Quando le strade dei santi s’incrociano, nasce una stima reciproca, godono reciprocamente del successo nel compiere il precetto della carità e condividono le sofferenze dell’incomprensione
Con l’animo aperto all’amicizia e al dialogo coltiviamo disegni di pace e pensieri di verità, pronti ad ascoltare, scusare, mai condannare»: questa frase di don Guanella apre l’orizzonte del suo animo verso le persone e detta lo stile dei suoi rapporti di amicizia sia con i poveri come con le persone animate da gran voglia di bene.
L’amicizia è una qualità dell’amore che per sua natura è forza costruttiva per un cammino positivo dell’intera umanità. Quando si ama, gli ideali di bene fondono gli animi e dall’amicizia nascono risorse costantemente rinnovate. Nessun santo è un’isola e la contemporaneità della loro azione crea un’affinità elettiva con un influsso reciproco nell’azione caritativa.
C’è una frase consolante di San Paolo ai cristiani di Roma: «Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza». La nostra debolezza è infinita com’è infinita la forza di Dio; anzi nel momento in cui riconosco la mia fragilità, è il momento in cui la potenza di Dio scorre nelle mie vene.
Il mese di maggio con i suoi colori e i suoi profumi ci porta agli anni dell’infanzia, quando sui prati, velati da un basso strato di nebbia, le lucciole stendevano un tappeto luminoso e noi ragazzi, dopo cena, eravamo chiamati a lodare Maria con la recita del rosario, la predica del prete e il fioretto da praticare il giorno successivo. Il sorriso della Vergine Maria riempiva il tramonto della giornata con una carezza di gioia e l’impegno a essere più buoni.
Sembra che la peste nera della nostra epoca sia l’indifferenza. Anche le nobili passioni hanno il fiato corto. Il dinamismo dei grandi valori di ieri sembra paralizzato.
Il mese di giugno sventaglia il suo ottimismo e con la mietitura e i numerosi frutti della terra ci propone di contemplare la natura nel suo massimo splendore ci permette di abbracciare l’Infinito di Dio. Il sapore agricolo delle parabole dell’evangelo ci dice che “il seminatore si fa seme, il vignaiolo si fa vite, il vasaio argilla, il Creatore creatura”. Non solo Dio cammina con noi, ma Dio si fa uno di noi. “Un amore divino nell’uomo e un amore umano in Dio”.
La fede si gioca la sua scommessa in questo campo in cui ci accorgiamo non tanto che noi amiamo Dio, ma che è Dio ad amarci per primo: “Dio ha tanto amato gli uomini sa mandare a noi il suo figlio Gesù”.
Sembra una storia da nulla, ma anche la Porta della chiesa di San Giuseppe in Roma ha una sua vicenda curiosa alle spalle, insieme con una lezione di garbo e generosità regalata da don Guanella alla Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano. L’inedito carteggio rinvenuto in proposito dalla Pia Unione del Transito merita di essere conosciuto.
Tutto nasce all’interno della sua bella amicizia con lo scultore Ludovico Pogliaghi; don Guanella lo aveva conosciuto venti anni prima quando, pittore in erba, aveva dipinto la Natività di Maria per la chiesa di San Donnino a Como. Era stato lui a guidare la realizzazione delle nuove Porte del Duomo di Milano, tra il 1906 e il 1908. Soprattutto la Porta Maggiore è la più intensa ed elegante pagina di arte sacra del '900; don Guanella ne era rimasto ammirato. Ma -come al solito- pensava a casa sua: e la vecchia porta?
Quando le descriveva si illuminava. Vivace e colorito nel parlare il nostro don Guanella lo era sempre stato, ma quando l’accenno cadeva sulle colonne di Baveno della sua chiesa di San Giuseppe si sprecavano gli aggettivi: maestose, bellissime, perfette…
Dovettero essere davvero di un colpo d’occhio esclusivo quelle dieci colonne del famoso ‘Rosa di Baveno’ o ‘Rosso di Baveno’. Fu l’amico romano, l’architetto Aristide Leonori, a consigliarle per l’erigenda Basilica di San Giuseppe a Porta Trionfale; don Guanella degli amici si fidava, li conquistava quasi rendendone impossibile il tradimento, ma si fidava.
Per la sua ‘creatura’ di Roma non erano mancate e non sarebbero mancate in seguito le solite voci che accompagnano le opere grandi: pettegolezzi e insinuazioni di ogni varietà. Dove prende i soldi? Ma che schiaffo alla povertà! E crede di stare a Milano? Vuole venire a dare lezioni in Capitale?
Più o meno arrangiate le battute del sottobosco ecclesiastico erano intorno a questi temi abbastanza miserabili che però, da che esiste il mondo, trovano sempre apostoli zelanti.
Si trattava di costruire la chiesa di San Giuseppe.
Architetti affermati in Roma era lo studio dei Fratelli Leonori.
Don Guanella si presentò all’ingegner Aristide Leonori, professionista che già aveva lavorato
non solo a Roma, ma anche in molte altre nazioni europee e negli Stati Uniti d’America.
Entrambi scommisero sulla Provvidenza che non mancò.
La facciata della chiesa di S. Giuseppe al Trionfale si presenta suddivisa in due fasce: la parte inferiore, intelaiata dall’ordine gigante; la parte superiore, con sommità a timpano, in corrispondenza dell’interna navata centrale.
Le semplici paraste che incorniciano i tre portali di accesso alla chiesa si ergono su alti podi a loro volta su basamento di travertino: la parte centrale della facciata è enfatizzata dallo sdoppiamento delle lesene che sui lati esterni raddoppiano emergendo in second’ordine.
Le lesene terminano con capitelli di tipo corinzio con foglie di acanto che sorreggono l’architrave correttamente proporzionata che contiene nel fregio l’iscrizione Anno salutis Deo in honorem S. Joseph A.F. MCMXII.
Febbraio 1912. Mentre fervevano i preparativi per l’imminente inaugurazione della nuova chiesa di S. Giuseppe sulla testa di don Guanella si scagliò un fulmine a ciel sereno.
Don Aurelio Bacciarini, da lui destinato come primo parroco del quartiere Trionfale, il fiore all’occhiello della congregazione, era “fuggito” in un ordine di clausura, in cerca di un vita di maggior austerità e penitenza, vissuta nel silenzio e nella solitudine.
Prima di lasciare la casa di Como era stato visto dare alle fiamme una grande quantità di lettere, di fascicoli, di prediche e di manoscritti. Aveva confidato la sua decisione ad un amico sacerdote che tentò, invano, di dissuaderlo.
Sabato 10 febbraio, senza dir parola a don Guanella che sapeva contrario, raggiunse la Trappa delle Tre Fontane, a sette chilometri da Roma, dove, dopo tre giorni di attesa nella portineria del convento, come di regola, fu ammesso alla vita di comunità. Gli fu dato il nome religioso di Fra Martino e, dopo un paio di giorni, ricevette anche il saio da trappista.
"E dov’è mai questo don Guanella che seguito a cercare?» si chiedeva San Pio X all’udienza del 24 marzo 1912.
A distanza di tre giorni era la seconda volta che don Guanella andava pellegrino di fede avanti al Papa. La prima volta era stata il 21 marzo insieme ai fedeli del Pellegrinaggio lombardo e poi ci ritornò appunto il 24 con un gruppo di sacerdoti guanelliani. Il 21 fu un’udienza dei pellegrini lombardi con un discorso di saluto al Santo Padre da parte del cardinal Ferrari.
Sia nel primo incontro come nel secondo con il Papa, il colloquio con don Guanella aveva come argomento l’inaugurazione della chiesa di San Giuseppe al Trionfale.
Giacomo Leopardi, morto cristianamente? L'affermazione a molti potrebbe sembrare strana. Non è il poeta di Recanati l'assertore del nulla? del materialismo ateo e antireligioso dei filosofi sensisti del suo tempo? E come è possibile dimenticare la terribile pagina che egli scrisse nello Zibaldone (23 novembre 1820) contro il cristianesimo della madre, cinico e nemico della vita? Due studiosi hanno ribaltato l'immagine di un Leopardi anticristiano, morto senza fede, e dimostrato il contrario: N. Storti nel volume Fede e arte in Giacomo Leopardi e D. Barsotti in La religione in Giacomo Leopardi. Esaminiamo con pacatezza la questione.