di Ottavio De Bertolis
Vogliamo riprendere le singole parole della preghiera del Signore, come abbiamo fatto nei nostri incontri precedenti, per poterle gustare intimamente: molte volte le abbiamo ripetute, ma non sempre ci siamo soffermati in esse. Sant’Ignazio ci insegna proprio che è necessario “sentire e gustare intimamente” la preghiera che facciamo: il rischio sarebbe infatti quello di “dire su” orazioni, un po’ a pappagallo, certo sinceramente, ma con poco senso, e quindi con meno frutto spirituale.
Vogliamo ora considerare la seconda parola della preghiera del Signore: non solo abbiamo invocato Dio come Padre, ma in più aggiungiamo “nostro”. Non è un’aggiunta poco significativa: la preghiera infatti non ci pone in una sorta di individualismo, ma ci apre al rapporto con gli altri. Nessuno prega per se stesso, si potrebbe dire, ma ogni preghiera, anche quella rivolta per i bisogni più personali, è sempre una preghiera nella Chiesa e per la Chiesa.
Nasce in un contesto comunitario, e sfocia per il bene di tutti: proprio come le preghiere liturgiche, quelle della Messa per intenderci, non sono mai formulate in prima persona singolare, con un “io” iniziale, ma sempre con il “noi”, proprio perché sono rivolte per il bene di tutti. Così, anche se il sacerdote celebrasse la Messa da solo, dovrebbe sempre dire “preghiamo”, prima di ogni orazione.
Abbiamo già parlato del “secondo modo” di pregare secondo Sant’Ignazio, come cioè si deve semplicemente fermarsi sul significato del Padre nostro, illuminando le singole parole con ragionamenti o paragoni, in modo tale che le espressioni che noi usiamo scendano maggiormente nel nostro cuore; per gustare e capire maggiormente quello che diciamo, possiamo ripeterlo più volte, come una sorta di litania, per tutto il tempo che desideriamo, prendendocela comoda, come si dice, ossia fino a quando sentiamo interiormente che quello che abbiamo ripetuto ci illumina e conforta.
Possiamo innanzitutto partire dalla prima parola: “Padre”. Che cosa significa, e che cosa significa per me? Va, innanzitutto, osservato che Dio non è un padre come quelli che abbiamo avuto secondo la carne, ma moltiplicato, per così dire, all’ennesima potenza.
Potremmo dire, al contrario, che i nostri genitori sono “padri” tanto quanto a Lui rassomigliano, e a Lui in qualche modo rinviano. Dio non è la proiezione della nostra esperienza filiale (che potrebbe anche non essere affatto così bella o “divina”), né è un padre assente o un padre padrone; al contrario, noi siamo “padri” tanto quanto assomigliamo a Lui.
Proseguiamo la nostra riflessione sulle parole della più comune preghiera cattolica dopo il Padre nostro, seguendo in fondo lo stesso metodo indicato da S. Ignazio nel così detto “secondo modo di pregare”, quando ci invita a riflettere e a gustare intimamente le singole parole delle preghiere vocali a noi note. “Benedetta tu tra le donne”: com’è noto, l’ebraico non ha il superlativo negli aggettivi, e pertanto ricorre ad una perifrasi: così questa espressione in realtà significa “tu sei la benedettissima”, il che in qualche modo ci collega a quanto detto appena prima, ossia “piena di grazia, il Signore è con te”. Tuttavia queste parole non sono dell’Angelo che saluta la Vergine, ma di Elisabetta, nell’episodio della visitazione.
Vogliamo imparare a pregare con una delle preghiere più semplici e comuni del popolo cristiano, l’Ave Maria. Dopo il “Padre nostro” è certamente la più frequente sulle nostre labbra, ed è importante capire che cosa diciamo mentre preghiamo. La parola “Ave”, com’è noto, in italiano non significa niente, ed ha senso solo quando noi la usiamo in questo contesto, in quanto tutti noi sappiamo che comunque intendiamo ripetere il saluto che l’Angelo rivolse a Maria nell’annunciazione: anzi, è lo stesso suo saluto, e questo mostra innanzi tutto come sia una preghiera ispirata alla sacra scrittura, che trova le sue radici in essa.
“Ave” è un’espressione latina, che traduce il verbo greco “cháire”, che significa esattamente “rallegrati”: “Ave Maria” significa quindi “rallegrati Maria”, ed è una citazione del profeta Sofonia, quando questi invita Gerusalemme a rallegrarsi perché si sono compiuti i tempi messianici. In tal modo, con questa espressione che troviamo nel vangelo di Luca, e che Luca riprende dall’Antico Testamento, contempliamo in Maria la vera “figlia di Sion”, la personificazione di Gerusalemme, la fede dell’Antico Testamento compiuta e perfetta.
Le suore, che il 20 gennaio 1909 erano scese da Como a Roma in compagnia di don Guanella e stavano percorrendo il tragitto dalla Stazione Termini a porta San Pancrazio, sede della Casa femminile dell’Opera inaugurata l’anno precedente, osservavano un mutamento di scena. Alla grandezza dei palazzi monumentali della città, appena fuori le mura faceva seguito “qualche casolare con varie catapecchie disperse nella campagna”, come ricorderà una di loro nel suo diario, ritrovato fortunosamente qualche decennio fa negli archivi della Congregazione.
Lo stesso spettacolo osserveranno qualche giorno dopo sul campo del loro apostolato, il quartiere Trionfale. A dispetto del nome, che ricordava gli antichi fasti degli eserciti rientrati vittoriosi dalle campagne militari che la percorrevano in trionfo per ricevere la corona d’alloro sul Campidoglio, la zona che si estendeva dal Vaticano a Monte Mario era estremamente depressa.
Era un lunedì il 27 gennaio 1908, quando l’antica basilica di San Pancrazio vedeva il trionfo di una “bella festa di carità”, come si esprimeva in un articolo L’Osservatore Romano del giorno dopo. Fra i numerosi discorsi delle Autorità religiose e civili intervenute, il momento culminante era stato lo scoprimento del busto del Papa Pio X, ancora esistente sopra la porta d’ingresso della Casa. Esso sigillava la volontà di dedicare quest’opera di carità alla memoria del papa che ne aveva accettato l’intestazione e del quale in quell’anno ricorreva il Giubileo Sacerdotale. L’articolista rimarca che “don Guanella era raggiante e splendente per essere riuscito a fondare qui in Roma un ospizio”, per il quale aveva dovuto faticare non poco: ma lui stesso aveva detto che quando si è certi che un’opera è voluta da Dio, non si deve temere l’aiuto della Provvidenza.
opo tre anni di sofferenza e di sacrifici, finalmente, in una struttura che di nobile aveva solo il nome «Accademia degli Arcadi, Monte Parrasio» le Figlie di Santa Maria della Provvidenza entrarono nel convento di San Pancrazio nel febbraio 1907. Anche il pedaggio per la nuova casa della carità fu assai pesante: è il prezzo da pagare per le opere di Dio. Per situazioni particolari i primi tempi furono molto disagiati. Le condizioni igieniche dei locali, usati per anni come struttura di accoglienza temporanea per varie emergenze, erano veramente critiche. Raccontano le testimonianze dell’epoca: «La sporcizia non è da dirsi, le povere Suore, la Superiora, dovettero con la paletta raschiar via l’unto. Tutti i muri furono lavati col sublimato. Gli operai che lavoravano nell’edificio della nuova sede la mattina venivano con i vestiti puliti e la sera dovevano andare a cambiarsi perché erano pieni d’insetti». Il lavoro di pulizia fu immane e le suore si trovarono a dover riconquistare condizioni di civiltà metro dopo metro. Da prima furono sistemate due piccole stanze. Inoltre, bisognava fare spazio alle ricoverate: a quelle trasferite dalla Villa degli Arcadi se ne aggiunsero in breve le molte altre che cominciavano ad arrivare in virtù di una convenzione con la Prefettura di Roma. «Per prima cosa furono fabbricati i dormitori perché le ricoverate erano cresciute di numero.
Era ottobre e novembre 1903 don Guanella passa molti giorni a Roma ed ha modo di frequentare la Confraternita dei Lombardi in San Carlo al Corso; costoro gli si offrono come protettori dell’Opera di Monte Mario e, grazie ad essi, entra in contatto con mons. Augusto Bartolini, eccellente dantista e brillante oratore, che era Custode generale dell’Accademia letteraria dell’Arcadia. Costui, alla notizia che don Guanella cercava una sede per le sue Suore, offrì in affitto per tre anni il celebre palazzo presso a San Pietro in Montorio che era una sede degli Arcadi.
Si trattava di un acquisto fatto al Gianicolo grazie ad un regalo di 4000 scudi di Giovanni V del Portogallo, anche lui arcade, nel quale Antonio Canevari aveva architettato il famoso Bosco Parrasio, con al centro un palazzo sontuoso davanti al quale si apriva un largo emiciclo protetto da alberi molto frondosi, fra zampilli d’acqua alimentati dalla vicina Fontana Paola, che irrigavano gli orti.
Suor Marcellina era sempre la prima. La prima a chiedere, la prima a sapere, la prima a dire la sua all’occorrenza. Come spesso fanno le donne, di tanto in tanto rimproverava don Guanella di fare tutto da solo senza comunicare: accusa in parte vera perché da buon montanaro propendeva più per il vedo-penso-decido-faccio che per tante riunioni convocatorie; in parte esagerata perché se un pregio aveva don Guanella era quello della comunicazione.
La dava e la esigeva, come segno di amicizia e di povertà. Magari comunicava a cose… già fatte! E questo urtava suor Marcellina, che però gli perdonava tutto perché ne conosceva le intenzioni e il cuore buono.
Era la prima interlocutrice del Fondatore e anche sulle vicende romane si può ricostruire una cronaca in diretta proprio a partire dal loro carteggio.
La presenza delle Figlie di Santa Maria a Roma inizia con il Dicembre 1903, ma tutto è già in germe col viaggio in Palestina dell’anno precedente al quale don Guanella aveva appeso le speranze di trovare stanza a Roma; fin da subito pensava alle sue suore, perché quando si iniziava una fondazione era la ‘Casa Divina Provvidenza’ ad aprirsi e la Casa aveva figli e figlie, tanto che ancora dieci anni dopo, nel 1912, tra gli appunti negativi del Visitatore imposto dalla Santa Sede ai Servi si diceva: “Resta nella convinzione di tutti in Congregazione e quindi resta nello spirito di essa che i Servi e le Suore siano fratelli e sorelle, e che quindi le case debbano considerarsi come comuni”. Nell’Ottobre 1903, infatti, don Guanella assicura a Suor Marcellina che nella Colonia di Monte Mario sta facendo costruire una casetta per le Suore.
Per Roma, tuttavia, fin dall’inizio l’orientamento era una casa per i Servi e un’altra per le Figlie e sempre a Suor Marcellina ne scriveva la ragione nei giorni precedenti la partenza per la Terra Santa, a Settembre 1902: “Voi siete curiosa delle cose romane ed io ve ne compiaccio… Fate pregare molto se volete piantare casa qui. Tutti gli ordini religiosi qui hanno una sede”. Due congregazioni, due case ovviamente.
Per i sacerdoti le pratiche romane si sarebbero concluse nell’autunno 1903 con la Colonia agricola di San Giuseppe degli Stracciaroli sul Monte Mario; mentre per le suore la prima ipotesi era affiorata già prima, nel Maggio, quando don Luigi è a Roma per definire il tutto. Dunque di per sé sarebbero arrivate prime le Suore e poi i religiosi che allora ancora si chiamavano ‘Figli del Sacro Cuore’, ma poi le vicende presero un’altra piega.
Infatti gli si era prospettato di rilevare la casa di riposo per signore anziane dell’Istituto Nicola Calestrini. Si trattava di un’opera pia nata a metà dell’800 appunto grazie a Nicola Calestrini, amministratore delle finanze del Comune di Roma e maggiordomo della Contessa Vivaldi Della Porta.
Costui aveva iniziato ad ospitare signore anziane presso le scuderie della Residenza Vivaldi in Via dei Pontefici, adiacente al Mausoleo di Augusto e a pochi metri dalla Chiesa dei Santi Ambrogio e Carlo al Corso, dove aveva stanza la Confraternita dei Lombardi nella quale don Guanella era di casa. L’opera si manteneva con elargizioni private, con un assegno mensile erogato dall’Elemosineria Apostolica e un altro offerto dalla vicina Ambasciata di Spagna, oltre che con le pensioni delle stesse ricoverate. Il Calestrini era morto e anche il suo primo successore, l’amico Alessandro Aicardi, così l’Istituto in quegli anni viveva un momento di incertezza gestionale; se ne fece proposta a don Guanella che, forse, dopo una prima accettazione poco oculata, non dovette vederci chiaro e quindi lasciò in sospeso la cosa.
Da uomo di fede quale era aveva lasciato la regia della sua vita nelle mani della Divina Provvidenza e a lei si affidava, senza condizioni; parlando dell’Opera Calestrini, sul Bollettino di Marzo 1904 scriveva: “Stanno pendenti le pratiche per assumere la direzione di un Ricovero già costituito, protetto dal Santo Padre e dotato di speciali legati dall’Ambasciatore di Spagna. Sant’Antonio da noi interposto mediatore, appiani le difficoltà ovvero, se non è volere di Dio che passi nelle nostre mani quell’Istituto, ne faccia sorgere delle insormontabili”.
Così pregano i Santi; fammi scalare la montagna, o Dio. Oppure rendimela impossibile e saprò quello che vuoi.