Abbiamo già accennato al senso profondo del sesto comandamento, che non è quello di reprimere, ma di liberare la nostra affettività e la nostra stessa sessualità. Infatti è evidente che queste pulsioni possono essere disordinate e essere vissute in modo distruttivo, cioè non umano, ma semplicemente animale: vissute così, non sono nemmeno appaganti, proprio perché l'amore non è una semplice meccanica di organi, ma un accordo di anime, o, se preferite, di cuori. Ognuno di noi, sposato o no, laico o sacerdote, è segnato dal bisogno profondo di amare ed essere amato: se si pensasse che la castità consista nel sopprimere questo, si sarebbe completamente fuori strada. In questo senso, come accennavamo, il sesto comandamento non ci insegna a reprimere, ma ad integrare e a vivere più pienamente il mondo dei nostri affetti, perché è invece possibile viverli malamente o “di meno”.
Siamo arrivati così alla trattazione del sesto comandamento, di fronte al quale tutti, fin dall'adolescenza, ci sentiamo un po' impauriti. Ed è un peccato essere impauriti, perché questo comandamento, come del resto tutti gli altri, non vuole essere uno spauracchio o imporre dei pesi che non possiamo portare, ma piuttosto aprire la nostra mente ed il nostro cuore ad una dimensione importante della nostra vita, qui l'affettività e la sessualità, pulsioni interiori profondissime in ciascuno di noi. Il senso quindi del comandamento non è: “stai attento a quel che fai, perché qui c'è sempre e solo peccato mortale”, ma piuttosto “impara a vivere da vero uomo”, cioè non da angelo asessuato, quale non siamo, ma nemmeno da bestia, quali non siamo, ma potremmo diventare.
Proseguiamo la nostra riflessione sulla quinta parola del Decalogo: non uccidere. Abbiamo già visto che “uccidere” qui dice la relazione con l’altro resa spezzata o deformata dalla violenza. In estrema sintesi, potremmo dire che “uccidere” si verifica tutte le volte che un altro viene cancellato dalla nostra vita. Ancora, abbiamo osservato che la fraternità che il comandamento ci impegna a vivere non è un rapporto a due, io e il mio amico, ma un rapporto a tre: io, l’altro e Colui che ci ha posti l’uno accanto all’altro. In questo senso, per risanare le ferite nelle nostre relazioni interpersonali dobbiamo guardare a questo terzo soggetto, Iddio, che ha amato entrambi per primo condonando a ognuno ogni debito: possiamo quindi accoglierci gli uni gli altri, come Lui ci ha accolto.
Nel cap. 15 del libro della Genesi, Dio promette ad Abramo una ‘ricompensa molto grande’ (v.1). Abramo comprende che si tratta di quello che gli stava fortemente a cuore, a lui e alla moglie Sara: non solo la promessa della ‘terra’, ma soprattutto, una ‘discendenza’.
Il dialogo tra Dio e Abramo, secondo la tradizione jahvista, è sempre descritto con semplicità scarna, ma non è privo di dramma: «Signore Dio, che cosa mi darai? Io me ne vado senza figli… Ecco, a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà il mio erede» (vv 2.3). Qui, per la prima volta, annota la Bibbia di Gersualemme, Abramo esprime la sua inquietudine, dal momento che le promesse di Dio sembrano irrealizzabili, date le condizioni fisiche di Abramo e della moglie Sara. Il Signore, allora, non si scompone davanti alle incertezze di Abramo; lo conduce fuori, sotto il cielo pieno di stelle, e gli dice: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci…e soggiunse: ‘Tale sarà la tua discendenza’» (v.5).
San Paolo nelle lettere indirizzate ai Romani e ai Galati, a proposito del confronto assai polemico col mondo ebraico (da cui Paolo veniva e nel quale era stato severamente educato), insiste sul rapporto che corre tra la Legge e la fede in Dio che “giustifica”.
L’apostolo fonda la sua dottrina della ‘giustificazione’ (= essere liberati dal peccato e partecipare alla eredità dei figli di Dio), ricorrendo alla fede di Abramo, il padre del popolo ebraico: Paolo afferma che in lui, in Abramo, anche i popoli pagani (oggetto della sua infaticabile predicazione), pur non conoscendo ancora Dio, sono chiamati, poiché il Signore aveva già ‘benedetto tutte le nazioni’ (Gal 3,8; cfr. Gen 12,3); e poiché la ‘fede’ di Abramo ‘gli fu accreditata come giustizia’ (Rm 4,8), Abramo può essere riconosciuto come ‘padre di tutti noi’ (4,16): da qui, la solenne proclamazione di Paolo: ‘di conseguenza quelli che vengono dalla fede, sono benedetti insieme ad Abramo, che credette’ (Gal 3,9).
L'Amoris laetitia
di don Nico Rutigliano
L’atteggiamento che papa Francesco ha assunto nei confronti della famiglia è quello di camminare vicino alle famiglie con sguardo amorevole. Egli guarda alla famiglia con uno stile tipico di chi abita la famiglia e usa un linguaggio fatto di metafore ed esempi tratti dalla vita quotidiana.
La esortazione apostolica Amoris laetitia è molto concreta e capace di affrontare una questione spinosa e di grande attualità: la realtà della famiglia e le sue sfide.
Egli guarda alla famiglia così com’è. Non alla famiglia ideale, ma alla famiglia reale. Non un modello astratto, ma la realtà concreta, fatta di bellezza e di criticità, di esaltazioni e di ferite. Non uno stereotipo, ma un mosaico fatto di grandi differenze che compongono qualcosa di unico. La famiglia è imperfetta e nella sua imperfezione sta anche la sua possibilità di aver bisogno degli altri, il suo desiderio di affidare le proprie difficoltà e incertezze ad una mano che la sorregga, la protegga e la aiuti.
Se l’aereo perde velocità, va in stallo. Per prendere quota, il pilota inesperto tende a puntare il muso verso l’alto: risultato è che l’aereo precipita. Bisogna invece puntare verso il basso.
Quando nella famiglia si tende a salvarsi da soli, è il fallimento. Il ruolo dell’accompagnamento, allora, è decisivo, non solo importante.
L’’esortazione apostolica Amoris laetitia è nata da lavori sinodali, cioè dall’impegno dei vescovi radunati in sinodo, fin dal 2013, quando si è notato un modo nuovo di procedere: un tema scelto dal Santo Padre sviluppato in due sinodi, con allegato un questionario. Con questo modo di lavorare insieme, la collegialità è diventata sinodalità.
Dal primo questionario è nato l’instrumentum laboris, discusso nella Assemblea straordinaria dei vescovi. Il segretario speciale per tutti e due i sinodi è stato monsignor Bruno Forte. Per volere del Papa, durante l’assemblea è stata adottata la lingua italiana: altra novità, in quanto nel passato si usava il latino. Nei circoli minori invece, si è parlata la lingua madre dei padri sinodali. L’instrumentum laboris è fatto di tre parti: le sfide, la vocazione, la missione della famiglia; ed è stato affidato ai lavori del secondo sinodo della famiglia.
Due Sinodi (2014 e 2015) voluti da Papa Francesco. La novità. Mai un Sinodo era stato preceduto da una consultazione di tutte le chiese del mondo. E qui si trattava di famiglia, matrimonio e sessualità, temi su cui al Concilio per decisione papale fu chiusa la discussione anche tra i vescovi. Dopo il Concilio il tema della famiglia ancora molte volte era stato affrontato, anche in un Sinodo dedicatogli e concluso con la “Familiaris Consortio” di San Giovanni Paolo II (1980). Tenendo conto di questo nel 2014 si poteva semplicemente rimandare al testo di San Giovanni Paolo II: conferma e avanti… Non è andata così…
Quando Qualcuno, Lui… il Signore, ha comunicato se stesso e io, noi lo abbiamo ascoltato, è necessario e… educato rispondere. La comunità si alza in piedi per gridare con il cuore: Tu ci hai rivelato la strada della vita e noi ci fidiamo di Te, perché Tu sei l’Amore che non tradisce per tutte le generazioni. “Credo” è il grido ripetuto varie volte in questo simbolo che è davvero il… manifesto dei credenti della Chiesa Cattolica Romana. Una sintesi meravigliosa della fede che si è formata nei secoli attraverso il cuore ecclesiale e il soffio dello Spirito Santo che mai è mancato come sorgente di verità. Per l’Assemblea della Santa Messa sembra quasi una nenia a memoria mentre invece possiede una energia sempre rigenerante della fede.
I giovani ammirano chi sa loro rispondere
alle provocazioni tipiche della loro età
e ritengono queste persone come riferimenti importanti con i quali relazionarsi
“Uffa mamma, basta con le prediche! Ma perché sempre le stesse cose? Ma non potresti inventarti qualcosa di nuovo?”. E in chiesa, guardando l’orologio: “Uffa, ma quando la smette questo prete? Sono già dieci minuti e poi… sempre le stesse cose! Ma quando dirà qualcosa di interessante?… oh!... adesso parla anche di politica… ma che parli del Vangelo e di Gesù Cristo…!”.
Comprendere il momento della Liturgia della Parola significa immergersi nel dialogo dell’Amore, perché non può essere un monologo. La comunicazione solitaria è da palcoscenico di teatro. Qui, il luogo è la comunità ecclesiale che attende la voce del suo Signore per bere alla Sorgente l’acqua limpida e mai inquinata della verità assoluta che rivela solo Amore. Sono i minuti dedicati all’incontro cuore a cuore con il Dio innamorato che si toglie tutti i veli e si fa conoscere alle sue creature.
E se la Celebrazione eucaristica è la fonte e il culmine della vita della Chiesa (Lumen Gentium), è proprio qui, con la Parola, che avviene la prima fondamentale comunicazione tra Dio e l’uomo. è il Signore che prende l’iniziativa perché, da una… eternità, sente il grido dell’uomo, ascolta i suoi perché, conosce i segreti intrighi della storia e delle storie e vuole rispondere per aprire gli orizzonti della speranza che l’uomo, da solo, non riesce a trovare. Ecco perché, nello srotolarsi della storia, Dio ha suscitato degli uomini che hanno letto con il cuore di Dio gli avvenimenti e li hanno scritti, nel suo santo nome, per dare le… “dritte” giuste, “le chiavi divine” di lettura della vita umana, personale e storica. Così il Signore Onnipotente ha scritto la sua lettera d’amore senza fine ai suoi figli che non dovrebbero mai stancarsi di leggerla.
La Celebrazione Eucaristica è la massima preghiera che la comunità cristiana può offrire al Padre per mezzo di Gesù e con l’opera dello Spirito Santo. Ci sono due momenti, durante la Santa Messa, nei quali il sacerdote dice esplicitamente la parola preghiamo: dopo il Gloria e dopo la Comunione. Nella Liturgia originaria questo preghiamo è chiamato Colletta, parola che significa, dal latino, “fare una raccolta”.Noi la usiamo, nel linguaggio comune per indicare una raccolta di denaro per qualche necessità particolare. Qui sta ad indicare che il celebrante, in quel momento, raccoglie la preghiera di ciascuno e di tutti nella comunità, e, a nome di tutti, offre questo… Mazzo di preghiere”, come fiori, al Padre. è quindi una preghiera importantissima perché è tutta la comunità che viene rappresentata dal sacerdote e si presenta unita davanti al suo Signore. è una preghiera grande che conclude con il testo, a volte troppo scontato per le nostre orecchie, ma profondissimo: accogli la nostra invocazione per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio e vive e regna con Te nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. E allora la preghiera diventa forte e irresistibile sul cuore del Padre perché detta a Lui, raccomandata da Colui che è il nostro Signore (perché ha dato la vita per noi e si fa nostro garante!).