Sull’umile grotta-casa di Bethlehem scende, nella Santa Notte, il canto divino del Coro e dell’Orchestra celeste: “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini”. Rimbalzato per secoli, nelle orecchie e nei cuori, questo breve inno accende sempre, davanti agli occhi, l’immagine viva dell’uomo-Dio diventato carne e tenerezza toccabile.
è diventato un inno eucaristico perché, anche nel pane e nel vino, si tocca e si abbraccia Cristo in ogni istante della storia, fino alla fine del tempo, con infinito amore. In questo momento della celebrazione, soprattutto nella domenica e nelle feste, è il canto del “Grazie a Te, Signore, che, dall’alto dei cieli, compi meraviglie di pace totale, cioè di salvezza, in mezzo a tutti gli uomini”. è anche la preghiera più bella e più giusta, ma forse anche un po’ dimenticata da parte di noi figli nei riguardi della Trinità, dal cui amore infinito tutto e tutti noi proveniamo. Gesù disse grazie al lebbroso che lo ringraziava, perché vi leggeva un frammento di riconoscenza dei dieci lebbrosi guariti.
«Per celebrare degnamente i santi misteri, riconosciamo i nostri peccati». Lo tradurrei così: “Per vivere con dignità e gioia la vita coniugale e la vita di famiglia, riconosciamo i nostri sbagli quotidiani e i nostri errori di vita”. Veramente questo momento della celebrazione eucaristica è dirompente: non è sbagliato chi sbaglia, ma chi non riconosce i propri errori e fragilità. Come Adamo ed Eva ci andiamo a nascondere e ci copriamo con una foglia di fico che lascia scoperto quasi tutto. Significa che cerchiamo di coprire con bugie e scuse i nostri sbagli, che poi, molte volte alla fine, vengono scoperti. Bisogna conoscere la bellezza e il valore del riconoscere i propri peccati: “Se tu ti accusi Dio ti scusa, se tu ti scusi Dio ti accusa”, dice S. Francesco d’Assisi. Così ci invita a fare il Sacerdote in un breve momento di silenzio: almeno a ripercorrere con sincerità l’ultimo periodo di vita e metterlo davanti al sole di Dio con estrema verità, per avere il suo abbraccio di perdono che, se siamo sinceramente pentiti, avviene dal cielo in un attimo purificatore e rigenerante. In famiglia sono infiniti, molti più che nella S. Messa, i momenti nei quali bisogna riconoscere i propri errori. “Chi non vuole perdonare è meglio che non si sposi e non metta al mondo dei figli”, mi diceva una mamma matura.
Con l’Avvento ha inizio l’anno liturgico, il tempo sacro della grazia (kairòs) in cui la Chiesa celebra il grande mistero della salvezza. Il suo nucleo essenziale è l’evento Gesù Cristo: il Figlio di Dio che si è incarnato ed è entrato nel mondo per condurre gli uomini al loro fine ultimo, alla piena comunione di vita con Dio nel Regno dell’eterna vita.
Con la nostra partecipazione alla celebrazione liturgica degli eventi salvifici, diventiamo annunziatori e testimoni della nostra fede, testimoni, quindi, dell’Amore del Padre che si è rivelato nella Persona del Figlio, anzi, ce lo ha donato perché «chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).
Tutto il tempo della Chiesa – l’anno liturgico – è caratterizzato da una triplice dimensione: la memoria del passato (l’attesa e la venuta di Gesù nella carne), la dinamica del presente (come oggi questo evento ancora avviene e si attualizza) e l’attesa del futuro (il ritorno del Cristo nella gloria: evento escatologico).
Mentre il Tempo Ordinario volge al termine e la natura si fa di giorno in giorno più brulla e spoglia, il mese di novembre si apre con il contrasto della bellissima festa di Tutti i Santi: un tripudio di luce, di canto, di gioia; il Cielo sulla terra.
In questa solennità la Chiesa pellegrina nella fede, contemplando le abbondanti messi già raccolte nei celesti granai, comincia sin d’ora a cantare la gioia del suo arrivo in patria: «Rallegriamoci tutti nel Signore, celebrando questo giorno di festa in onore di tutti i Santi: con noi gioiscono gli angeli e lodano il Figlio di Dio». Con questa antifona si apre la Celebrazione Eucaristica, durante la quale si viene ad instaurare, per così dire, un appassionato dialogo tra terra e cielo, tra i santi ancora pellegrini nella fede e i santi già in patria, tra i “santi delle beatitudini” (cf. Vangelo della solennità) e i santi della «moltitudine immensa, di ogni nazione, razza, popolo, lingua» che innalza a gran voce il grandioso cantico della salvezza, di cui si sente l’eco nella prima lettura (cf. Ap 7).
Tra gli uni e gli altri non c’è separazione, ma compartecipazione; non distanza, ma affettuosa vicinanza. I santi già in patria sono presenti a noi nelle nostre tribolazioni e noi, “santi in cammino”, ci rallegriamo con loro per la pace di cui godono e che già, in forza dell’amore, si riversa nei nostri cuori. Con questa solennità la Chiesa ci invita, dunque, ad una grande festa di famiglia, convoca tutti i suoi figli attorno all’unica mensa. Infatti, chi sono i santi, se non i figli di Dio cresciuti fino alla “pienezza di Cristo” (cf. Ef 4,14)? Essi sono i nostri fratelli maggiori. Alcuni di loro, forse, sono stati fino a ieri nostri compagni di viaggio; perdura forse ancora nella nostra mano il calore della loro mano, nella nostra memoria il suono della loro voce… Tra i santi possono esservi – anzi, certamente ci sono – anche tanti che chiamiamo i “nostri morti” e che, sapientemente, la Chiesa ci fa commemorare proprio il 2 novembre, dilatando la festa in due giorni, per sottolineare l’unità del mistero.
Come la natura in autunno si riveste a festa con il suo abito dai variegati colori, e dà gioia ai cuori offrendo gli alberi carichi di frutti maturi e le vigne pronte per la vendemmia, così anche la Chiesa nei mesi di settembre e ottobre ci offre un calendario liturgico ricco di bellissime feste, particolarmente care al popolo cristiano.
Proprio all’inizio di settembre, ecco la festa della Natività di Maria. Un’antifona della liturgia così si esprime con una bellissima melodia gregoriana: «La tua nascita, o Vergine Madre di Dio, ha annunziato la gioia al mondo intero, perché da te è nato il Sole di giustizia: Cristo nostro Dio. Egli è colui che ha tolto la condanna e ha portato la grazia. Ha vinto la morte e ci ha donato la vita». Motivo della gioia di questa festa è, dunque, l’opera della salvezza che Dio ha compiuto. Per attuare il suo disegno, egli ha voluto servirsi di una donna, di una creatura umile e semplice, preparata per dare alla luce il Cristo salvatore. Maria è l’Aurora piena di speranza del Giorno nuovo che più non conosce tramonto, nel quale già siamo entrati, in speranza, e verso il quale camminiamo, saldi nella fede e sospinti dall’amore.
Nei mesi estivi, mentre molti cercano il luogo delle vacanze al mare, ai monti, ai laghi, alle isole lontane per svagarsi e riposare, anche il calendario liturgico è tutto costellato di luoghi deliziosi, ossia di feste per la gioia e il sollievo spirituale dei credenti. A partire dal mese di giugno, il giorno 24 troviamo la solennità della nascita di Giovanni Battista, che risveglia nel cuore un ardente desiderio del Cristo da lui mostrato; poi viene la solennità dei santi Pietro e Paolo (29 giugno) che ci porta a Roma, agli inizi della Chiesa animata da grande slancio missionario e dalla testimonianza fino al martirio.
In questi mesi, inoltre, si celebrano le feste di ben tre dei sei compatroni d’Europa: san Benedetto (11 luglio) che con la sua Regola e i suoi monasteri ha silenziosamente contribuito a dare un volto cristiano al nostro continente, anzi, a dargli profonde radici cristiane. In agosto (9 e 23) si celebrano le feste di santa Teresa Benedetta della Croce – Edith Stein – e santa Brigida di Svezia, compatrone d’Europa. Questi santi in epoche diverse hanno dato un contributo altamente significativo alla crescita non solo della Chiesa, ma anche della società civile.
Con la solennità della Pentecoste, il vento dello Spirito irrompe nella Chiesa, spezzando nel cuore degli apostoli le catene della paura che ancora li tenevano prigionieri. Inizia davvero il tempo nuovo: tempo di missione e tempo di adorazione in spirito e verità; tempo di impegno nella storia per costruire la “civiltà dell’amore” nell’attesa del ritorno del Signore nella gloria. Il Cristo, infatti, verrà alla fine del tempo per porre termine alla storia e dare compimento al suo regno glorioso. Allora, insieme con l’umanità redenta ci saranno cieli nuovi e terra nuova, e Dio sarà tutto in tutti.
Aquaranta giorni dalla domenica di Risurrezione, la liturgia ci fa vivere il congedo di Gesù dagli Apostoli prima di salire al Padre. Risorto, egli si era reso più volte visibilmente presente in mezzo ai “suoi”, ma giunse il giorno in cui, date loro le ultime istruzioni, «li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo» (Lc 24,50-51). Gesù, fra lo stupore e la commozione dei suoi discepoli, fu elevato in alto e sottratto al loro sguardo. Ritornò in cielo; vi ritornò in quanto uomo, poiché in quanto Dio egli, pur incarnandosi e subendo la morte, era sempre rimasto nella beatitudine della sua intima unione con il Padre e lo Spirito Santo.
La festa dell’Ascensione celebra, quindi, l’esaltazione dell’umanità del Cristo e, in lui, della nostra umana natura. Essa ci aiuta a rinnovare la nostra fede in Colui che, salendo al cielo quale “Figlio dell’uomo”, non ci ha abbandonati, ma ci ha preceduti per riaprirci la via verso la nostra vera patria e di là, con la potenza del suo Spirito, ci sostiene nel faticoso pellegrinaggio terreno.
Il mistero dell’infanzia e della vita nascosta di Gesù Cristo, che abbiamo contemplato nel Tempo di Natale, trova nel mistero pasquale la sua piena fioritura e il suo frutto maturo. Il germoglio della radice di Jesse è diventato un grande albero; sulla terra è sbocciata una nuova primavera della vita. E questo miracolo avviene innanzitutto nei cuori dei credenti.
La Risurrezione di Cristo è l’evento che sta alla fonte dell’anno liturgico: da essa derivano tutte le altre feste. La fede cristiana, infatti, si fonda sulla morte redentrice e sulla Risurrezione del Cristo. Come afferma san Paolo, se Cristo non fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede e noi saremmo da commiserare più di tutti gli uomini. «Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti» (cf. 1Cor 15,15-20).
La Settimana Santa è il cuore dell’anno liturgico, poiché dal mistero pasquale, in essa solennemente celebrato, scaturisce il fiume della grazia, il dono della salvezza.
Ogni cristiano che nelle settimane di Quaresima si è impegnato nella lotta contro il male e che, nello sforzo della propria purificazione, ha tenuto lo sguardo contemporaneamente rivolto a Dio e a se stesso, ora è invitato dalla Liturgia a non avere occhi che per il Cristo. È unicamente la sua Persona – le sue parole, i suoi gesti, i suoi silenzi – a colmare tutto questo sacro tempo e attirare tutta la nostra attenzione, fino a immedesimarci in Lui, per condividerne la Passione in uno slancio di autentica empatia, di profonda “com-passione”.
La spiritualità del tempo di Quaresima
è un costante appello a ritornare a Dio.
Far dimorare Dio al centro dei nostri interessi
e gestire il nostro vivere in comproprietà
Già all’inizio del IV secolo si ha testimonianza della pratica, nella Chiesa, di un periodo di quaranta giorni in preparazione alla celebrazione del Sacro Triduo pasquale – Passione, Morte e Risurrezione di Cristo – che è il centro di tutto l’anno liturgico.
Originariamente questo tempo – che trae il suo significato simbolico dai quarant’anni della traversata del deserto da parte del popolo eletto (esodo), dal ritiro di Mosè sul Sinai e più ancora di Gesù stesso nel deserto all’inizio della sua predicazione – coincideva con la preparazione dei catecumeni che a Pasqua avrebbero ricevuto il Battesimo. Essi erano così premurosamente sostenuti da tutta la comunità cristiana che con loro si preparava ad una nuova rinascita spirituale. La Quaresima era pure con il periodo in cui i pubblici peccatori si sottoponevano ad una particolare austerità di vita, per essere riammessi, il Giovedì Santo, nella comunità ecclesiale accostandosi alla mensa eucaristica.
«Tutti vengono a te», canta ancora
la liturgia; ma questo “andare”
è sempre all’inizio, ha sempre bisogno
di essere nuovamente sospinto
Sulla soglia del nuovo anno troviamo ad accoglierci, con sorriso rassicurante, Colei che il Concilio di Efeso ha riconosciuto a pieno titolo “Madre di Dio”. Come umile e insieme altissimo trono, ella regge sulle ginocchia il Rex Pacificus. Felicemente perciò la Chiesa ha fatto la scelta di celebrare proprio il 1° gennaio anche la “giornata della pace”.
Quasi presi per mano e guidati da Maria, ci avviamo, dunque, per i sentieri di questo nuovo spazio di tempo che il Signore ci dona per ritornare a lui con tutto il cuore.
La liturgia ci fa ancora sostare alla grotta di Betlemme, dove troviamo la Vergine Madre che, dopo la visita dei pastori, va meditando nel suo cuore quanto sta accadendo attorno a lei e quanto si va dicendo del Bambino che stringe tra le sue braccia.
Il Padre, che ha generato un Figlio per amarlo, ha creato il fratello, copia minore di quel Figlio, perché noi possiamo amarlo. Il fratello è immagine di Dio: sua progenie, frutto del suo sangue: sì che in lui si ama Dio per effigie e per rappresentanza. Né basta: il fratello è tale perché figlio d'uno stesso Padre, Dio; ridivenuto figlio di Dio per l'incarnazione, passione e morte di Gesù. Si può dire che il fratello ci è stato dato perché ci ricordi, per similitudine, Dio [...].
Il quale, perché infinito, non si può vedere con pupille limitate: lo si vede, come in uno specchio, nel fratello. Infinito, Dio non si può amare con servizi congrui alla sua infinità. Lo si può servire nei fratelli, in cui è Cristo, poiché i fratelli abbisognano di servizi limitati, congrui alle nostre possibilità.
«Entrai nell’intimità
del mio cuore…
e vidi con l’ochio
dell’anima mia
una luce inalterabile…
non era una luce terrena.
Era un’altra luce…
era la luce
che mi ha creato.
Chi conosce
la verità
conosce
questa luce».
Sant’Agostino,
Le confessioni