduto nella propria vita. Questo punto però può essere facilmente frainteso: alla base infatti di un accompagnamento spirituale, è importante che la persona abbia fatto, previamente, l’esperienza fondamentale della figliol\qanza spirituale. Viceversa, la relazione si presta ad equivoci, dipendenze anche perverse, e comunque non in grado di favorire la conoscenza, la maturazione ed il progresso spirituale.
Le quattro azioni di Gesù sul pane rappresentano anche il modo offerto al discepolo di vivere la propria crisi: anch’egli come Gesù viene scelto, chiamato da Dio, benedetto, spezzato per essere dato, perché i giorni della sua vita portino frutto. Nelle azioni sul pane volutamente offerto Gesù invita i suoi a non cercare di nascondere il momento della crisi, ma di affrontarla a viso aperto, andandogli incontro consapevolmente.
Ripercorriamo in modo sommario (con il rischio di una inevitabile sbrigatività) le tappe del percorso di elaborazione della crisi. In ordine gli stadi di questa elaborazione:
1: l’incertezza. La persona si trova a confronto con qualcosa di inaspettato e di critico, senza quasi rendersene conto. La prima reazione è di negare tutto ciò cercando di continuare il corso della vita ordinaria cui si è troppo abituati. Si fa di tutto per non vedere quanto è capitato.
2: la certezza. È evidente che però non si può non fare i conti con quanto accaduto, la malattia progressiva, la morte di una persona cara, l’abbandono di un familiare, una grave perdita, lavorativa, finanziaria. A questo punto si lotta perché non sia così e ci si aggrappa a qualunque cosa.
La saggezza nell’affrontare la vita mai è frutto delle chiacchiere, quasi sempre è figlia dell’oscurità e del silenzio: crogioli di purificazione
Se è vero, come si è notato, che si invecchia come si è vissuti, il trascorrere del tempo ha il compito di saggiare e demolire le varie “maschere” con cui ci diamo un’illusione di grandezza. Forse sono proprio le resistenze al cambiamento, richiesto a vari livelli dalla nostra vita, a costituire una grande parte del problema, la causa principale della sofferenza e della sensazione di totale inutilità.
L’età dei 40 anni è per molti versi significativa, non ultimo perché oltrepassandola si varca il «mezzo del cammin di nostra vita» di dantesca memoria, trovandoci inevitabilmente a riflettere con sempre maggiore frequenza sul delicato tema della vecchiaia e della morte. “Inizia la discesa”, si suole dire, e non si può fare a meno di guardare a dove questa importante età di passaggio ci conduca. È quanto emerge a esempio in modo nitido da questa testimonianza: «Come ricordo quel periodo, all’incirca quando compii 40 anni, un’epoca in cui la mia mortalità cominciò a ossessionarmi!
In una visione volontaristica la vita è soprattutto opera dei nostri sforzi; le fragilità non possono trovare spazio, ma in questo modo non si notano più nemmeno le ricchezze e i differenti doni che costituiscono l’unicità preziosa di ciascuno. Caratteristica di questo approccio alla vita è di aver smarrito il senso della gratuità: il Signore ha cessato di essere il padrone della vigna, è diventato un collaboratore, al massimo il nostro “vicepresidente”. Per questo è bene che la crisi esploda e mandi in frantumi questo orgoglio possessivo. Il cardinale Daneels, arcivescovo di Bruxelles, confidava in proposito: «Quando torno a casa dopo una lunga giornata di lavoro, vado in cappella e prego. Dico al Signore: ‘Ecco, per oggi è finita. Adesso, siamo seri, questa diocesi è tua o mia?’ Il Signore dice: ‘Tu cosa ne pensi?’ E io rispondo: ‘Penso che sia tua’ ‘È vero, dice il Signore, è mia’. E allora dico: ‘Allora, Signore, tocca a te prendere la responsabilità della diocesi e dirigerla.
La crisi dell’età di mezzo rivendica un ritorno verso di sé, una presa di coscienza delle proprie fragilità di fondo, talvolta negate, o rimosse, o trasferite su altre cose, come il successo, l’attività, la professione, le scelte apostoliche, intellettuali, affettive. Questo momento di arresto è di per sé positivo, è un invito a fare verità e recuperare elementi finora disattesi della storia e del proprio essere; non per nulla la personalità di tipo grandioso, indicata in psicologia con il termine di narcisista, ha più possibilità di trarre beneficio da un lavoro di accompagnamento e conoscenza di sé dopo i 40 anni di età: «Nella crisi della mezza età non si tratta di trovare una soluzione al venir meno delle forze corporali e di mettere ordine a nuovi desideri e nostalgie che spesso irrompono in questa svolta della vita. Si tratta piuttosto di una più profonda crisi esistenziale, in cui viene posta la domanda sul senso globale del proprio essere: “Perché lavoro tanto? Perché rischio l’esaurimento senza trovare tempo per me?” La crisi di mezza età è per sua natura una crisi di senso» (Grün).