«È così difficile oggi, serbare almeno in sé il silenzio del Sabato santo. E, mancando la percezione della morte attraversata da Cristo - scriveva Marina Corradi nella risposta a quella lettera - anche la gioia della Resurrezione è sminuita. Accade tutti gli anni, lo sappiamo, ci siamo abituati. Abbiamo ancora bisogno di Uno che sia risorto? A guardarsi attorno superficialmente, si potrebbe dire di no. Ma quello stesso sacerdote ha nella mente le ore in confessionale, dove approdano i dolori e i mali di cui sempre si tace. Famiglie sfasciate, tradimenti, abbandoni. Eppure è proprio nel dolore che noi uomini impariamo di non bastarci, di non essere autosufficienti. La morte di qualcuno caro ci mostra drammaticamente quanto bisogno abbiamo, di Uno che sia risorto. Perché se Cristo non è risorto dai morti «la nostra speranza è vana», e quel volto caro non lo rivedremo mai più. Come una saracinesca di acciaio che cade con fragore, definitiva, sui nostri affetti e ricordi. «Se quell'Uno non è risorto, anche la nostra morte è per sempre».
Il tempo della redenzione e della salvezza non esaurisce la sua linfa vitale e continua a movimentare quel patrimonio di carità che la Pasqua di risurrezione ha regalato al mondo. «Per questo c'è ancora un popolo che sfugge al pensiero unico, che a Pasqua si inginocchia, mendica, domanda. Un popolo che testimonia che Cristo è vivo nella quotidianità monotona del lavoro, negli affanni, nelle amicizie». Le forse fisiche potranno diminuire, la capacità di vibrare sentimentalmente può attenuarsi, ma il tessuto sottile dell’anima rimane elastico come un cuore giovane e avverte la freschezza di una novità quotidiana ed è pervaso di nostalgia di eternità.
Forse qualcuno continuerà a vedere il prete «come un marziano, ma un giorno si ricorderanno di quello strano uomo che alla vigilia di Pasqua era lì. Gratuitamente, ad ascoltare, a perdonare, a ridare una speranza» nel sacramento della confessione.