Caro e venerato San Giuseppe, sono passati cento anni da quando lo zelo apostolico di San Luigi Guanella ha dedicato uno spazio al culto della tua persona, amabile papà terreno di Gesù. Con la tua proverbiale umiltà ti sei messo a fianco dei preti e delle suore guanelliane affinché i fedeli trovassero nella basilica a te dedicata un compagno di viaggio nelle difficoltà della vita.
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Mi piace iniziare questo mese di febbraio immergendomi in un bagno di luce. La liturgia ci invita a entrare in questo avvolgente e consolante messaggio di luce. Dopo i quaranta giorni dalla nascita di Gesù, la Chiesa, sapiente madre e maestra di vita, ci invita a celebrare la Presentazione di Gesù al tempio di Gerusalemme come festa della luce; giorno di luce poiché festa di un dono. Giuseppe e Maria con animo grato, in ossequio alla legge antica, offrono al Padre di ogni vita, il primogenito, Gesù.
In quella circostanza, pur nel rigore della stagione invernale, il tempio si era illuminato. In quel primogenito c’era la luce; in quella vita offerta era racchiusa la luce del mondo. La saggezza popolare ha chiamato il 2 febbraio «la candelora», infatti, i ceri diventano un’offerta disponibile a farsi luce. Come una conchiglia aperta allo splendore della luce, la cera nel momento in cui si consuma si fa fiamma. Per il credente ogni istante, progetto, pensiero, sentimento, ogni preghiera vissuta in compagnia di Gesù si trasformano in sorgente di luce. Nella concretezza della nostra carne si realizza l’espressione del salmo: «Nella tua luce vediamo la luce».
Entriamo nel 2012 con le spalle cariche di pesi gravosi e preoccupazioni a vari livelli, ma su tutte la crisi economica con il suo grappolo di pesanti conseguenze. Per questo è necessario più che mai varcare la soglia del nuovo anno con un forte appello all’ottimismo. La fede è la sorgente dell’ottimismo e ha il suo fondamento nella parola rivelata, come ricorda San Paolo quando scrive: «Se Dio è con noi chi può essere contro di noi?». Allora varchiamo la soglia del nuovo anno con fiducia; la vita continua, si rinnova, ritrovando nuove motivazioni. Il mio proposito è di tentare di mettermi al fianco di Gesù e camminare nei sentieri del domani con la certezza di avere sempre un compagno di viaggio che non abbandona.
Santa Teresa d’Avila affermava che nel “Padre nostro” le prime tre domande sono rivolte, rispettivamente, alle tre Persone della santissima Trinità: così, come abbiamo visto la volta precedente, “sia santificato il tuo Nome” è la preghiera che rivolgiamo al Padre; in tal modo, “venga il tuo regno” è la supplica che rivolgiamo al Figlio.
Chiediamo così che venga il regno di Cristo: non solo in noi stessi, nella nostra interiorità, ma anche nel mondo esterno. In altri termini, chiediamo che all’apparente vittoria delle potenze del mondo che segnano una società basata sul denaro, sul successo, in ultima analisi sulla violenza dell’uno sull’altro, si sostituisca la vittoria evangelica della potenza di Gesù, che confermi i miti, i misericordiosi, i poveri, nel suo servizio, e li sostenga nella costruzione di una comunità più giusta e più umana. Infatti il regno di Gesù è la piena realizzazione delle aspirazioni di verità, di bontà, di giustizia, che sono proprie degli uomini. Non è una teocrazia, o una specie di “governo della Chiesa” o “dei preti”, ma è il regno e il governo del bene.
Sorse però bello il marzo del 1912 per inaugurare in Roma il nuovo tempio, nuova tappa gloriosa e fatidica nel cammino delle Opere della Divina Provvidenza, opportunamente assunta a celebrare il venticinquesimo della nostra Istituzione maschile. Raffrontando gli inizi dell'Opera con la gloria del suo ingresso solenne in Roma per mezzo del nuovo tempio, scrivevamo allora: "... Allora nulla; ora un'Istituzione promettente che lo stesso Vicario di Cristo chiama a Roma ed accosta al cuore della Chiesa, quasi per infondere un fiotto di vita divina e perenne, presentarla al mondo come figlia sua e poi da quella vetta del globo invitarla alla conquista pacifica e spirituale della terra.
Per il sogno della nuova «basilica» aveva nella mente due modelli: uno a Milano e l’altro a Firenze, rispettivamente la chiesa di Sant’Antonio a Porta Volta e la chiesa di San Salvatore a Monte alle Croci, sopra il celebre Piazzale Michelangelo a Firenze. Sul terreno delle nuova chiesa esistevano una trentina di baracche e bisognava trovare una collocazione per quelle famiglie. Nel frattempo arrivarono anche le suore guanelliane specificatamente per la missione del Trionfale.
Era il 1908. Un anno durissimo per don Guanella, alle prese con la questione intricata dell’approvazione delle due Congregazioni; tra l’altro c’era cantiere ovunque: ben quattro chiese tutte in costruzione a Vicosoprano in Val Bregaglia, a Roveredo in Svizzera, a Pianello Lario sul lago di Como e ora anche la Basilica romana all’orizzonte. Don Luigi si fermò a Roma tutto Gennaio e tutto Febbraio, per più di 50 giorni, con l’impegno di firmare l’acquisto e porre in marcia la nuova opera.
Come avvenne la fondazione di San Giuseppe fuori Porta Trionfale.
Furono determinanti quei sei giorni che precedettero il viaggio in Terra Santa; don Guanella era sceso a Roma con il chiaro intento di affittare o acquistare qualcosa. Lì si sarebbero in seguito sviluppate le sue opere romane. Ne scriveva da Milano l’8 Settembre 1902 all’amico don Baroni nel Veneto: “A Roma dimoro alcuni giorni per scorgere se la Divina Provvidenza aiuta per l’impianto di una casetta nella capitale del mondo dalla quale parte ogni benedizione sicut in coelo et in terra”.
Roma si sviluppò in un modo anomalo rispetto alle grandi capitale europee. Roma restò legata in parte all’agricoltura, ma riversando le proprie attenzioni al commercio, all’accoglienza dei pellegrini e al piccolo artigianato.
Quando don Guanella si accinse a costruire la Basilica del Trionfale già conosceva Roma da oltre vent’anni e la vedeva ogni volta più grande, più popolata; allo stesso tempo gli appariva sempre più povera e allo sbando, culturalmente, socialmente e anche religiosamente.
Di fatto se all’indomani della sua proclamazione a Capitale contava 244.000 abitanti, negli anni in cui acquista il terreno ai Prati di Castello, la popolazione dell’urbe è già più che raddoppiata fino ai 532.000. Aumento dovuto alla natalità e all’immigrazione: da tutte le regioni si puntava a Roma e arrivavano funzionari, impiegati, muratori, fornai, autisti, commercianti; ma anche gli uomini della campagna tentavano il salto, il colpo di fortuna. Non mancavano anche i nobili, i benestanti, i professionisti sui quali il richiamo della ‘capitale’ esercitava una forte suggestione.
Aver proclamato Roma capitale del Regno d’Italia portò in città l’apparato burocratico dello Stato, favorendo le produzioni di vario tipo legate al bisogno del momento lasciando in secondo piano l’imprenditoria industriale. Il disagio sociale trovava ad arte il suo collante in un acceso anticlericalismo.
La breccia di Porta Pia del 20 settembre 1870 non aveva provocato solamente un’apertura nelle mura, ma permesso l’entrata nell'Urbe di una profonda trasformazione, che investirà l’aspetto sociale, politico, economico e amministrativo.
Il raddoppiarsi della popolazione nell’arco di un trentennio fu il primo fattore a causare incidenze sulle condizioni sociali, economiche e sulla struttura urbana.
All’inizio del nuovo secolo, la massa di contadini, manovali e muratori, provenienti dalle regioni del Centro Italia per cercare una sistemazione lavorativa in una città in continua espansione e quindi bisognosa di servizi primari, quali l’abitazione e quelli ad essa collegata, contribuì a modificare l'assetto culturale.
Si formò un proletariato, che viveva una situazione di precarietà, senza un lavoro assicurato e la possibilità di un’abitazione in muratura.
La condizione del Quartiere Trionfale, all’arrivo di don Guanella, doveva essere la fotocopia di quella descritta da don Orione per l’Appio: “Qualche casetta, molte casupole, molti campi e, disperse per i campi, molte famiglie, prive di assistenza spirituale…. Quanta miseria! … Più in là grotte, cave, capanne, tuguri, abitati da un numero imprecisato di povera gente, un po’ dappertutto, e da ogni parte bettole, e poi piste, sentieri, tracce piuttosto che vie, e senza nome”.
Ogni azione finalizzata alla carità aveva come obiettivo la promozione della persona
nella sue dimensioni umane, culturali e religiose.
Una delle caratteristiche della nostra storia italiana è la civiltà dei comuni. Le città del Medioevo erano strutturate attorno ad un triangolo fondamentale per la convivenza civile: il palazzo comunale, la chiesa, il mercato; tre realtà che fornivano le fondamenta alla cultura di un popolo. La chiesa con la sua azione di culto a Dio costituiva la radice stessa della cultura. La cultura è stata definita come «ciò per cui l’uomo, in quanto persona, diventa maggiormente uomo»; quindi, far cultura diventava promozione umana nella quale la fede godeva il ruolo di protagonista. Diceva Giovanni Paolo II che «Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta».