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Lunedì, 02 Marzo 2020 10:42

Si può credere ad un Dio maligno?

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di Giovanni Cucci

Nel secondo quaderno del Diario di un dolore, Clive S. Lewis, entra in merito alla delusione di fronte a tutti i rimedi tentati.

L’espressione incontrollata della rabbia sbriciola ogni certezza e la stessa vita; a essa fa tuttavia seguito una tappa ulteriore che mostra l’equilibrio precario di questo percorso, teso tra lo sconforto e il ritorno sotto altra forma dei valori professati. Nel corso dei restanti quaderni Lewis mostra una capacità esemplare di mantenere i due crinali di questo percorso precario e instabile, senza indulgere a scorciatoie facili ma incapaci di rendere conto della complessità dei sentimenti provati.

Egli nota che non c’è soltanto il vuoto; la protesta non potrebbe neppure sorgere se egli in qualche modo non avesse fatto una esperienza di senso, a questo punto altrettanto enigmatica. La parola che dà voce alla rabbia, la scrittura in cui prende forma, non sarebbero possibili se non fossero espressione di un significato in qualche modo presente. E Lewis, con pazienza e coraggio, ritorna sui propri passi, mettendoli in discussione. È davvero possibile che il non senso, il nulla, l’assurdo, siano tutta la realtà? In altre parole è davvero possibile credere a un dio sadico? «Queste righe le ho scritte ieri sera. Più che un pensiero, è stato un urlo. Riproviamo. È razionale credere in un Dio cattivo? O comunque, in un Dio tanto cattivo? Il Sadico Cosmico, l’idiota malevolo? Direi che, se non altro, è troppo antropomorfico. Molto più antropomorfico, a ben riflettere, che raffigurarcelo come un maestoso vecchio re con la barba fluente […]. Pur essendo (formalmente) il ritratto di un uomo, accenna a qualcosa che trascende l’umanità. Quanto meno, suggerisce l’idea di qualcosa di più vecchio di noi, qualcosa di più sapiente, qualcosa di insondabile. Lascia intatto il mistero. E quindi lascia spazio alla speranza».

È la vera svolta nel percorso di Lewis, la luce che orienta il percorso della sua scrittura e che gli consentirà di uscire dal tunnel: «Egli dubita di tutto: della realtà del mondo, di Dio ed anche di se stesso. Ma, a differenza di chi è immerso in un delirio melanconico, è ancora fedele al valore della riflessione: essa gli suggerisce che Dio, se è Dio, non può assomigliare troppo ad un uomo. Invece è l’uomo che deve assomigliare a Dio» (E. Perrella).

La negazione totale del senso è molto difficile da sostenere fino in fondo, poiché tutte le azioni umane lo presuppongono. La stessa parola, priva di significato, si ridurrebbe a un suono inutile.

Lo stesso versante del nichilismo si è scontrato drammaticamente con questo problema. Uno dei suoi araldi più noti, F. Nietzsche, riportando l’annuncio della morte di Dio, evidenzia nello stesso tempo le conseguenze inquietanti di questa morte. La più rilevante è il caos, l’assenza totale di luce, calore, punti di riferimento: «Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte?». Anche un autore assestato su posizioni molto simili, come A. Camus, intravvede il vicolo cieco cui conduce l’assurdità della vita, qualora venga sostenuta fino in fondo: «Come è possibile limitarsi all’idea che nulla abbia senso e che occorra disperare di tutto? A partire dall’istante in cui si dice che tutto è controsenso, si esprime qualcosa che ha un senso. Rifiutare al mondo ogni significato equivale a sopprimere ogni giudizio di valore […]. Se parla, se ragiona, se soprattutto scrive, immediatamente il fratello ci tende la mano, l’albero è giustificato. Nasce l’amore. Una letteratura disperata è una contraddizione in termini».

Senza una previa esperienza di senso, il mondo umano non sta in piedi, la vita non è possibile. La psicologia della sviluppo nota che il bambino, se non fa esperienza stabile di senso, precipita nella psicosi, perché il capire è parte essenziale dell’esperienza umana; egli ha bisogno del senso e dell’affetto come dell’aria che respira. Ma questa richiesta di significato, implicita in ogni accadimento umano, non è tuttavia giustificabile in base all’esperienza sensibile, ma è posta al di là di essa, oltre le possibilità date alle ragione.

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