San Giovan Giuseppe della Croce
di Enrico Pepe
Sant’Alfonso Maria de’ Liguori e San Giovan Giuseppe due santi con carismi diversi avevano coltivato una perfetta intesa tra di loro e si trovarono spesso ad affrontare le stese problematiche.
Questo santo ischitano amava dire: «anche se non vi fosse né paradiso né inferno, io vorrei sempre amare Dio, perché lo merita» di fronte a persone che, dopo una vita trascorsa tutta nel peccato, ricorrevano a lui ormai disperate e incapaci di credere nell’amore di Dio. Bastava vedere fra Giovan Giuseppe per comprendere che bisognava cambiare vita, semplicemente perché si capiva che Dio è amore e per questo valeva la pena farne subito l’esperienza senza perdere tempo nel ragionarci sopra.
Era nato in una casa ai piedi del castello dell’isola d’Ischia, di fronte a Napoli, dai nobili Giuseppe Calosirto e Laura Gargiulo, genitori cristiani con otto figli, cinque dei quali avevano intrapreso la vita religiosa. Fu battezzato col nome di Carlo Gaetano e, dopo la prima educazione in famiglia, proseguì la sua formazione presso la scuola degli agostiniani di Santa Maria la Scala.
La vicinanza della casa paterna al convento delle Clarisse, la cui intensa vita di preghiera permeava di sé tutto l’abitato, costituì il primo contatto con la spiritualità francescana. Alla scuola materna e dei Padri egli bevve le verità fondamentali della fede, soprattutto l’Eucaristia, la devozione a Maria e l’amore per i poveri. Allora non era possibile la comunione quotidiana neanche per gli adulti e ancor meno per i ragazzi. Egli vi suppliva praticando quotidianamente l’ora di adorazione davanti a Gesù sacramentato e solo dopo molte richieste ottenne di poter fare la comunione durante le feste principali dell’anno.
La radicalità di un addio
A 15 anni volle partire per Napoli ed entrare nel noviziato dei frati di S. Pietro d’Alcantara: un ramo riformato dei figli di san Francesco. Conversando con due di questi venuti a Ischia per mendicare, Carlo Gaetano ebbe modo di approfondire il carisma francescano, conosciuto attraverso le Clarisse, e di capire che quella era la sua strada.
Sapendo che spesso le famiglie nobili, quando davano un figlio al convento, si intromettevano poi nella vita interna dei frati per promuovere la carriera del parente, lasciò scritto a chiare lettere: «Vi lascio a Dio! Non mi scrivete più. Mondo, addio! Ischia, addio! Madre, fratelli, amici, addio! Voglio solo godere del mio crocifisso Gesù e della sua santissima Madre Maria, mia protettrice e madre. Iddio vi benedica e consoli tutti. Amen».
Terminato il noviziato, fece la professione religiosa col nome di fra Giovan Giuseppe della Croce. La vita del frate alcantarino era particolarmente severa, ma egli l’abbracciò con gioia e ottenne dai superiori il permesso di andare sempre a piedi scalzi e con l’abito rappezzato. Per questo uno degli appellativi più frequenti divenne “il frate centopezze”.
Rimase poi tre anni a Santa Lucia al Monte, perché riteneva di dover ancora assimilare “il metodo di perfezione” del santo d’Estremadura. Nel 1674 fu inviato insieme ad altri 11 frati a fondare un nuovo convento di ritiro presso il santuario di “Santa Maria Occorrevole” nell’allora diocesi di Piedimonte d’Alife in provincia di Caserta. Lì, oltre ad attendere al servizio religioso, bisognava costruire il convento.
Sacerdote per obbedienza
Nel 1677 il vescovo del posto, nonostante le rimostranze del frate, volle ordinarlo sacerdote. Egli non si considerava né degno, né umanamente preparato per adempiere ai compiti sacerdotali, ma con il vescovo erano d’accordo anche i suoi superiori e fra Giovan Giuseppe chinò il capo.
Al santuario erano sempre più numerosi i pellegrinaggi ed il frate, temendo che la troppa attività mettesse in pericolo la vita di preghiera della sua comunità, col permesso dei superiori, costruì un oratorio e quattro celle in un posto recondito in mezzo alla foresta dove i frati a turno potevano ritirarsi a vita eremitica – come aveva voluto san Francesco – per pregare e riposare fuori del frastuono del mondo.
Divenuto sacerdote, gli fu affidato anche il ministero delle confessioni. All’inizio egli fece presente che non aveva fatto gli studi necessari per questo compito, ma il suo superiore che ben lo conosceva, ritenne che aveva più sapienza e discernimento di tanti. Infatti divenne confessore e consigliere ricercato di molte personalità ecclesiastiche e laiche, tra le quali sant’Alfonso Maria de’ Liguori.
Uomo di governo e educatore di coscienze
Fu fatto alternativamente ora superiore della comunità di Piedimonte, ora maestro dei novizi a Napoli. Era esigente nell’osservanza della Regole, ma era anche il primo a porla in pratica. «Nei suoi comandi – racconta un teste – non si notavano mai parole imperiose. Li pregava ed usava le espressioni più dolci».
In questo periodo, mentre conservava la sua solita dolcezza verso tutti, il Signore lo sottopose a prove interiori durissime: scrupoli, aridità, paura di andare all’inferno. Furono quattro mesi di dolori spirituali indicibili, come riportano alcuni suoi novizi e confratelli. Poi tornò il sereno ed egli ebbe una visione del mondo ancora più limpida: ogni prossimo che serviva, fosse religioso o laico, nobile o di umile condizione, per lui era sempre Gesù. Ebbe allora una cura specialissima per gli ammalati, prestandosi alle opere più umili pur di alleviare le loro sofferenze.
Ai poveri a volte dava anche il cibo che quel giorno sarebbe servito per i suoi frati, ma puntualmente all’ora del pranzo la Provvidenza faceva trovare alla porta tutto il necessario.
La sua salute intanto deperiva e i superiori lo mandarono per un periodo di riposo nella sua terra natale.
Il dolore più grande
Tornando a Napoli si rese conto che tra i suoi alcantarini era sorta una forte divisione tra quelli di origine spagnola – ed erano i più numerosi – e quelli di origine italiana. Nella contesa entrò anche la politica, con il passaggio del Vicereame di Napoli nelle mani degli Angiò, e la Santa Sede scelse una soluzione che nel momento sembrò il minor male, dividendo i frati in due province nello stesso territorio. Gli spagnoli si riunirono nei conventi di Napoli, gli italiani nei restanti otto conventi fuori Napoli e si costituirono in una nuova provincia, di cui fu eletto provinciale fra Giovan Giuseppe.
Per lui questa separazione fu un duro colpo. Si mise quindi subito all’opera, prendendosi personalmente cura di ogni frate, affinché tutti fossero fedeli alla Regola vivendo nell’amore fraterno e sempre pronti a servire la gente. Aveva ben 200 frati di cui prendersi cura e lo faceva visitandoli sul posto, ascoltando tutti, consigliando ed anche correggendo.
Mise in ordine gli studi dei frati che si preparavano al sacerdozio con l’aiuto di persone competenti. Proprio lui che era stato così severo con il suo corpo definendolo “frate asino”, volle che nei conventi si curasse il cibo dei frati, avendo imparato sulla propria pelle che una buona alimentazione aiutava non solo la salute fisica e anche l’armonia fraterna.
Anche con i benefattori dei suoi conventi non risparmiava la verità al momento opportuno. Rifiutava decisamente i doni di personalità che pensavano in questo modo di impedirgli di smascherare i loro vizi.
La gioia dell’unità ricomposta
L’anno 1722 fu di grande consolazione per fra Giovan Giuseppe. Gli alcantarini spagnoli, su indicazione del Papa Innocenzo XIII, decisero di riunirsi agli alcantarini italiani e il nostro santo tornò ad abitare e a svolgere i suoi compiti a Santa Lucia al Monte. Fu in questo luogo che ebbe intime e lunghe conversazioni con sant’Alfonso Maria de’ Liguori che stava fondando i Redentoristi. I due santi, pur con carismi diversi, avevano una perfetta intesa e affrontarono spesso gli stessi problemi.
Negli ultimi anni fra Giovan Giuseppe fu colpito da paresi e doveva essere trasportato su di una sedia, ma fino all’ultimo momento non si sottrasse al ministero delle confessioni e della direzione spirituale. Dopo quattro giorni di coma, ebbe un momento di lucidità e, rivolto al confratello che l’assisteva, disse: «restano pochi momenti di vita… Ti raccomando la Madonna». Era il suo testamento. Moriva il 5 marzo 1734.
Pio VI lo proclamò beato il 15 maggio 1789 e Gregorio XVI lo canonizzò il 26 maggio 1839 insieme ad Alfonso Maria de’ Liguori e Francesco de Geronimo, dei quali era stato direttore spirituale. I suoi resti mortali hanno riposato a Napoli nel suo amato convento di Santa Lucia al Monte, fino a quando i suoi ischitani il 30 settembre 2003 ne hanno ottenuto la salma, e collocata nella chiesa dei frati minori di sant’Antonio. È compatrono , insieme a santa Restituta, martire africana, il cui corpo arrivò sull’isola nel IV secolo.