Sorse però bello il marzo del 1912 per inaugurare in Roma il nuovo tempio, nuova tappa gloriosa e fatidica nel cammino delle Opere della Divina Provvidenza, opportunamente assunta a celebrare il venticinquesimo della nostra Istituzione maschile. Raffrontando gli inizi dell'Opera con la gloria del suo ingresso solenne in Roma per mezzo del nuovo tempio, scrivevamo allora: "... Allora nulla; ora un'Istituzione promettente che lo stesso Vicario di Cristo chiama a Roma ed accosta al cuore della Chiesa, quasi per infondere un fiotto di vita divina e perenne, presentarla al mondo come figlia sua e poi da quella vetta del globo invitarla alla conquista pacifica e spirituale della terra.
Per il sogno della nuova «basilica» aveva nella mente due modelli: uno a Milano e l’altro a Firenze, rispettivamente la chiesa di Sant’Antonio a Porta Volta e la chiesa di San Salvatore a Monte alle Croci, sopra il celebre Piazzale Michelangelo a Firenze. Sul terreno delle nuova chiesa esistevano una trentina di baracche e bisognava trovare una collocazione per quelle famiglie. Nel frattempo arrivarono anche le suore guanelliane specificatamente per la missione del Trionfale.
Era il 1908. Un anno durissimo per don Guanella, alle prese con la questione intricata dell’approvazione delle due Congregazioni; tra l’altro c’era cantiere ovunque: ben quattro chiese tutte in costruzione a Vicosoprano in Val Bregaglia, a Roveredo in Svizzera, a Pianello Lario sul lago di Como e ora anche la Basilica romana all’orizzonte. Don Luigi si fermò a Roma tutto Gennaio e tutto Febbraio, per più di 50 giorni, con l’impegno di firmare l’acquisto e porre in marcia la nuova opera.
Come avvenne la fondazione di San Giuseppe fuori Porta Trionfale.
Furono determinanti quei sei giorni che precedettero il viaggio in Terra Santa; don Guanella era sceso a Roma con il chiaro intento di affittare o acquistare qualcosa. Lì si sarebbero in seguito sviluppate le sue opere romane. Ne scriveva da Milano l’8 Settembre 1902 all’amico don Baroni nel Veneto: “A Roma dimoro alcuni giorni per scorgere se la Divina Provvidenza aiuta per l’impianto di una casetta nella capitale del mondo dalla quale parte ogni benedizione sicut in coelo et in terra”.
Roma si sviluppò in un modo anomalo rispetto alle grandi capitale europee. Roma restò legata in parte all’agricoltura, ma riversando le proprie attenzioni al commercio, all’accoglienza dei pellegrini e al piccolo artigianato.
Quando don Guanella si accinse a costruire la Basilica del Trionfale già conosceva Roma da oltre vent’anni e la vedeva ogni volta più grande, più popolata; allo stesso tempo gli appariva sempre più povera e allo sbando, culturalmente, socialmente e anche religiosamente.
Di fatto se all’indomani della sua proclamazione a Capitale contava 244.000 abitanti, negli anni in cui acquista il terreno ai Prati di Castello, la popolazione dell’urbe è già più che raddoppiata fino ai 532.000. Aumento dovuto alla natalità e all’immigrazione: da tutte le regioni si puntava a Roma e arrivavano funzionari, impiegati, muratori, fornai, autisti, commercianti; ma anche gli uomini della campagna tentavano il salto, il colpo di fortuna. Non mancavano anche i nobili, i benestanti, i professionisti sui quali il richiamo della ‘capitale’ esercitava una forte suggestione.
Aver proclamato Roma capitale del Regno d’Italia portò in città l’apparato burocratico dello Stato, favorendo le produzioni di vario tipo legate al bisogno del momento lasciando in secondo piano l’imprenditoria industriale. Il disagio sociale trovava ad arte il suo collante in un acceso anticlericalismo.
La breccia di Porta Pia del 20 settembre 1870 non aveva provocato solamente un’apertura nelle mura, ma permesso l’entrata nell'Urbe di una profonda trasformazione, che investirà l’aspetto sociale, politico, economico e amministrativo.
Il raddoppiarsi della popolazione nell’arco di un trentennio fu il primo fattore a causare incidenze sulle condizioni sociali, economiche e sulla struttura urbana.
All’inizio del nuovo secolo, la massa di contadini, manovali e muratori, provenienti dalle regioni del Centro Italia per cercare una sistemazione lavorativa in una città in continua espansione e quindi bisognosa di servizi primari, quali l’abitazione e quelli ad essa collegata, contribuì a modificare l'assetto culturale.
Si formò un proletariato, che viveva una situazione di precarietà, senza un lavoro assicurato e la possibilità di un’abitazione in muratura.
La condizione del Quartiere Trionfale, all’arrivo di don Guanella, doveva essere la fotocopia di quella descritta da don Orione per l’Appio: “Qualche casetta, molte casupole, molti campi e, disperse per i campi, molte famiglie, prive di assistenza spirituale…. Quanta miseria! … Più in là grotte, cave, capanne, tuguri, abitati da un numero imprecisato di povera gente, un po’ dappertutto, e da ogni parte bettole, e poi piste, sentieri, tracce piuttosto che vie, e senza nome”.
Ogni azione finalizzata alla carità aveva come obiettivo la promozione della persona
nella sue dimensioni umane, culturali e religiose.
Una delle caratteristiche della nostra storia italiana è la civiltà dei comuni. Le città del Medioevo erano strutturate attorno ad un triangolo fondamentale per la convivenza civile: il palazzo comunale, la chiesa, il mercato; tre realtà che fornivano le fondamenta alla cultura di un popolo. La chiesa con la sua azione di culto a Dio costituiva la radice stessa della cultura. La cultura è stata definita come «ciò per cui l’uomo, in quanto persona, diventa maggiormente uomo»; quindi, far cultura diventava promozione umana nella quale la fede godeva il ruolo di protagonista. Diceva Giovanni Paolo II che «Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta».
Nella mia esperienza di fede, come una salutare cicatrice, è inciso un episodio capitatomi a Gerusalemme, proprio nel sepolcro vuoto di Gesù. Era una fredda mattina di febbraio, le porte della basilica erano state aperte da pochi minuti. Non c’erano pellegrini, un silenzio tombale avvolgeva la grande basilica. Mi avviai verso il sepolcro, entrai e rimasi solo davanti a quella pietra che aveva assistito al singolare riscatto dell’amore sulla morte con la Risurrezione di Gesù.
Mentre pregavo, un’anziana signora s’inginocchiò accanto a me e, terminata la sua preghiera, con le dita, toccò la pietra e portò la mano sugli occhi. Il gesto era un augurio che i suoi occhi acquistassero una luce divina abilitata a vedere al di là delle apparenze terrene. Rapinare un frammento della luce della Risurrezione. Mi piace ricordare, a questo proposito, un detto del mondo ebraico in cui si paragona l’occhio al mondo: «Il mare è il bianco, la terra è l’iride, Gerusalemme la pupilla e l’immagine riflessa è il Tempio». Il tempio per i cristiani è Gesù risorto.
Da quel giorno il gesto di quella donna è entrato nella mia anima.
Per la costruzione delle sue numerose chiese si pensi solo alla parte burocratica relativa ai permessi e ai rapporti con gli uffici competenti; l’aspetto tecnico da ragionare con architetti, ingegneri e maestranze varie; la scelta dei materiali; la dimensione artistica e decorativa; il coinvolgimento spesso impraticabile della gente del luogo