Gesù disse: “Io sono il pane che dà la vita. Chi si avvicina a me con fede, non avrà più fame; chi mette la sua fiducia in me, non avrà più sete” (Gv 6, 35)
Il pane, la vita, la fame e la sete. Il Signore ritorna, qui, sull’affermazione centrale, che fa riferimento a lui stesso: «Io...», questo «io» che esce dalla bocca di Gesù, e che è il segno della sua coscienza totale. Gesù sapeva bene chi lui era, quale era la sua missione, quale era il suo cammino, quale era la volontà del Padre che lo aveva inviato, che lo aveva generato nell’eternità e nella storia, quale era il cammino che avrebbe dovuto percorrere insieme con in fratelli, questi poveri, piccoli, ignoranti, deboli peccatori che lui ha scelto attorno a sé e vuole attirare con sé fino al Padre.
Siamo ancora in emergenza Coronavirus. La pandemia dichiarata dall’Oms sembra non lasciare intatto nessun angolo del pianeta. I governi nazionali alzano la voce nelle sedi opportune per avere aiuti, a volte si sono diffusi falsi allarmismi, e qualcuno ha sminuito eccessivamente la pericolosità, alcuni sono scappati dal Nord, il Sud si è visto infettato e noi siamo stati tutti a casa (più o meno, ovviamente, in base ai lavori che si svolgono). I social sono impazziti, sono girati migliaia di video, barzellette, vignette. Chiaramente non si è parlato di altro. C’è chi ha usato la parola guerra, e chi si è definito sopravvissuto… Forse si sono usati termini in modo poco appropriato.
Continuando con la lettura del Diario di un dolore, nel terzo quaderno sulla fiducia, Lewis in questo sofferto percorso riconosce così un fondamento, base di ogni suo dire, anche della protesta e del dolore. Un fondamento, tuttavia, che non è a misura d’uomo. Come il sorriso della Gioconda analizzato da P. Ricœur, il fondamento è presenza simbolica dell’assente: il sorriso della Monna Lisa è così intenso e significativo perché ricorda la madre del pittore, assente e insieme presente in quel particolare sorriso, nella sua espressione e nei suoi colori, che ci parlano in qualche modo di lei, se non altro nella nostalgia che evoca.
Siamo tutti ossessionati dal risultato. E invece ogni vero percorso educativo non dico che dovrebbe prescinderne, perché in realtà resta fondamentale sapere dove siamo diretti e in quale luogo vogliamo andare, ma avrebbe bisogno di elaborare passioni in grado di sostenere il cammino, prima di condurci al traguardo. Saper restare nel fuoco della battaglia, senza illuderci di potersene affrancare, rappresenta il coraggio pedagogico più distintivo.