La recente esplosione del fenomeno Fake News crea interesse, curiosità, sospetto... Il termine è usato e abusato quotidianamente nell’informazione, in particolare in campo politico. L’attraente espressione inglese si applica alla riedizione “ultramoderna” di un antico inganno: le notizie false, armi della disinformazione.
Per coincidenza in agosto, mentre cercavo di chiarirmi le idee sul problema, ho visitato una mostra nel museo diocesano della cattedrale di Pamplona, in Spagna. L’esposizione, chiamata Occidens, utilizzando le svariate opere in possesso del museo, vuole evidenziare l’importanza della cultura e dei valori cristiani per l’edificazione della civiltà occidentale nella storia. Sul finire del percorso espositivo una sala proponeva all’Occidente moderno un ultimo bivio: quello prospettato dall’avanzata del relativismo.
“Maestà” vuole dire molte cose. Così «i cieli narrano la gloria di Dio, e il firmamento annunzia l’opera delle sue mani», dice il salmista. La maestà è lo splendore del creato, una bellezza che ci affascina e ci attira, quanto la bellezza delle costellazioni in una notte serena, oppure la vastità del mare in un’alba tersa. Vorrei osservare che la “maestà” è invincibile: non si può resistere ad essa, a meno di non volere proprio chiudere gli occhi, e tuttavia non si impone violentemente, non ci costringe a guardarla, non forza la nostra libertà.
Nei primi giorni di gennaio si è spenta a Roma dopo una lunga malattia madre Serena Elisabetta Ciserani, Superiora Generale delle Figlie di Santa Maria della Provvidenza (Guanelliane). Consacrata nel 1969, sulle orme del Santo Fondatore don Luigi Guanella, Madre Serena ha donato la sua vita a Dio e ai fratelli nel servizio alle persone con disabilità, nella formazione delle giovani postulanti, come pioniera dell’Opera Guanelliana in Romania e quindi quale Madre Generale della congregazione dal 2010. I funerali si sono svolti a Roma mercoledì 8 gennaio presso la basilica di S. Pancrazio e il giorno seguente a Como nella chiesa della Casa-madre delle Figlie di Santa Maria della Provvidenza. Qui di seguito uno scritto di don Mario Carrera, guanelliano, direttore generale della Pia Unione del Transito di San Giuseppe, in cui ne traccia un profilo spirituale.
Nel secondo quaderno del Diario di un dolore, Clive S. Lewis, entra in merito alla delusione di fronte a tutti i rimedi tentati.
L’espressione incontrollata della rabbia sbriciola ogni certezza e la stessa vita; a essa fa tuttavia seguito una tappa ulteriore che mostra l’equilibrio precario di questo percorso, teso tra lo sconforto e il ritorno sotto altra forma dei valori professati. Nel corso dei restanti quaderni Lewis mostra una capacità esemplare di mantenere i due crinali di questo percorso precario e instabile, senza indulgere a scorciatoie facili ma incapaci di rendere conto della complessità dei sentimenti provati.
L’obiettivo primario dei santuari è “di aiutare i pellegrini ad essere discepoli”. Lo ha sottolineato l’arcivescovo Rino Fisichella, presidente del Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, in occasione del recente convegno dei rettori di questi luoghi di culto. Come noto, i santuari sono presenti a decine in Italia e continuano a richiamare ogni anno diversi milioni di fedeli, pellegrini e anche “curiosi” che si avvicinano alla chiesa dopo magari un lungo periodo di lontananza spirituale.
Mons. Fisichella ha particolarmente insistito sul concetto che “è il ritorno a casa il pellegrinaggio più vero, nel senso che occorre far sì che tutto non si concluda nella visita ma continui nella vita di tutti i giorni”. “E’ urgente restituire ai fedeli l’entusiasmo per la missione - ha proseguito - in un tempo in cui il senso della missione si è affievolito fino a scomparire, tanto da non far sentire più la responsabilità della trasmissione della fede nemmeno all’interno della famiglia cristiana”. Da parte sua, mons. Carlo Mazza, vescovo emerito di Fidenza e assistente ecclesiastico del Collegamento nazionale santuari (Cns), ha sottolineato come il santuario tenga “le porte aperte a tutti, senza distinzione e discriminazione, divenendo un porto di mare, una tenda dove tutti possono ripararsi e sentirsi protetti”.
Mons. Mazza ha poi aggiunto che il santuario “sta al centro di un poderoso e provvidenziale movimento di popolo ed esprime la pietà popolare”, così come il Papa guarda a questi luoghi di culto “come argine idoneo a custodire, conservare, incrementare la fede popolare, come forza traente e come sicuro antidoto contro sia l’invadenza delle sette sia la rarefazione della fede e l’eccesso di un certo neo-illuminismo razionalistico della stessa fede”. Mons. Mazza ha concluso auspicando che i santuari “sappiano accogliere il popolo di Dio disperso e sovrabbondare di segni per una speranza viva e immarcescibile”.
Questo santo ischitano amava dire: «anche se non vi fosse né paradiso né inferno, io vorrei sempre amare Dio, perché lo merita» di fronte a persone che, dopo una vita trascorsa tutta nel peccato, ricorrevano a lui ormai disperate e incapaci di credere nell’amore di Dio. Bastava vedere fra Giovan Giuseppe per comprendere che bisognava cambiare vita, semplicemente perché si capiva che Dio è amore e per questo valeva la pena farne subito l’esperienza senza perdere tempo nel ragionarci sopra.
Era nato in una casa ai piedi del castello dell’isola d’Ischia, di fronte a Napoli, dai nobili Giuseppe Calosirto e Laura Gargiulo, genitori cristiani con otto figli, cinque dei quali avevano intrapreso la vita religiosa. Fu battezzato col nome di Carlo Gaetano e, dopo la prima educazione in famiglia, proseguì la sua formazione presso la scuola degli agostiniani di Santa Maria la Scala.
La vicinanza della casa paterna al convento delle Clarisse, la cui intensa vita di preghiera permeava di sé tutto l’abitato, costituì il primo contatto con la spiritualità francescana. Alla scuola materna e dei Padri egli bevve le verità fondamentali della fede, soprattutto l’Eucaristia, la devozione a Maria e l’amore per i poveri. Allora non era possibile la comunione quotidiana neanche per gli adulti e ancor meno per i ragazzi. Egli vi suppliva praticando quotidianamente l’ora di adorazione davanti a Gesù sacramentato e solo dopo molte richieste ottenne di poter fare la comunione durante le feste principali dell’anno.
La radicalità di un addio
A 15 anni volle partire per Napoli ed entrare nel noviziato dei frati di S. Pietro d’Alcantara: un ramo riformato dei figli di san Francesco. Conversando con due di questi venuti a Ischia per mendicare, Carlo Gaetano ebbe modo di approfondire il carisma francescano, conosciuto attraverso le Clarisse, e di capire che quella era la sua strada.
Sapendo che spesso le famiglie nobili, quando davano un figlio al convento, si intromettevano poi nella vita interna dei frati per promuovere la carriera del parente, lasciò scritto a chiare lettere: «Vi lascio a Dio! Non mi scrivete più. Mondo, addio! Ischia, addio! Madre, fratelli, amici, addio! Voglio solo godere del mio crocifisso Gesù e della sua santissima Madre Maria, mia protettrice e madre. Iddio vi benedica e consoli tutti. Amen».
Terminato il noviziato, fece la professione religiosa col nome di fra Giovan Giuseppe della Croce. La vita del frate alcantarino era particolarmente severa, ma egli l’abbracciò con gioia e ottenne dai superiori il permesso di andare sempre a piedi scalzi e con l’abito rappezzato. Per questo uno degli appellativi più frequenti divenne “il frate centopezze”.
Rimase poi tre anni a Santa Lucia al Monte, perché riteneva di dover ancora assimilare “il metodo di perfezione” del santo d’Estremadura. Nel 1674 fu inviato insieme ad altri 11 frati a fondare un nuovo convento di ritiro presso il santuario di “Santa Maria Occorrevole” nell’allora diocesi di Piedimonte d’Alife in provincia di Caserta. Lì, oltre ad attendere al servizio religioso, bisognava costruire il convento.
Sacerdote per obbedienza
Nel 1677 il vescovo del posto, nonostante le rimostranze del frate, volle ordinarlo sacerdote. Egli non si considerava né degno, né umanamente preparato per adempiere ai compiti sacerdotali, ma con il vescovo erano d’accordo anche i suoi superiori e fra Giovan Giuseppe chinò il capo.
Al santuario erano sempre più numerosi i pellegrinaggi ed il frate, temendo che la troppa attività mettesse in pericolo la vita di preghiera della sua comunità, col permesso dei superiori, costruì un oratorio e quattro celle in un posto recondito in mezzo alla foresta dove i frati a turno potevano ritirarsi a vita eremitica – come aveva voluto san Francesco – per pregare e riposare fuori del frastuono del mondo.
Divenuto sacerdote, gli fu affidato anche il ministero delle confessioni. All’inizio egli fece presente che non aveva fatto gli studi necessari per questo compito, ma il suo superiore che ben lo conosceva, ritenne che aveva più sapienza e discernimento di tanti. Infatti divenne confessore e consigliere ricercato di molte personalità ecclesiastiche e laiche, tra le quali sant’Alfonso Maria de’ Liguori.
Uomo di governo e educatore di coscienze
Fu fatto alternativamente ora superiore della comunità di Piedimonte, ora maestro dei novizi a Napoli. Era esigente nell’osservanza della Regole, ma era anche il primo a porla in pratica. «Nei suoi comandi – racconta un teste – non si notavano mai parole imperiose. Li pregava ed usava le espressioni più dolci».
In questo periodo, mentre conservava la sua solita dolcezza verso tutti, il Signore lo sottopose a prove interiori durissime: scrupoli, aridità, paura di andare all’inferno. Furono quattro mesi di dolori spirituali indicibili, come riportano alcuni suoi novizi e confratelli. Poi tornò il sereno ed egli ebbe una visione del mondo ancora più limpida: ogni prossimo che serviva, fosse religioso o laico, nobile o di umile condizione, per lui era sempre Gesù. Ebbe allora una cura specialissima per gli ammalati, prestandosi alle opere più umili pur di alleviare le loro sofferenze.
Ai poveri a volte dava anche il cibo che quel giorno sarebbe servito per i suoi frati, ma puntualmente all’ora del pranzo la Provvidenza faceva trovare alla porta tutto il necessario.
La sua salute intanto deperiva e i superiori lo mandarono per un periodo di riposo nella sua terra natale.
Il dolore più grande
Tornando a Napoli si rese conto che tra i suoi alcantarini era sorta una forte divisione tra quelli di origine spagnola – ed erano i più numerosi – e quelli di origine italiana. Nella contesa entrò anche la politica, con il passaggio del Vicereame di Napoli nelle mani degli Angiò, e la Santa Sede scelse una soluzione che nel momento sembrò il minor male, dividendo i frati in due province nello stesso territorio. Gli spagnoli si riunirono nei conventi di Napoli, gli italiani nei restanti otto conventi fuori Napoli e si costituirono in una nuova provincia, di cui fu eletto provinciale fra Giovan Giuseppe.
Per lui questa separazione fu un duro colpo. Si mise quindi subito all’opera, prendendosi personalmente cura di ogni frate, affinché tutti fossero fedeli alla Regola vivendo nell’amore fraterno e sempre pronti a servire la gente. Aveva ben 200 frati di cui prendersi cura e lo faceva visitandoli sul posto, ascoltando tutti, consigliando ed anche correggendo.
Mise in ordine gli studi dei frati che si preparavano al sacerdozio con l’aiuto di persone competenti. Proprio lui che era stato così severo con il suo corpo definendolo “frate asino”, volle che nei conventi si curasse il cibo dei frati, avendo imparato sulla propria pelle che una buona alimentazione aiutava non solo la salute fisica e anche l’armonia fraterna.
Anche con i benefattori dei suoi conventi non risparmiava la verità al momento opportuno. Rifiutava decisamente i doni di personalità che pensavano in questo modo di impedirgli di smascherare i loro vizi.
La gioia dell’unità ricomposta
L’anno 1722 fu di grande consolazione per fra Giovan Giuseppe. Gli alcantarini spagnoli, su indicazione del Papa Innocenzo XIII, decisero di riunirsi agli alcantarini italiani e il nostro santo tornò ad abitare e a svolgere i suoi compiti a Santa Lucia al Monte. Fu in questo luogo che ebbe intime e lunghe conversazioni con sant’Alfonso Maria de’ Liguori che stava fondando i Redentoristi. I due santi, pur con carismi diversi, avevano una perfetta intesa e affrontarono spesso gli stessi problemi.
Negli ultimi anni fra Giovan Giuseppe fu colpito da paresi e doveva essere trasportato su di una sedia, ma fino all’ultimo momento non si sottrasse al ministero delle confessioni e della direzione spirituale. Dopo quattro giorni di coma, ebbe un momento di lucidità e, rivolto al confratello che l’assisteva, disse: «restano pochi momenti di vita… Ti raccomando la Madonna». Era il suo testamento. Moriva il 5 marzo 1734.
Pio VI lo proclamò beato il 15 maggio 1789 e Gregorio XVI lo canonizzò il 26 maggio 1839 insieme ad Alfonso Maria de’ Liguori e Francesco de Geronimo, dei quali era stato direttore spirituale. I suoi resti mortali hanno riposato a Napoli nel suo amato convento di Santa Lucia al Monte, fino a quando i suoi ischitani il 30 settembre 2003 ne hanno ottenuto la salma, e collocata nella chiesa dei frati minori di sant’Antonio. È compatrono , insieme a santa Restituta, martire africana, il cui corpo arrivò sull’isola nel IV secolo.
Nella storia ormai lunga delle “Giornate”, tre papi si sono succeduti e hanno vissuto e animato i diversi appuntamenti nei cinque continenti: Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e oggi Francesco. Tre stili diversi, tre personalità quasi antitetiche l’uno rispetto all’altro, ma un unico grande amore per i giovani di tutto il mondo che proprio nelle GMG hanno potuto accostare per la prima volta il grande mistero della Chiesa cattolica.
Perchè – a ben guardare – la GMG costituisce in sé stessa una quintessenza di quello che è la Chiesa nella storia dell’umanità. Vi confluiscono centinaia di migliaia di giovani, provenendo da paesi diversi e lontanissimi, così come facevano le folle che circondavano Gesù provenendo dalle “dodici tribù di Israele”. Ascoltano la proclamazione della Parola e pregano tutti coralmente inginocchiati davanti all’Eucarestia: questo è il simbolo per eccellenza dell’unicità del dono che Dio fa a tutti gli uomini e a tutti i popoli. Inoltre i giovani si stringono attorno al pontefice che in quel momento regge le sorti della Chiesa, e quindi possono toccare con mano il valore profondo del cammino bimillennario dell’istituzione voluta da Gesù («Tu es Petrus...») per annunciare a tutti gli uomini la sua salvezza. E ancora, le GMG molto spesso costituiscono per i giovani presenti la rampa di partenza verso un impegno al servizio del Vangelo annunciato in un incontro dove palpita l’umanità più viva e recettiva. Questo è il segreto e il miracolo delle “Giornate” che, come si è notato anche a Panama, ha rappresentato un evento spirituale prima che mediatico e di “massa”. E infatti già si sono messi in moto i preparativi in vista della 37ma edizione nel 2022, che si terrà a Lisbona in Portogallo, mentre nei prossimi due anni 2020 e 2021 le “giornate” saranno celebrate a livello diocesano.
E' difficile riassumere e centrare il “cuore” di una GMG. La ricchezza e varietà degli eventi che vi si svolgono, incontri col Papa, visite a luoghi-simbolo, preghiere e momenti liturgici con finalità differenziate, apertura agli “ultimi”, “mandati” speciali per questa o quella categoria di annunciatori del Vangelo, fanno di ogni giornata un moltiplicatore di buone notizie. Nel caso della GMG di Panama i diversi momenti e messaggi si sono concentrati – da parte del Papa – attorno al tema dell’“adesso di Dio”. Francesco ha ribadito in più occasioni che i giovani devono prendere coscienza del “reale” della loro esistenza, aprirsi alla speranza ascoltandosi “tra generazioni”, a partire dai nonni. I giovani ancora sono chiamati a superare tutte le “etichette” con le quali spesso li si vuole incasellare e a diventare “artigiani della cultura dell’incontro” oltre che creatori di un futuro di pace, fratellanza e crescita personale e sociale. Da sempre il Papa parla di «non lasciarsi rubare la speranza» e ciò che minaccia i giovani è l’insieme delle strutture di privilegio che non lasciano spazio alle giovani generazioni. Per questo Francesco ha anche parlato di futuro come «autentico diritto umano», vale a dire una prospettiva che le società debbono assolutamente aprire ai più giovani e non invece precludere, come spesso accade, specie nei paesi più poveri.
Temi collaterali, anche se non meno importanti, sono stati l’ambiente da tutelare, i carcerati da visitare e promuovere nella fiducia di un domani di riscatto, le tribù indigene in particolare dell’Amazzonia per le quali il Papa ha annunciato per questo 2019 uno speciale Sinodo.
Se ogni GMG rappresenta una storia a sé, in quanto svolta in un contesto particolare e in una nazione che balza agli onori della visibilità mondiale grazie alla presenza del pontefice e di moltissimi giovani, la lezione che le accomuna tutte consiste nell’impegno che la Chiesa tutta ci mette per «parlare ai giovani» e anche nel «parlare coi giovani» come ha indicato il recente Sinodo dei vescovi. Un giovane può arrivare alla fede se qualcuno gli annuncia in maniera credibile che Gesù ha qualcosa da dirgli e che lo ama. Questo hanno detto tutti e tre i Papi delle 34 GMG che si sono svolte finora. La fantasia e creatività già all’opera in vista della prossima a Lisbona confermerà questo amore della Chiesa per i giovani nella certezza di una risposta generosa da parte di quanti vorranno sostenerla e viverla.
Nella storia ormai lunga delle “Giornate”, tre papi si sono succeduti e hanno vissuto e animato i diversi appuntamenti nei cinque continenti: Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e oggi Francesco. Tre stili diversi, tre personalità quasi antitetiche l’uno rispetto all’altro, ma un unico grande amore per i giovani di tutto il mondo che proprio nelle GMG hanno potuto accostare per la prima volta il grande mistero della Chiesa cattolica.
Perchè – a ben guardare – la GMG costituisce in sé stessa una quintessenza di quello che è la Chiesa nella storia dell’umanità. Vi confluiscono centinaia di migliaia di giovani, provenendo da paesi diversi e lontanissimi, così come facevano le folle che circondavano Gesù provenendo dalle “dodici tribù di Israele”. Ascoltano la proclamazione della Parola e pregano tutti coralmente inginocchiati davanti all’Eucarestia: questo è il simbolo per eccellenza dell’unicità del dono che Dio fa a tutti gli uomini e a tutti i popoli. Inoltre i giovani si stringono attorno al pontefice che in quel momento regge le sorti della Chiesa, e quindi possono toccare con mano il valore profondo del cammino bimillennario dell’istituzione voluta da Gesù («Tu es Petrus...») per annunciare a tutti gli uomini la sua salvezza. E ancora, le GMG molto spesso costituiscono per i giovani presenti la rampa di partenza verso un impegno al servizio del Vangelo annunciato in un incontro dove palpita l’umanità più viva e recettiva. Questo è il segreto e il miracolo delle “Giornate” che, come si è notato anche a Panama, ha rappresentato un evento spirituale prima che mediatico e di “massa”. E infatti già si sono messi in moto i preparativi in vista della 37ma edizione nel 2022, che si terrà a Lisbona in Portogallo, mentre nei prossimi due anni 2020 e 2021 le “giornate” saranno celebrate a livello diocesano.
è difficile riassumere e centrare il “cuore” di una GMG. La ricchezza e varietà degli eventi che vi si svolgono, incontri col Papa, visite a luoghi-simbolo, preghiere e momenti liturgici con finalità differenziate, apertura agli “ultimi”, “mandati” speciali per questa o quella categoria di annunciatori del Vangelo, fanno di ogni giornata un moltiplicatore di buone notizie. Nel caso della GMG di Panama i diversi momenti e messaggi si sono concentrati – da parte del Papa – attorno al tema dell’“adesso di Dio”. Francesco ha ribadito in più occasioni che i giovani devono prendere coscienza del “reale” della loro esistenza, aprirsi alla speranza ascoltandosi “tra generazioni”, a partire dai nonni. I giovani ancora sono chiamati a superare tutte le “etichette” con le quali spesso li si vuole incasellare e a diventare “artigiani della cultura dell’incontro” oltre che creatori di un futuro di pace, fratellanza e crescita personale e sociale. Da sempre il Papa parla di «non lasciarsi rubare la speranza» e ciò che minaccia i giovani è l’insieme delle strutture di privilegio che non lasciano spazio alle giovani generazioni. Per questo Francesco ha anche parlato di futuro come «autentico diritto umano», vale a dire una prospettiva che le società debbono assolutamente aprire ai più giovani e non invece precludere, come spesso accade, specie nei paesi più poveri.
Temi collaterali, anche se non meno importanti, sono stati l’ambiente da tutelare, i carcerati da visitare e promuovere nella fiducia di un domani di riscatto, le tribù indigene in particolare dell’Amazzonia per le quali il Papa ha annunciato per questo 2019 uno speciale Sinodo.
Se ogni GMG rappresenta una storia a sé, in quanto svolta in un contesto particolare e in una nazione che balza agli onori della visibilità mondiale grazie alla presenza del pontefice e di moltissimi giovani, la lezione che le accomuna tutte consiste nell’impegno che la Chiesa tutta ci mette per «parlare ai giovani» e anche nel «parlare coi giovani» come ha indicato il recente Sinodo dei vescovi. Un giovane può arrivare alla fede se qualcuno gli annuncia in maniera credibile che Gesù ha qualcosa da dirgli e che lo ama. Questo hanno detto tutti e tre i Papi delle 34 GMG che si sono svolte finora. La fantasia e creatività già all’opera in vista della prossima a Lisbona confermerà questo amore della Chiesa per i giovani nella certezza di una risposta generosa da parte di quanti vorranno sostenerla e viverla.
Care lettrici e affezionati amici di san Giuseppe, manca qualche giorno alla Pasqua, per l'affetto che ci lega, vi mando il mio più cordiale augurio perché questa «festa delle feste» segni davvero quel «passaggio» che ci permette di guardare la storia con occhi diversi. Vi devo confessare che spesso le parole cariche di significato, gravide di prospettive, hanno un fascino così attraente da bloccare la riflessione e non ci permette di farle passare dall’emozione alla vita.