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di Madre Anna Maria Cánopi

Aquaranta giorni dalla domenica di Risurrezione, la liturgia ci fa vivere il congedo  di Gesù dagli Apostoli prima di salire al Padre. Risorto, egli si era reso più volte visibilmente presente in mezzo ai “suoi”, ma giunse il giorno in cui, date loro le ultime istruzioni, «li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo» (Lc 24,50-51). Gesù, fra lo stupore e la commozione dei suoi discepoli, fu elevato in alto e sottratto al loro sguardo. Ritornò in cielo; vi ritornò in quanto uomo, poiché in quanto Dio egli, pur incarnandosi e subendo la morte, era sempre rimasto nella beatitudine della sua intima unione con il Padre e lo Spirito Santo.
La festa dell’Ascensione celebra, quindi, l’esaltazione dell’umanità del Cristo e, in lui, della nostra umana natura. Essa ci aiuta a rinnovare la nostra fede in Colui che, salendo al cielo quale “Figlio dell’uomo”, non ci ha abbandonati, ma ci ha preceduti per riaprirci la via verso la nostra vera patria e di là, con la potenza del suo Spirito, ci sostiene nel faticoso pellegrinaggio terreno. Ecco perché questa festa, che ci mette nel cuore un velo di nostalgia, è soprattutto attraversata da un fremito di gioia e di speranza e ci invita a guardare in alto, a trasferire il nostro cuore là dove Cristo si trova alla destra del Padre. È la festa del “già e non ancora”. Mentre portiamo a compimento ciò che nella nostra carne manca della Passione di Cristo, già partecipiamo della sua gloria e proprio attraverso le tribolazioni, che ci uniscono a lui sulla croce, anche noi spiritualmente ascendiamo.
Il breve ma intenso discorso di Gesù nel momento del commiato racchiude, come in germe, tutta l’energia vitale della futura storia della Chiesa: la forza per la continua conversione, l’orientamento sicuro del suo cammino, la sorgente del suo slancio missionario, la consolazione nell’ora della prova.
Gesù lascia visibilmente i suoi discepoli per ritornare al Padre, non senza aver prima assicurato che rimarrà con loro in modo invisibile ma reale: egli è infatti il Signore del cielo e della terra: ovunque è presente. Con la sua salita al cielo, si apre un tempo nuovo, il tempo della fede e dell’attesa nella speranza: occorre uno sguardo puro per poter riconoscere Gesù nascosto sotto tante e umili sembianze. Occorre inoltre mantenere acceso il fuoco del suo amore affinché, tra le alterne vicende di questo mondo, i nostri cuori sappiano prendere il largo ed approdare là dove regna la vera gioia senza fine. I due poli entro i quali, dopo l’Ascensione di Gesù, scorre l’esistenza del cristiano sono, infatti, l’impegno di evangelizzare il mondo e il desiderio della mèta.
La missione di Cristo continua per l’intera durata della storia mediante la Chiesa, suo mistico Corpo animato dallo Spirito Santo. Egli si rende visibile e realmente presente attraverso quelli che vivono la sua vita nella comunità dei credenti, specialmente nei poveri, negli umiliati, nei malati, in coloro nei quali ha voluto maggiormente identificarsi (cf. Mt 25,31-46).
Ognuno di noi è chiamato a vivere nella fede, nella speranza e nell’amore: sono queste le tre virtù “teologali” seminate nel nostro cuore mediante il Battesimo, che ci ha incorporati a Cristo e immersi nel mistero della sua morte e risurrezione. La festa dell’Ascensione orienta il nostro sguardo al Padre celeste in seno al quale Gesù è tornato per attirare anche tutti noi, suoi fratelli, come ha promesso: «Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi» (Gv 14,3).
Il vero cristiano vive nella prospettiva del cielo, perciò cammina sulla terra sospingendo in alto lo sguardo del cuore e nelle alterne vicende della storia si tiene sempre unito al Signore Gesù Cristo. Da lui attinge la forza di abbracciare la croce, ossia la forza di amare con quel più grande amore che sa dare la vita per i fratelli, perché tutti possano essere accolti nella casa del Padre, dove la gioia sarà piena quando sarà completo il numero dei figli. Per questo la liturgia della solennità così ci fa pregare: «Esulti di santa gioia la tua Chiesa, o Padre, poiché nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere Cristo, nostro capo, nella gloria».

Pentecoste:
il dono dello Spirito d’amore

Dopo aver contemplato il Cristo ascendente al cielo, i discepoli – scrive san Luca a conclusione del suo Vangelo – «tornarono a Gerusalemme pieni di gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio». La stessa affermazione si trova negli Atti degli Apostoli.
Quel gruppo di discepoli, insieme ad alcune donne, tra cui è espressamente nominata Maria, Madre di Gesù, costituivano la prima Chiesa orante, una comunità di fratelli riuniti e tenuti insieme dallo stesso Cristo risorto. Li univa, infatti, il comune amore, la comune speranza e la comune nostalgia di quel Volto scomparso nell’immensità dello spazio celeste.
In obbedienza alle ultime parole del Maestro, essi attendevano il dono dello Spirito, il dono dell’Amore: «Ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto» (Lc 24,49).
La Chiesa fa memoria di questa effusione dello Spirito Santo sugli apostoli radunati nel Cenacolo in preghiera con Maria nella solennità di Pentecoste: che è lo stesso mistero della Pasqua pienamente svelato e attuato nella vita del cristiano e, di riflesso, nell’universo.
Se dunque a Pasqua si era parlato di nuova vita sbocciata in noi e nell’universo con la risurrezione del Cristo, ora si può continuare il discorso considerando la prodigiosa fecondità di quel germe di nuova vita sotto il caldo influsso dell’Amore.
La gioia pasquale di ricevere la vita e di sentirsi nuovi, si colma adesso proprio nel dono di tale vita con l’effusione dell’Amore. E poiché a ciò si arriva smantellando le mura della cittadella del proprio individualismo, anche la gioia pentecostale comporta un impegno ascetico. Prima di tutto quello di lasciarsi portare al largo, perché lo Spirito Santo è Spirito di libertà e non si lascia chiudere allo stretto; egli dilata i nostri cuori e ci trasporta nell’infinito.
Nello Spirito Santo, Dio si rivela pienamente come colui la cui vita è amore, perciò dono e unione; di conseguenza il cristiano, figlio di Dio «nato dallo Spirito», è pure destinato a realizzare in sé questo modo di essere. Egli è relazione d’amore.
Lo Spirito Santo scende e si comunica con veemente potenza (vento impetuoso e fuoco), ma anche silenziosamente (soffio, brezza leggera). Tutto questo ci dice che la presenza dello Spirito nel cuore dell’uomo spezza le barriere dell’egoismo e accende gli animi di ardente zelo, ma insieme, quale Maestro interiore, spinge il credente verso la “cella del cuore”, dove avviene l’incontro personale con Dio.
Cercare l’armonia di queste due dimensioni – che sono i due aspetti dell’unico comandamento dell’amore – è l’impegno di tutta la nostra esistenza, è il cammino della santità che si può compiere solo sotto l’impulso dello stesso  Spirito. Siamo chiamati ad essere santi nell’amore.
Poiché la liturgia opera sempre quello che celebra, dobbiamo credere che ad ogni Pentecoste, essendo “riversato nei nostri cuori” il Dono di Dio (cf. Rm 5,5), ci è dato di esprimerci con un linguaggio a tutti comprensibile: appunto il linguaggio universale dell’amore. Ovunque si vada, con chiunque ci si incontri, un gesto che sia espressione di bontà è immediatamente compreso, al di là della diversità di lingua e di cultura. Il linguaggio dell’amore, infatti, non è articolato in parole, ma è fatto di presenza, di dono personale, di amore oblativo, gratuito.
La santità è autentica se crea unità e comunione. Bandita ogni rivalità e invidia, tutte le diversità si compongono in armonia e diventano un’espressione visibile della divina bellezza. Quello che vale per il nostro corpo, vale ancora di più per la vita spirituale: come un corpo non sarebbe tale se non avesse molte membra, così è la Chiesa, così dovrà essere l’intera umanità. Noi tutti formiamo un corpo solo e un solo spirito, perché siamo stati rigenerati dall’unico Spirito vivificante. Per custodire integra quest’unità e per ricomporla quando il peccato dovesse infrangerla, continueremo a invocare lo Spirito quale fonte di riconciliazione. Ed egli ci guiderà – come ha promesso Gesù – alla verità tutta intera: la verità su noi stessi, che ci rende umili e capaci di chiedere perdono; la verità sugli altri, che ci dona occhi capaci di scorgere in loro l’immagine di Dio e ce li fa sentire fratelli degni di rispetto e di stima; la verità su Dio, che non è un’idea astratta, ma un Essere personale, la Santissima Trinità – Padre, Figlio e Spirito Santo – che prende dimora nei nostri cuori.
Si legge negli Atti degli Apostoli a riguardo dei primi discepoli: «Di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a lui» (At 5,32). Anche noi siamo chiamati ad essere testimoni di tanti eventi di salvezza operati dal Signore sotto i nostri occhi, in noi e attorno a  noi, nella Chiesa e nel mondo! Quale storia potremmo scrivere se fossimo esploratori più attenti a ciò che accade nel Paese della grazia! Quante pagine di giornale sarebbero necessarie per riportare la cronaca di questa meravigliosa storia operata da Dio per mezzo del suo Spirito! Noi stessi dobbiamo lasciarci scrivere dal dito dello Spirito quali pagine del “giornale quotidiano” del Regno di Dio, pagine aperte sotto gli occhi di tutti, affinché ogni giorno i nostri fratelli possano leggervi “buone notizie”; non fatti di cronaca nera scritta dal maligno, ma opere di pace, di bontà, di fede, di carità e di gioia: i buoni frutti dello Spirito Santo.