Vogliamo ora considerare la seconda parola della preghiera del Signore: non solo abbiamo invocato Dio come Padre, ma in più aggiungiamo “nostro”. Non è un’aggiunta poco significativa: la preghiera infatti non ci pone in una sorta di individualismo, ma ci apre al rapporto con gli altri. Nessuno prega per se stesso, si potrebbe dire, ma ogni preghiera, anche quella rivolta per i bisogni più personali, è sempre una preghiera nella Chiesa e per la Chiesa.
Nasce in un contesto comunitario, e sfocia per il bene di tutti: proprio come le preghiere liturgiche, quelle della Messa per intenderci, non sono mai formulate in prima persona singolare, con un “io” iniziale, ma sempre con il “noi”, proprio perché sono rivolte per il bene di tutti. Così, anche se il sacerdote celebrasse la Messa da solo, dovrebbe sempre dire “preghiamo”, prima di ogni orazione.
Con la solennità della Pentecoste, il vento dello Spirito irrompe nella Chiesa, spezzando nel cuore degli apostoli le catene della paura che ancora li tenevano prigionieri. Inizia davvero il tempo nuovo: tempo di missione e tempo di adorazione in spirito e verità; tempo di impegno nella storia per costruire la “civiltà dell’amore” nell’attesa del ritorno del Signore nella gloria. Il Cristo, infatti, verrà alla fine del tempo per porre termine alla storia e dare compimento al suo regno glorioso. Allora, insieme con l’umanità redenta ci saranno cieli nuovi e terra nuova, e Dio sarà tutto in tutti.
“Credo”, e poi “Credo in Dio”: così dall’inizio di questi dialoghi, poi fino qui “Padre Onnipotente”, con l’avvertenza forte che questo “Padre” è solo conseguenza della rivelazione del “Figlio” incarnato, non nome spontaneo dato all’ignoto dal nostro umano sentimento di inferiorità prodotto dall’esperienza del limite e che quell’“onnipotente” non è la smisurata dilatazione del rovescio dei nostri fallimenti e delle nostre impotenze di conoscenza e di potere, che nelle religioni inventate dagli uomini producono “miti” e “riti”, ma percezione profondamente cambiata dall’ascolto e dalla memoria della realtà rivelata e donata nella nostra storia con il Figlio Gesù di Nazaret, crocifisso, morto e risorto.
Un Padre speciale, dunque, non certo ad immagine di ciò che la nostra esperienza spesso contraddittoria chiama “paternità”. Non per nulla a immaginare la paternità della divinità come gelosa della crescita dei figli, rivale ed ostile ad essi era giunta proprio e sempre ogni religione inventata dagli uomini, dalla Persia, all’Egitto, alla Grecia, a Roma. La divinità pensata così da noi esigeva il sacrificio di ciò che era più caro, i primogeniti, e l’offerta di tutte le primizie.
Opportuno ricordare, qui, che il capitolo 22 del Libro della Genesi non è “nuovo” perché Abramo pensa che sia volontà divina il sacrificio di Isacco, ma perché il suo “nuovo” Dio, che lo ha chiamato a partire da Ur e ad avviarsi verso il futuro rifiuta il sacrificio del figlio primogenito, e così si apre quella prospettiva che poi i Padri della Chiesa hanno definitivamente descritto così: quello che Dio non ha chiesto ad Abramo lo ha fatto Lui per noi, sacrificando il Figlio suo sul legno, la Croce, e sul monte, il Calvario…
Abbiamo già parlato del “secondo modo” di pregare secondo Sant’Ignazio, come cioè si deve semplicemente fermarsi sul significato del Padre nostro, illuminando le singole parole con ragionamenti o paragoni, in modo tale che le espressioni che noi usiamo scendano maggiormente nel nostro cuore; per gustare e capire maggiormente quello che diciamo, possiamo ripeterlo più volte, come una sorta di litania, per tutto il tempo che desideriamo, prendendocela comoda, come si dice, ossia fino a quando sentiamo interiormente che quello che abbiamo ripetuto ci illumina e conforta.
Possiamo innanzitutto partire dalla prima parola: “Padre”. Che cosa significa, e che cosa significa per me? Va, innanzitutto, osservato che Dio non è un padre come quelli che abbiamo avuto secondo la carne, ma moltiplicato, per così dire, all’ennesima potenza.
Potremmo dire, al contrario, che i nostri genitori sono “padri” tanto quanto a Lui rassomigliano, e a Lui in qualche modo rinviano. Dio non è la proiezione della nostra esperienza filiale (che potrebbe anche non essere affatto così bella o “divina”), né è un padre assente o un padre padrone; al contrario, noi siamo “padri” tanto quanto assomigliamo a Lui.