Un prete di una parrocchia dell’hinterland milanese, qualche mese fa scriveva al Direttore del quotidiano “Avvenire”: «I ragazzi che ti vedono fuori dalla Chiesa con la stola viola in una brevissima pausa dalle confessioni ti guardano come un marziano...». Erano le sensazioni di un prete che esercitava la sua missione là dove si affollano i capannoni industriali e i grandi centri commerciali, realtà grigie che di sera e di notte si illuminano, giganteschi, come fossero cattedrali. In quel territorio «Pare che si muova tutto, tranne che l'essenziale», osserva il sacerdote. In effetti è così stridente il contrasto fra la Pasqua degli esodi in autostrada, delle vacanze, della televisione accesa nelle case, e la memoria della vera Pasqua, nella quale si rende di vibrante attualità l’uccisione di un Innocente, coperto di sputi e dileggiato dagli insulti. Si celebra quel corpo appeso a una croce che esala l'ultimo respiro, e poi, bianco e immoto, avvolto in un lenzuolo viene calato nel sepolcro.
Gli anni passano, il corpo invecchia, le malattie avanzano. La nostra vita, anche quando si fa faticosa e dura, è sempre immensa, unica, irripetibile. Non è vero che la giovinezza, la ricchezza, il successo, la bellezza fisica diano all’essere umano una sorta di supplemento di dignità su questa terra. In questa menzogna, purtroppo, le generazioni inciampano spesso. Non è vero che la vita sia degna di essere vissuta solo quando ci sorride ed è in discesa.
«Trattamenti progressivamente più sofisticati e costosi sono accessibili a fasce sempre più ristrette e privilegiate di persone e di popolazioni, ponendo serie domande sulla sostenibilità dei servizi sanitar». Lo ha scritto Papa Francesco nel messaggio che ha inviato a monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, e ai partecipanti al meeting europeo della World Medical Association sulle questioni del “fine-vita”.
Bello quando da giovani il fisico si mostrava capace di assorbire strapazzi e sregolatezze, di riprendersi presto anche da qualche guaio di salute. Con l’età la freschezza di risorse vitali si riduce, va compensata con… la saggezza. Non è il caso di pretendersi ancora giovani, né il contrario, lasciarsi andare alla pigrizia, a un vivere troppo sedentario. Dopo una certa età la fattura della salute è più cara. Ma è sempre conveniente e… merita che la si paghi volentieri.
Nelle ultime settimane il timore del contagio da coronavirus sta condizionando pesantemente i nostri comportamenti. Questa emergenza, se da una parte ci induce a rispettare i provvedimenti restrittivi e a non affollare i Pronto Soccorso, dall’altra fa emergere un aspetto preoccupante: chi ha un infarto o altre emergenze non si rivolge al 118 per paura del contagio in ospedale. Molte persone colpite da infarto o da altre patologie cardiovascolari evitano di andare in ospedale e aspettano troppo prima di chiamare i soccorsi, con conseguenze molto gravi. Nei pazienti con infarto è stata notata una riduzione dei ricoveri dal 30 al 50%.
Si dice che l’amore non ha età. Certamente non si spegne mai il bisogno di sentirsi considerati e meritevoli di affetto. Anzi con l’età cresce l’esigenza di segni che dimostrino di avere ancora un posto nel cuore di chi si ha attorno, malgrado le ingiurie del tempo. La vecchiaia semplifica e addolcisce gli scambi di affetto. È il tempo dell’esprimersi privilegiato di una tenerezza benevola, dotazione insopprimibile del cuore umano.
Attendere impazienti la pensione e poi non sapere come spendere il tempo. Ammazzare il tempo, che tristezza! Sempre, proprio fino all’ultimo si è mossi da una esigenza interiore di vivere bene. Vuol dire spendere energie vitali e tempo in un modo, non necessariamente e subito gratificante, ma che ha comunque un senso per sé, una buona ragione che motiva a coinvolgersi e fare. Così lo spendersi bene diventa un fattore che rinnova vitalità e voglia di vivere, sempre e comunque bene.
Sembra ovvio, non se ne può fare a meno. Gli anni si accumulano e, magari un po’ troppo in fretta, ci si trova anziani, vecchi. Il rendersi conto non sempre porta a un giudizioso accettare l’età avanzata, così da viverla con dignità e gusto. E, tra le fasi dell’esistenza, la vecchiaia può risultare la più delicata a volerla vivere bene.
di Vito Viganò
Ho steso questo scritto all’ospedale, dopo una operazione al cervello. Ho pensato che era il momento più appropriato. E non solo per vedere se sapevo ancora maneggiare una matita. Da vecchio in buona salute, uno svenimento, una caduta con trauma cranico, una emorragia interna, nel giro di pochi giorni mi sono trovato incapace di tenermi dritto e di muovermi. Son cose che succedono più facilmente nella vecchiaia. E sono solo da accettare. Ho fatto l’esperienza di quanto è impegnativo.
Il vivere umano si allunga sempre di più. Si ha oggi più tempo da vivere, quasi il doppio di chi ha vissuto giusto un secolo fa. È una bella notizia, con qualche riserva. Si è allungata l’ultima fase del vivere, la vecchiaia. Vuol dire allora tempo più lungo di malanni, di funzioni menomate, di ritiro ed esclusione dalle dinamiche del vivere? Può avere qualche ragione chi reagisse a una simile prospettiva con un “No, grazie!”.
Vecchiaia: temuta, mascherata, svalutata, fatale comunque con lo strisciare inesorabile del suo imporsi. C’è una buona notizia in proposito.
E non si tratta del progetto - fantascienza? - di scienziati d’avanguardia impegnati a trovare il modo di farla sparire dall’esperienza umana. E nemmeno del programma di altri ricercatori che, con attese più realistiche, intendono scoprire i processi di invecchiamento, per sapere come prolungare la speranza di vita umana.