di Michele Gatta
8 febbraio - Fondatore della Famiglia dei Somaschi
Girolamo aveva 25 anni, quel 27 agosto del 1511, quando fu preso carcercato dai francesi nel suo castello di Castelnuovo di Quero sul Piave, che governava nel nome della Repubblica di Venezia, di cui suo padre era senatore e sua madre discendente dei Dogi.
Correva l’anno 1858 e don Bosco, già conosciuto negli ambienti ecclesiastici e politici italiani, era in udienza da Pio IX per presentargli il suo progetto di fondazione di una Congregazione moderna che si dedicasse all’educazione della gioventù. Il papa lo ascoltò a lungo e con molto interesse. Volle sapere come era arrivato a questa decisione e alla fine, dopo aver dato il suo pieno consenso, lo esortò a scrivere quanto gli aveva raccontato.
Luigi Sturzo: prete, scrittore, economista, sociologo, sindaco, politico, deputato, fondatore di partito, esule, poi reduce, senatore a vita, sempre scomodo, ma tra un po’ persino beato: il cardinale Ruini nel 2002 avviando il processo lo ha detto “apostolo della politica”, e ora, 24 novembre 2017, al Vicariato di Roma si è chiusa la fase preparatoria in sede diocesana: 154 testimoni tra Italia, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, e l’esame di 50 volumi di scritti vari. Avanti, dunque! Apprezzato nella Chiesa? Ora certamente, in passato qualche resistenza. Ma apprezzato anche in ambienti diversi. Per Gaetano Salvemini era «un’Himalaya di certezza e volontà». è don Luigi Sturzo. Contro quell’Himalaya sono andati a sbattere in tanti. Sesto figlio di un aristocratico di campagna, nasce a Caltagirone il 26 novembre 1871. Prete a 23 anni, ma a 20 la rivoluzione della vita gli viene dalla Rerum Novarum di Leone XIII.
Don Luigi: sono passati venti anni, ma non hanno cancellato la sua vitalità esemplare: uomo, prete, servo degli ultimi, perché servo di Gesù Cristo...
Tanti anni fa, una sera, con la commozione che l’istintiva ritrosia sua gli consentiva, di essere figlio di un emigrante clandestino negli Usa, recidivo e respinto più volte, per sfamare la famiglia, mi raccontò: «La prima volta che sono andato in America, una sera, ho camminato per ore sulle banchine del porto di New York... Era il cammino che tante volte lui, mio padre, emigrante per mantenere la famiglia aveva fatto da solo, quando arrivava e quando lo cacciavano...».
Don Zeno, il prete di Nomadelfia, un sogno divenuto realtà contro tutto e contro tutti, e insieme a favore di tutto e tutti. Ammirato anche da chi lo odiava. Difficile essere neutrali di fronte a uno come lui. Inimmaginabile per tanti, ma oggi reale, è in corso il processo di beatificazione…
Come lui pochi, prima, forse nessuno così fuori dagli schemi. Eccolo, dunque.
Zeno Saltini nasce il 30 agosto 1900 a Fossoli, presso Carpi, nono di 12 figli di una coppia di agricoltori agiati. A 14 anni lascia la scuola: così com’è la trova inutile alla vita, e va a lavorare nei campi. A 20 è militare a Firenze, e ascoltando un compagno dire che Gesù Cristo e Chiesa sono il vero ostacolo al progresso umano si rende conto di dover studiare per poter mostrare con la vita e la parola che Cristo invece è libertà e giustizia.
Contadino di nascita, alla campagna restò sempre fisicamente legato alla sua Bassa Padana. Papa Giovanni, due mesi prima che morisse, lo salutò così: “Ecco la tromba dello Spirito Santo in terra mantovana!” Primo Mazzolari nasce nel 1890 a Boschetto di Cremona. A 22 anni è prete, viceparroco e professore di lettere, e per qualche tempo, a varie riprese, anche missionario tra gli italiani emigrati in Svizzera.
La rubrica delle «Lettere» dell’edizione di marzo della nostra rivista ha ospitato, a pagina 13, una lettera di padre Paolo Oggioni in cui narrava le vicende della sua malattia. Nel mese di maggio padre Paolo ha lasciato questa terra per ricevere il premio riservato dal Signore ai buoni servitori nella costruzione del Regno della fraternità e dell’amore. Ci sembra doveroso ricordare oggi la scomparsa di padre Paolo con il ricordo del padre Soosai Rathinam, responsabile della giovane provincia guanelliana comprendente India, Filippine, USA e Vietnam, e che ha avuto il privilegio di stargli accanto e conoscerlo nella sua qualità di confratello, educatore e autentico apostolo di carità.
Padre Paolo era uno di noi e ha scritto alcune delle pagine più importanti e appassionanti della nostra storia. E’ doveroso parlare di lui perché è stato un prezioso dono ricevuto dall'alto. Uno dei compiti più difficili dei suoi futuri biografi sarà quello di stabilire a quale Provincia della Congregazione appartenesse, perché nel suo infaticabile impegno ha servito la Congregazione in tutto il mondo: Italia, America Latina, Stati Uniti d'America, Filippine e persino Africa, se la salute non l’avesse abbandonato nell’ultimo periodo del suo transito terreno.
Loris Capovilla il giorno 26 maggio ha fatto ritorno alla Casa, quella Casa nella quale il mondo è chiamato ad avvicinarsi con l’annuncio, fatto dall’evangelista Giovanni che «Dio lo ha tanto amato da dare il suo Figlio unico per la sua salvezza». Pareva immortale, e don Loris sorrideva quando qualcuno lo faceva notare. Possedeva una memoria prodigiosa, una vivacità incredibile, una energia di vita, di speranza, di prossimità per tutti.
E' morto da 48 anni, ma fa ancora discutere, pro o contro: difficile davanti a lui restare indifferenti. L’hanno sepolto – lo ha voluto lui – in un piccolo cimitero quasi abbandonato di un paesino dimenticato nel Mugello toscano, Barbiana, ma tanti non l’hanno dimenticato. Si chiamava Lorenzo Milani. Nato a Firenze da famiglia di intellettuali ebrei nel 1923. Studia da artista, conosce il mondo, si fidanza anche. Nulla di quello che fa è superficiale, ma a vent’anni scopre Gesù Cristo, si fa cattolico e va in Seminario. A 24 è prete, fa il prete con la sua gente, ma mette anche su una scuola per i “suoi” analfabeti, a Calenzano. Normale? Macché! Succede che per questo disturba tutti: preti e laici, democristiani e comunisti, borghesi e politici.
...nei corridoi di un carcere
Don Cesare Curioni
Ha passato quasi tutta la vita in carcere, ma non era un delinquente. Un uomo al servizio di tutti, capace di trattare con gli ultimi e con i primi del mondo, sempre uguale, sempre calmo, navigatore esperto di umanità e testimone di Cristo: Cesare Curioni. Era anche “monsignore”, ma quasi
Don Divo Barsotti, prete, maestro, mistico, solitario, nascosto, schivo e insieme trascinatore. Parlava poco, ma ha scritto moltissimo, vivendo quasi sempre in un eremo: amato da tanti, seguito dai semplici e stimato dai sapienti, sempre libero con tutti, nella Chiesa, ma solo per Dio, il Dio di Gesù Cristo, unico centro della sua vita. Divo: forse mai un nome è stato smentito come questo dalla vita, lunga 92 anni, ma trascorsa quasi interamente nascosta: molti anni e apparentemente pochi fatti, tanti silenzi, tante preghiere, tantissimi scritti: più di 160 libri, tradotti in moltissime lingue.
La pietà popolare è una fede ricevuta e incarnata nella spiritualità del pellegrinaggio.
Feriti dal dolore, toccati dalla grazia. La pastorale della salute che genera il bene è stato il tema del XXI convegno nazionale di pastorale della salute che si è svolto a Caserta dal 13 al 16 maggio scorso. Vi hanno preso parte i responsabili diocesani della pastorale sanitaria, gli esponenti di associazioni e realtà socio-sanitarie, oltre ad esperti, studiosi, medici e specialisti da ogni parte d’Italia. Rispetto ad altri ambiti della pastorale, quella “sanitaria” risulta molto trasversale e in grado di raccogliere una larga comunanza di vedute: il dolore tocca tutti, si è detto al convegno, e a tutti pone importanti domande di senso.
Obiettivo principale del convegno è stato mettere a tema la questione dei sensi come strumenti di conoscenza, di diagnosi e cura, di vicinanza e accompagnamento. Toccati dalla grazia, la seconda parte del titolo, non è da intendere solo in senso spirituale, ma anche concreto, pienamente umano: il saper “toccare” il malato, essergli accanto, offrirgli una compagnia e assistenza che lo sappia far sentire seguito e anche rispettato e amato, pur nella sua fragilità a volte estrema, come nel caso dei moribondi.
Infatti, spiega il direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute, don Massimo Angelelli, dopo aver affrontato nel 2018 il tema della “vista”, attraverso la dimensione dello sguardo, quest’anno è la volta del tatto, del “toccare”. La prospettiva dei lavori è stata multidisciplinare; infatti, dopo aver affrontato l’argomento con l’analisi biblico-teologica, antropologica e pastorale affidata a specialisti, sono state analizzate le “ferite” che possono derivare da una parte dal “tocco invasivo”, cioè dal prevaricare di pratiche cliniche e terapeutiche non rispettose della dignità della persona; e, dall’altro lato, anche dalla assenza di vicinanza umana, cioè di quella “pietas” che fa sentire il malato come soggetto degno di cura e attenzione. Nelle sezioni conclusive del convegno sono stati poi affrontati i temi pratici e applicativi su come giungere a definire le più adeguate modalità che sortiscano effetti di cura.
Le varie forme
di dolore odierne
Così, ad esempio, si sono toccati temi di frontiera quali l’eutanasia, che certe frange sociali e politiche vorrebbero introdurre a livello sanitario facendola diventare una pratica libera e volontaria, senza limiti e baluardi di alcun genere. Si è parlato dello stare vicino ai malati di Alzheimer per i quali il “tatto” è una forma di vicinanza che a volte riesce a tranquillizzare e a far sentire a casa, meglio di altre procedure anche farmaceutiche dagli scarsi esiti.
In chiave spirituale ma anche di collaborazione pratica tra strutture si è parlato dell’empatia con il malato, specie nei casi di disabilità. Il direttore dell’ufficio nazionale don Angelelli si è soffermato sulla proposta di accolti.it, una forma di collaborazione tra le realtà che si occupano di disabili per favorire la reciproca conoscenza e il miglioramento dei modelli di assistenza.
Di fronte ai rischi di trasformare la medicina e l’assistenza in fredde tecniche assistite da computers e robot, il Forum delle associazioni socio-sanitarie ha evidenziato come sia necessario favorire in ogni modo il rapporto tra paziente e medico, che rimane l’asse basilare di ogni approccio terapeutico.
Gli infermieri hanno condiviso il tema del codice deontologico, al cui interno gioca un posto di rilievo il tema dell’assistenza ai malati gravi e ai morenti e il rischio della deriva eutanasica, che si fa sempre più forte come recenti casi di cronaca hanno evidenziato.
Sull’introduzione della robotica medica si sono avute le testimonianze di esperti e sanitari che ne hanno parlato come di una opportunità in più, ma a patto che si tenga sempre conto dell’uomo-persona mai schiacciato dall’intelligenza artificiale.
Allo stesso modo, sulla salute mentale e le difficoltà a volte estreme di assistere e curare pazienti gravi, sono stati sottolineati il ruolo fondamentale della genitorialità, della presenza nella scuola di esperti in grado di cogliere i primi sintomi del disagio, che - se non opportunamente affrontati in via precoce - possono degenerare in vere e proprie patologie poi difficili da estirpare.
Stesso discorso è stato fatto per le malattie neurodegenerative, per l’autismo e per i malati terminali ai quali offrire in appositi hospice delle cure palliative in grado di sostenerli nell’ultimo percorso e anche di poterli accompagnare sul piano spirituale perché la prospettiva del fine vita si apra alla speranza.
è una questione - in tutti questi casi - di quel “tocco” umano che può giungere al cuore della persona malata e “ferita” e che riesce, in qualche modo, a lenire il dolore e accompagnare ad una speranza più grande.