Aquaranta giorni dalla domenica di Risurrezione, la liturgia ci fa vivere il congedo di Gesù dagli Apostoli prima di salire al Padre. Risorto, egli si era reso più volte visibilmente presente in mezzo ai “suoi”, ma giunse il giorno in cui, date loro le ultime istruzioni, «li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo» (Lc 24,50-51). Gesù, fra lo stupore e la commozione dei suoi discepoli, fu elevato in alto e sottratto al loro sguardo. Ritornò in cielo; vi ritornò in quanto uomo, poiché in quanto Dio egli, pur incarnandosi e subendo la morte, era sempre rimasto nella beatitudine della sua intima unione con il Padre e lo Spirito Santo.
La festa dell’Ascensione celebra, quindi, l’esaltazione dell’umanità del Cristo e, in lui, della nostra umana natura. Essa ci aiuta a rinnovare la nostra fede in Colui che, salendo al cielo quale “Figlio dell’uomo”, non ci ha abbandonati, ma ci ha preceduti per riaprirci la via verso la nostra vera patria e di là, con la potenza del suo Spirito, ci sostiene nel faticoso pellegrinaggio terreno.
Il mistero dell’infanzia e della vita nascosta di Gesù Cristo, che abbiamo contemplato nel Tempo di Natale, trova nel mistero pasquale la sua piena fioritura e il suo frutto maturo. Il germoglio della radice di Jesse è diventato un grande albero; sulla terra è sbocciata una nuova primavera della vita. E questo miracolo avviene innanzitutto nei cuori dei credenti.
La Risurrezione di Cristo è l’evento che sta alla fonte dell’anno liturgico: da essa derivano tutte le altre feste. La fede cristiana, infatti, si fonda sulla morte redentrice e sulla Risurrezione del Cristo. Come afferma san Paolo, se Cristo non fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede e noi saremmo da commiserare più di tutti gli uomini. «Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti» (cf. 1Cor 15,15-20).
La Settimana Santa è il cuore dell’anno liturgico, poiché dal mistero pasquale, in essa solennemente celebrato, scaturisce il fiume della grazia, il dono della salvezza.
Ogni cristiano che nelle settimane di Quaresima si è impegnato nella lotta contro il male e che, nello sforzo della propria purificazione, ha tenuto lo sguardo contemporaneamente rivolto a Dio e a se stesso, ora è invitato dalla Liturgia a non avere occhi che per il Cristo. È unicamente la sua Persona – le sue parole, i suoi gesti, i suoi silenzi – a colmare tutto questo sacro tempo e attirare tutta la nostra attenzione, fino a immedesimarci in Lui, per condividerne la Passione in uno slancio di autentica empatia, di profonda “com-passione”.
La spiritualità del tempo di Quaresima
è un costante appello a ritornare a Dio.
Far dimorare Dio al centro dei nostri interessi
e gestire il nostro vivere in comproprietà
Già all’inizio del IV secolo si ha testimonianza della pratica, nella Chiesa, di un periodo di quaranta giorni in preparazione alla celebrazione del Sacro Triduo pasquale – Passione, Morte e Risurrezione di Cristo – che è il centro di tutto l’anno liturgico.
Originariamente questo tempo – che trae il suo significato simbolico dai quarant’anni della traversata del deserto da parte del popolo eletto (esodo), dal ritiro di Mosè sul Sinai e più ancora di Gesù stesso nel deserto all’inizio della sua predicazione – coincideva con la preparazione dei catecumeni che a Pasqua avrebbero ricevuto il Battesimo. Essi erano così premurosamente sostenuti da tutta la comunità cristiana che con loro si preparava ad una nuova rinascita spirituale. La Quaresima era pure con il periodo in cui i pubblici peccatori si sottoponevano ad una particolare austerità di vita, per essere riammessi, il Giovedì Santo, nella comunità ecclesiale accostandosi alla mensa eucaristica.
«Tutti vengono a te», canta ancora
la liturgia; ma questo “andare”
è sempre all’inizio, ha sempre bisogno
di essere nuovamente sospinto
Sulla soglia del nuovo anno troviamo ad accoglierci, con sorriso rassicurante, Colei che il Concilio di Efeso ha riconosciuto a pieno titolo “Madre di Dio”. Come umile e insieme altissimo trono, ella regge sulle ginocchia il Rex Pacificus. Felicemente perciò la Chiesa ha fatto la scelta di celebrare proprio il 1° gennaio anche la “giornata della pace”.
Quasi presi per mano e guidati da Maria, ci avviamo, dunque, per i sentieri di questo nuovo spazio di tempo che il Signore ci dona per ritornare a lui con tutto il cuore.
La liturgia ci fa ancora sostare alla grotta di Betlemme, dove troviamo la Vergine Madre che, dopo la visita dei pastori, va meditando nel suo cuore quanto sta accadendo attorno a lei e quanto si va dicendo del Bambino che stringe tra le sue braccia.
Il Padre, che ha generato un Figlio per amarlo, ha creato il fratello, copia minore di quel Figlio, perché noi possiamo amarlo. Il fratello è immagine di Dio: sua progenie, frutto del suo sangue: sì che in lui si ama Dio per effigie e per rappresentanza. Né basta: il fratello è tale perché figlio d'uno stesso Padre, Dio; ridivenuto figlio di Dio per l'incarnazione, passione e morte di Gesù. Si può dire che il fratello ci è stato dato perché ci ricordi, per similitudine, Dio [...].
Il quale, perché infinito, non si può vedere con pupille limitate: lo si vede, come in uno specchio, nel fratello. Infinito, Dio non si può amare con servizi congrui alla sua infinità. Lo si può servire nei fratelli, in cui è Cristo, poiché i fratelli abbisognano di servizi limitati, congrui alle nostre possibilità.
«Entrai nell’intimità
del mio cuore…
e vidi con l’ochio
dell’anima mia
una luce inalterabile…
non era una luce terrena.
Era un’altra luce…
era la luce
che mi ha creato.
Chi conosce
la verità
conosce
questa luce».
Sant’Agostino,
Le confessioni
Nel buio misterioso di una cavità naturale la venuta di Gesù Bambino appare un luminoso contrasto. Spesso, nelle rappresentazioni, in lontananza sullo sfondo, sorge la turrita città di Gerusalemme quasi a ricordare il luogo della futura passione, già in qualche modo presagita dall’umile nascita del Figlio di Dio. Luca parla solo di una stalla e di una mangiatoia. Il bue e l’asino appartengono ad una forma di idillio rurale
Se poco sappiamo circa l’infanzia e l’adolescenza di Gesù, ancor minori notizie abbiamo della fanciullezza di Maria. L’autore del Protoevangelo di Giacomo, scritto apocrifo del secondo secolo, racconta che all’età di tre anni Maria fu accompagnata dai suoi genitori Gioacchino e Anna al tempio, dove un sacerdote l’accolse e la benedisse, facendola sedere sul terzo gradino, cioè il più vicino possibile all’altare; il Signore effuse su di lei la sua grazia ed ella si mise a danzare.
Il racconto apocrifo nasconde un grande messaggio: il cuore di Maria fu sempre interamente dedicato a Dio solo. Come molte feste mariane antiche, anche questa nasce dalla dedicazione di una basilica in onore di Santa Maria, costruita dall’imperatore Giustiniano (527-565) a Gerusalemme e dedicata il 21 novembre 543, sul luogo in cui la Vergine avrebbe trascorso la propria infanzia consacrata al servizio divino.
“Midrash” è la parola che nella lingua ebraica indica il modo di interpretare la Bibbia che, andando al di là del senso letterale, scruta il testo in profondità per renderlo attuale alla vita del lettore, traendone applicazioni pratiche e significati nuovi che non appaiono a prima vista. Con questo criterio vanno letti i primi capitoli dei Vangeli di Matteo e di Luca, detti “Vangeli dell’infanzia”, dove Gesù è presentato come colui che dà compimento alle profezie.
San Matteo cita molte volte l’antico testamento, per dimostrare che Cristo realizza quello che avevano promesso la legge di Mosé e i profeti, e lo fa anche nella narrazione della fuga della Santa Famiglia in Egitto nel secondo capitolo del suo vangelo.
Gesù già da bambino partecipa così alla vita del suo popolo: l’Egitto diventa per lui il rifugio, come lo fu per i patriarchi Abramo, Giuseppe e Giacobbe, la terra dove il Cristo Bambino, appena nato, si rifugiò e visse per sfuggire alla persecuzione del re Erode.