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Mercoledì, 11 Maggio 2016 13:23

Una vita da buon samaritano...

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...nei corridoi di un carcere

Don Cesare Curioni

 di Gianni Gennari

Ha passato quasi tutta la vita in carcere, ma non era un delinquente. Un uomo al servizio di tutti, capace di trattare con gli ultimi e con i primi del mondo, sempre uguale, sempre calmo, navigatore esperto di umanità e testimone di Cristo: Cesare Curioni. Era anche “monsignore”, ma quasi

si offendeva se lo chiamavi così. Per tutti, anche per gli assassini più terribili, per i ladri più furbi e persino i brigatisti rossi in carcere “Don Cesare”. Amato e rispettato da tutti: quando a metà anni ’70 nelle carceri italiane ci furono le prime sommosse di protesta dei detenuti, lui era a San Vittore da quasi 30 anni, e tra i corridoi sfasciati e gli armadi bruciati la cappella rimase intatta. Perché? Lo chiedevi ai detenuti e arrivava la risposta secca: “lì c’è Don Cesare, guai a chi lo tocca!” Era in mezzo a loro, lui, come prete e come uomo, testa calva fino da giovane, solido come un vecchio nostromo di mille tempeste.
Cesare Curioni era nato nel 1923 ad Asso, tra le montagne ai confini della Svizzera ed è morto lì il 12 gennaio 1996, per puro caso solo e in riposo brevissimo dopo una vita tutta spesa a servizio degli ultimi. A metà anni 40 prete diocesano a Milano e dal 1 febbraio 1948 cappellano a San Vittore, tra gli ultimi degli ultimi, messi da parte apposta per essere come dimenticati.
Sempre lì, con la fiducia piena del cardinale Schuster, poi di mons. Giovanni Battista Montini e di monsignor Pasquale Macchi, che di Montini era e rimase sempre il fidatissimo segretario. Sempre lì, ma in continuo contatto di vita quotidiana con detenuti e agenti, sereno, pacato, prudente e coraggioso insieme, sigaro spesso tra le labbra, filosoficamente saggio ed evangelicamente genuino. Di giorno e di notte, sempre con loro, sempre a pensare come migliorare le loro condizioni, amato e apprezzato, un po’ anche temuto da qualche potente e prepotente che voleva comandare anche nelle celle a scapito di altri…Il 17 dicembre 1966 il Comune di Milano gli dà la sua medaglia d’oro al merito proprio per l’azione e gli studi sulla condizione carceraria. Intanto Montini è diventato Paolo VI, e nel 1976 lo vuole responsabile per l’assistenza religiosa in tutti i carceri d’Italia, Ispettore Generale presso il Ministero di Grazia e Giustizia, prima a via Arenula e poi a via Giulia. Eccolo a Roma, col titolo di monsignore, sul quale sorrideva masticando il suo sigaro, sempre al servizio dei problemi di tutti, e a metà degli anni ’80 ottiene una nuova legge quadro per le cappellanie dei carceri, vigente fino ad oggi. L’esperienza e la capacità concreta gli ottiene stima anche oltre i confini, e Giovanni Paolo II approva la sua nomina a Presidente della Commissione Internazionale dei cappellani carcerari, ricordando in un celebre discorso del 1990 che essi sono nelle carceri per offrire “con il conforto dell’amicizia, la speranza cristiana che scaturisce dall’abbandono all’amore infinito di Dio”, accogliendo i detenuti al loro ingresso ed accompagnandoli poi, facendosi carico – testuale – “anche del loro effettivo reinserimento nella società”. Un ideale quasi utopistico, una missione profetica in cui misericordia, verità e giustizia debbono camminare insieme. Queste cose lui le prende sul serio, come sempre. E così sempre in avanti, nonostante ritardi e problemi…Una ordinari età, con qualche straordinario. Durante la vicenda Moro lo stesso Paolo VI lo incarica di cercare qualche strada per la liberazione, e lui le tenta tutte: a Torino, durante il processo ai Br prigionieri, incontra Curcio e Franceschini, che a lui dicono che non c’entrano niente, anche se nell’aula gridano il contrario, contatta organi internazionali per informazioni, organizza una raccolta in vista di un eventuale riscatto in denaro e in una notte che diverrà famosa scrive di suo pugno, sotto dettatura di Paolo VI e alla presenza di Macchi, il primo testo della famosa lettera agli “Uomini delle Brigate Rosse”… Tutto inutile, dal 9 maggio in poi, e lui torna al suo lavoro girando le carceri di mezzo mondo. Silenzioso e riservato con tutti, fuorché con i carcerati e i confratelli cappellani. Quando Giovanni Paolo II nomina Carlo Maria Martini arcivescovo di Milano, e questi arriva in città, trova Don Cesare che lo accompagna, prima visita del nuovo pastore, a “visitare i carcerati”. Come noto l’esempio ha fatto scuola, fino ad oggi…Lui continua il
suo apostolato di Ispettore Capo per l’assistenza religiosa in tutte le carceri italiane: discreto e silenzioso come sempre: tanti segreti nella sua memoria, che restano tali…L’ultima presenza pubblica: il 22 marzo 1994 celebra i funerali a Saxa Rubra, in Rai, della povera Ilaria Alpi, giornalista del Tg3 uccisa in Somalia: amico di famiglia, aveva sposato i genitori e aveva battezzato la piccola Ilaria: una sofferenza forte, per lui, quel giorno, riportata da tutti i giornali. Continua in silenzio, Don Cesare, il suo lavoro prezioso, fino al 12 gennaio 1996: è in vacanza nella sua casa natale, ad Asso, lassù sulle montagne tra Italia e Svizzera, e il suo cuore si ferma, senza disturbare nessuno. Ai funerali, tre giorni dopo, sale fino lì l’amico di sempre, monsignor Macchi, l’ombra fedele del suo Paolo VI. Insomma: Don Cesare, uomo, prete, amico di tanti, a cominciare dagli ultimi. Un pastore vero, con l’odore speciale di quelle pecore speciali: una vita in carcere…

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