Eminenza, si è da poco concluso il Giubileo Straordinario della Misericordia. Come valuta questo evento, partendo proprio da qui, dalla Basilica di San Pietro in Vaticano, della quale lei è Arciprete?
Il Giubileo della Misericordia, inizialmente, è stato accolto con sorpresa perché il papa ha tenuto dentro di sé l’intuizione e l’ispirazione. E quando l’ha comunicata, evidentemente, c’è stato un momento quasi di suspense, perché nessuno aspettava questo inatteso dono. Poi, però, immediatamente c’è stata l’apertura del cuore e, direi, anche una specie di sintonia con l’intuizione del Santo Padre, perché il tema della misericordia è un tema che affascina, un tema che incoraggia.
«La Chiesa non è un’azienda. Il papa non fa l’economista e neppure il politico per questo comprende a fondo cosa significa lo sviluppo dei popoli» e la crescita integrale delle persone. La Chiesa è una “madre e maestra” che ha a cuore il progresso armonico dei suoi figli.
Sono passati 50 anni da quando Paolo VI ha lanciato al mondo l’invito a investire le prospettive politiche, sociali ed economiche sulla dignità della persona con i suoi diritti e sulla necessità che gli Stati assicurino che il progresso sia sempre al servizio della persona e non renda l’uomo schiavo dell’economia.
Il vescovo di Lourdes presentando Bernadette il 18 gennaio 1862 cita l’Apostolo Paolo: “Qual è lo strumento di cui l’Onnipotente si è servito per comunicare i suoi disegni di misericordia? è ciò che c’è di più debole nel mondo, una ragazza di 14 anni, nata da una famiglia povera”. Contemptibilia mundi elexit Deus, dice infatti san Paolo: Dio sceglie di preferenza le persone che il mondo disprezza... cioè le persone umili come Bernadette Soubirous che dice di sé: “Se la Madonna mi ha scelto è perché ero la più ignorante. Se avesse trovato una più ignorante avrebbe scelto lei”.
«Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2,19). L’apostolo Paolo usa parole molto forti per esprimere il mistero della vita cristiana: tutto si riassume nel dinamismo pasquale di morte e risurrezione, ricevuto nel Battesimo. Infatti, con l’immersione nell’acqua ognuno è come se fosse morto e sepolto con Cristo (cfr Rm 6,3-4), mentre, quando riemerge da essa, manifesta la vita nuova nello Spirito Santo. Questa condizione di rinascita coinvolge l’intera esistenza, in ogni suo aspetto: anche la malattia, la sofferenza e la morte sono inserite in Cristo, e trovano in Lui il loro senso ultimo. Oggi, nella giornata giubilare dedicata a quanti portano i segni della malattia e della disabilità, questa Parola di vita trova nella nostra Assemblea una particolare risonanza.
In realtà, tutti prima o poi siamo chiamati a confrontarci, talvolta a scontrarci, con le fragilità e le malattie nostre e altrui. E quanti volti diversi assumono queste esperienze così tipicamente e drammaticamente umane! In ogni caso, esse pongono in maniera più acuta e pressante l’interrogativo sul senso dell’esistenza. Nel nostro animo può subentrare anche un atteggiamento cinico, come se tutto si potesse risolvere subendo o contando solo sulle proprie forze. Altre volte, all’opposto, si ripone tutta la fiducia nelle scoperte della scienza, pensando che certamente in qualche parte del mondo esiste una medicina in grado di guarire la malattia. Purtroppo non è così, e anche se quella medicina ci fosse, sarebbe accessibile a pochissime persone.
Nel 1989, con la lettera Aspetti della meditazione cristiana, la Congregazione per la dottrina della fede ha messo in guardia sulla difficoltà di uniformare stili cristiani e non cristiani di meditazione. Ancora nel 2003, in Una riflessione cristiana sulla “New Age”, il Pontificio Consiglio per la cultura ha richiamato che «la Chiesa evita qualsiasi concetto che sia affine a quelli della New Age». In ultima analisi si mette in guardia dalla tentazione, per altro allettante, di andare direttamente a Dio, dandosi programmi di cammino spirituale in maniera puramente soggettiva, senza confrontarsi con nessuno. L’individuo afferma di essere sacerdote di se stesso, di avere una conoscenza che fa presa su Dio e di salvarsi a forza di concentrazione, di riti e di buoni sentimenti. Già San Paolo aveva dovuto richiamare su questo aspetto i cristiani della comunità di Colossi, nella lettera scritta durante la prigionia a Roma. Anche scrivendo a Timoteo «Uno solo, infatti, è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù», afferma categoricamente, accantonando definitivamente ogni concezione mitica della religione.
La vita consacrata è uno dei frutti che meglio evidenziano la fecondità e la bellezza del grande albero su cui veniamo innestati mediante i sacramenti dell’iniziazione cristiana. La grazia del Battesimo ci dona la filiazione divina e tale esperienza rigenerante è custodita e alimentata mediante la Cresima e l’Eucaristia, sacramenti che segnano una cosciente e sempre crescente esperienza esistenziale di tale filiazione battesimale. Quando c’è la chiamata a una forma di vita di speciale consacrazione, tale grazia può e deve produrre il “cento per uno” (cf. Mt 13,8). Dice bene il profeta: «Il Signore fin dal seno materno mi ha chiamato, fin del grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome» (Is 49,1). Ancor più propriamente questo lo si può dire riferendosi al grembo materno della Chiesa che ci genera alla vita in Cristo, ci nutre di Lui e ci colma del suo Spirito.
Misericordia: è la parola che rivela il mistero della SS. Trinità. Misericordia: è l’atto ultimo e supremo con il quale Dio ci viene incontro. Misericordia: è la legge fondamentale che abita nel cuore di ogni persona quando guarda con occhi sinceri il fratello che incontra nel cammino della vita. Misericordia: è la via che unisce Dio e l’uomo, perché apre il cuore alla speranza di essere amati per sempre nonostante il limite del nostro peccato». Il cammino quaresimale è la ricerca del volto di Dio che, troppe volte, la cataratta del nostro orgoglio impedisce di vederlo; infatti, la quaresima è un sacramento che abbraccia quaranta giorni in cui tutto quello che Gesù ha compiuto nella sua vita terrena passa per osmosi, come una trasfusione nella nostra vita. Il sacramento è un segno visibile in cui noi possiamo esperimentare la presenza concreta di Cristo Gesù che sana, perdona, ci nutre, fortifica la nostra vita e soprattutto ci rende capaci di amare.
Con la solenne celebrazione in Basilica S. Pietro di martedì 2 febbraio, presieduta dal Santo Padre Francesco, si concluderà questo specialissimo Anno dedicato, per volontà dello stesso papa Francesco, alla vita consacrata. Un lungo Anno, durato 14 mesi (si è aperto infatti il 30 novembre 2014), che ha offerto una grande varietà di iniziative in Vaticano e in tante parti del mondo. Pur non avendo dati precisi, possiamo ritenere che non solo a Roma, ma in ogni nazione, e probabilmente in ogni diocesi del mondo cattolico, si sia voluto in qualche maniera celebrare questo speciale “tempo di grazia” per le consacrate e i consacrati e per tutto il popolo di Dio. È già possibile tentare un pur provvisorio bilancio? Possiamo dire che quanto papa Francesco si aspettava da questo Anno si sia almeno in qualche misura realizzato? Certamente non è stato un anno di celebrazioni trionfalistiche. Anche se, sulla spinta dell’esortazione di papa Francesco di «guardare il passato con gratitudine», da ogni parte del mondo si è elevato un grande e corale grazie al Signore per il moltissimo bene che i consacrati hanno compiuto lungo i secoli passati. Ma probabilmente non è stata questa la nota dominante.
Cinquant’anni fa, a chiusura del Concilio ecumenico Vaticano II, Paolo VI in nome dei vescovi del mondo intero, con i documenti dell’assise conciliare, elaborati in tanti mesi di lavoro, ha consegnato a tutta la Chiesa il compito di essere samaritana dell’umanità. La Chiesa «esperta in umanità» ha ascoltato i suggerimenti dello Spirito santo in sintonia con l’ascolto delle gioie e delle sofferenze dell’intera umanità. I documenti conciliari sono parole maturate sulla lunghezza d’onda di un impegno pastorale nel tentativo di fornire alla Chiesa stessa, «Madre e Maestra», strumenti validi nel dare un’anima al tempo e una scintilla divina ai cristiani impegnati a edificare quel Regno progettato da Cristo con la sua presenza tra noi realizzato con la sua Resurrezione.
A Firenze il David di Michelangelo è il simbolo riconosciuto della Bellezza, anche se ormai solo di quella estetica, collocato così com’è all’interno di un museo, fuori da qualsiasi contesto. È bello, non c’è dubbio. Ma non «parla». E pensare che era nato come simbolo religioso. Il David scolpito da Michelangelo è quello biblico, che sconfigge il gigante Golia perché ha Dio con sé. Anzi: in quel giovane che abbatte con una fionda il nemico, il suo autore vedeva il Cristo, difensore di ogni popolo, pienezza di ogni eroismo collettivo, meta di ogni positiva aspirazione individuale.