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Venerdì, 01 Giugno 2012 10:04

Dalla Trappa delle Tre Fontane alla “trappa” del Trionfale

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Aurelio Bacciarini a Roma

di Alejandro Mario Dieguez

Febbraio 1912. Mentre fervevano i preparativi per l’imminente inaugurazione della nuova chiesa di S. Giuseppe sulla testa di don Guanella si scagliò un fulmine a ciel sereno.
Don Aurelio Bacciarini, da lui destinato come primo parroco del quartiere Trionfale, il fiore all’occhiello della congregazione, era “fuggito” in un ordine di clausura, in cerca di un vita di maggior austerità e penitenza, vissuta nel silenzio e nella solitudine.
Prima di lasciare la casa di Como era stato visto dare alle fiamme una grande quantità di lettere, di fascicoli, di prediche e di manoscritti. Aveva confidato la sua decisione ad un amico sacerdote che tentò, invano, di dissuaderlo.
Sabato 10 febbraio, senza dir parola a don Guanella che sapeva contrario, raggiunse la Trappa delle Tre Fontane, a sette chilometri da Roma, dove, dopo tre giorni di attesa nella portineria del convento, come di regola, fu ammesso alla vita di comunità. Gli fu dato il nome religioso di Fra Martino e, dopo un paio di giorni, ricevette anche il saio da trappista.

La vita alla Trappa comportava il silenzio più assoluto, la meditazione, la preghiera e il lavoro. Alle due di notte si cantava il divino officio in coro. La cella era povera, con un pagliericcio, senza lenzuola né coperte. Durante un certo tempo della giornata ci si dedicava al lavoro della campagna. Lo svago consisteva nelle passeggiate sui viali dell’ampio cimitero, dove i frati in silenziosa meditazione si scambiavano l’unica frase: «Memento mori».
Prima di partire, aveva lasciato una lettera per don Guanella con la quale compiva il «penoso dovere» di avvertirlo che aveva lasciato per sempre il suo caro istituto per entrare in altra congregazione religiosa e lo dissuadeva dal cercare di farlo tornare indietro, assicurando che la sua decisione era frutto di matura e serena riflessione.
Appena appresa la notizia, invece, don Guanella corse in Svizzera e dalla sorella di don Aurelio venne a conoscere il luogo dove egli si era ritirato. Senza perdere tempo, si portò ancora a Roma, si recò alla Trappa, ma non potè incontrare il postulante Fra Martino.
Tornò una seconda volta, accompagnato da uno dei segretari di papa Pio X, e questa volta, potè finalmente parlare con don Aurelio. Don Luigi, che non poteva impedire ad un suo confratello e discepolo di aspirare ad uno stato di maggior perfezione, gli fece però notare non solo che nella nuova chiesa di S. Giuseppe il bisogno delle anime era immenso, ma che la vita nelle case della Provvidenza, se non aveva il grande beneficio della solitudine, era però più ricca di sacrificio e di immolazione a favore dei poveri ed i bisognosi di ogni genere.
La parole dell’anziano fondatore insinuarono in Fra Martino il tarlo del dubbio. Dopo un ulteriore travagliato discernimento, la domenica 25 febbraio decise di far ritorno, confuso e umiliato, là dove la rinuncia era meno appariscente perché vissuta nel martirio quotidiano: «Alla Trappa ho trovato una vita austera e penitente – confesserà in seguito – però, nel complesso, non ci trovai tutte quelle occasioni di sacrificio che vi sono alla Provvidenza: e il rimorso di essere andato alla solitudine quasi a cercarvi i miei comodi fu altro dei motivi che mi persuase al ritorno».
La sua vita successiva dimostrò quanto don Aurelio seppe trovare la sua trappa in mezzo ai poveri del quartiere Trionfale: la sua prima abitazione fu una baracca, suddivisa in tre piccoli locali, umidi, rischiarati da una finestra e da una porta, dove a stento trovavano posto un letto, una sedia, e che doveva servire per camera, studio e sagrestia.
La sua giornata era tutta consacrata a servizio dei poveri: tolto il tempo di sedere a prendere un boccone, non trovò mai un istante per sé.

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