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Mercoledì, 21 Dicembre 2011 13:29

I tre di Nazareth: una famiglia nella norma

di Tarcisio Stramare

La nostra immaginazione difficilmente riesce a entrare nel mistero dell’Incarna­zione. Pur credendo che Dio si è fatto veramente uomo “in tutto” simile a noi, fuorché nel  peccato, pensiamo istintivamente che qualche eccezione ci debba essere stata. La letteratura apocrifa dei primi secoli, infatti, non ha potuto fare a meno di presentare Gesù come protagonista di tanti episodi meravigliosi, che la Chiesa, tuttavia, ha istintivamente rifiutati, anche se non irriverenti, ma semplicemente perché uscivano “dalla norma” di vita dell’uomo, come Gesù ha voluto essere considerato: cittadino di un oscuro paese, Nazaret; figlio di un artigiano, Giuseppe. Anche l’iconografia alla quale siamo abituati non ha saputo resistere all’eccezione, raffigurando Gesù sempre con un’aureola luminosa, che certamente non faceva parte della sua figura. Il vangelo di Matteo puntualizza con chiarezza l’origine divina di Gesù, concepito  da Maria per opera dello Spirito Santo. Si tratta in questo caso di un evento necessariamente eccezionale, perché riguardante la “preesistenza” divina della Persona di Gesù; esso, tuttavia, non è stato affatto appariscente e conseguentemente Gesù è stato considerato “il figlio di Giuseppe”. I racconti immediatamente successivi a quello del concepimento ci mostrano subito con chiarezza la “fragilità” di questo Dio fatto uomo, che non fa nessun uso della sua potenza, ma come tutti gli altri esseri umani “fugge” dalle insidie che minacciano la sua vita.
Non vogliamo entrare qui nella teologia biblica della fuga di Gesù in Egitto, del suo ingresso nella “terra d’Israele” e della sua dimora a Nazaret, racconti di grande interesse per l’evangelista Matteo, che vede in tali episodi la realizzazione di un piano divino già contenuto nell’Antico Testamento. Fermiamo, invece, la nostra attenzione sul “comportamento” di Gesù, che si rimette totalmente alle decisioni prese dal suo padre putativo Giuseppe, chiaramente guidato dalla volontà divina, trasmessagli per il ministero di un angelo, ma “senza sconti” sulla loro esecuzione; tale comportamento evidenzia la sua fede, che lo avvicina a quella di Abramo, introduttore, costui, dell’Antica Alleanza, come Giuseppe lo è della Nuova, secondo la felice intuizione di Giovanni Paolo II nell’Esortazione apostolica “Il Custode del Redentore” (n.32).  
Su tale comportamento, che è quello proprio del mistero dell’Incarnazione, si era soffermato già Origene (183-255), una delle più rilevanti personalità della Chiesa antica. Che necessità aveva Gesù di fuggire in Egitto, avendo Dio la possibilità di usare altri mezzi? Nessuna, ma “era necessario che colui che aveva decretato di vivere in modo umano tra gli uomini, non si esponesse inconsideratamente alla morte, ma che si lasciasse guidare dai nutrizi… Che cosa c’è di assurdo per colui che aveva assunto la natura umana, provvedere in modo umano per affrontare i pericoli? Non perché ciò non avesse potuto essere fatto in altro modo, ma perché si doveva provvedere alla salvezza di Gesù secondo un certo modo e ordine. Certamente era più che sufficiente per il bambino Gesù evitare le insidie di Erode, fuggendo in Egitto con i suoi genitori fino alla morte dell’insidiatore”. Insomma, per la difesa di Gesù, che aveva voluto vivere in modo umano, seguendo la via ordinaria, la protezione paterna doveva bastare. Ovviamente Giuseppe non poteva essere il vecchietto creato dalla fantasia degli apocrifi, necessitati conseguentemente a inventare una serie ininterrotta di miracoli per arrivare al lieto fine. Ne segue che l’invenzione del “vecchietto”, nonostante il suo lungo successo, va rigettata per la semplice ragione della sua contraddizione con la legge della “normalità”, che deve caratterizzare il mistero del’Incarnazione.
Anche il vescovo san Pietro Crisologo (380-450), teologo insigne dell’incarnazione del Verbo, dopo aver descritto con grande eloquenza e ricchezza di paragoni i pericoli e le difficoltà affrontate dalla santa Famiglia, si pone la domanda circa un opportuno intervento di Dio per evitarli o almeno limitarli. “Colui che la verginità non ha fermato nella sua nascita, al quale la ragione non si è opposta, al quale la natura non ha potuto resistere, quale potenza, quale forza, quale pericolo prevale ora per costringerlo alla fuga?... Cristo si salva con la fuga!”. Dopo una coinvolgente descrizione della fuga di Cristo, l’oratore così conclude: “Fratelli, la fuga di Cristo è un mistero, non l’effetto del timore; avvenne per la nostra liberazione, non a causa di un pericolo del Creatore; fu un effetto della potenza divina, non della fragilità umana; questa fuga non mira a evitare la morte del Creatore, ma a procurare la vita del mondo”. Insomma, bisogna tener in conto che i disegni di Dio non sono i nostri.
In una omelia del secolo VI, attribuita erroneamente a san Giovanni Crisostomo,  ritorna lo stesso problema teologico. L’oratore pone in bocca a Giuseppe la domanda all’angelo circa il motivo del comando della fuga: “Come il figlio di Dio fugge davanti all’uomo? Chi libererà dai nemici, se lui stesso teme i suoi nemici?”. Ecco la risposta: “Innanzi tutto, egli fugge per rispettare in tutto la regola dell’umana natura, che aveva assunta; nel caso particolare, perché conviene e alla natura umana e all’età infantile fuggire il potere minaccioso”. La domanda in realtà è la nostra, perché di fatto Giuseppe non fece nessuna domanda, tanto la sua obbedienza era pronta e generosa. Interessante è il commento dello stesso autore all’ordine dell’angelo: “Prendi il bambino e sua madre” (Mt 2,13.20). “Vedi che Giuseppe non era eletto per un matrimonio ordinario con Maria, ma per servirla? Nel suo viaggio in Egitto e ritorno, chi l’avrebbe aiutata in così grande necessità, se non fosse stata a lui sposata? Infatti, a prima vista, Maria nutriva il Bambino, Giuseppe custodiva. Di fatto il Bambino nutriva la madre e Giuseppe difendeva. Perciò non dice: Prendi la madre e il suo bambino, ma Prendi il bambino e sua madre, perché questo figlio non è nato per lei, ma lei è stata preparata madre per quel figlio. Né era gloria del figlio avere quella madre, ma di lei era la beatitudine di avere questo figlio”. Insomma, Maria e Giuseppe esistono e vivono solo per Gesù, che occupa il posto centrale.
Quanti utili insegnamenti ci vengono dal testo evangelico, vera scuola di vita quotidiana. Innanzi tutto, l’importanza delle istituzioni, il matrimonio in prima linea, assunto dallo stesso Figlio di Dio per la sua incarnazione e conseguentemente  prima realtà umana “santificata” dalla sua divina presenza. Inoltre, il ruolo che nel matrimonio è assegnato ai coniugi in relazione ai figli, i quali non ne sono un semplice prodotto programmabile e disponibile. Nel caso di Maria e Giuseppe, è vero, si tratta dello stesso Figlio di Dio, la seconda Persona della Santissima Trinità; tuttavia, per quanto ci riguarda, è parimenti vero che ogni persona umana è figlio adottivo di Dio. Infine, dobbiamo credere che la “divina Provvidenza” è sempre presente e operante, anche nei casi in cui il suo agire non è sempre comprensibile e, a volte, addirittura sconcertante.
San Giuseppe rimane un “insigne esempio” di fede e di obbedienza per tutti gli sposi e padri. Il fatto di non averne tenuto sufficientemente conto nel passato, emarginandone o addirittura ridicolizzandone la presenza e la figura, si ripercuote oggi pesantemente sull’immagine del matrimonio e dei suoi componenti, incamminati verso la mercificazione dei propri valori.

Martedì, 29 Novembre 2011 14:42

Cammino formativo alla luce della Bibbia

di Tarcisio Stramare

La Bibbia inizia il racconto della storia della salvezza con Dio “creatore”. Le cose vengono all’esistenza in  risposta alla sua parola, divenendo l’immagine “visibile” di quanto egli progetta e vuole, processo che culmina e si conclude nell’uomo: “E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò” (Gen 1, 27). La descrizione dettagliata della formazione dei “due” – l’uomo maschio e femmina - vuole sottolineare insieme l’“unità” nella “diversità” (Gen 2,18-24).
Una riflessione “sapienziale” sul racconto della creazione, tenuto conto di tutta la storia sacra e dello sviluppo teologico, ci porta a scoprire il significato profondo delle cose, risalendo dal visibile “creato” alla sua sorgente, ossia all’invisibile “Creatore”, “amante della vita”, come leggiamo nel libro della Sapienza:
“Tu, infatti, ami tutte le cose che esistono
e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato;
se avessi odiato qualche cosa, non l’avresti neppure formata.
Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non l’avessi voluta?
Potrebbe conservarsi ciò che da te non fu chiamato all’esistenza? Tu sei indulgente verso tutte le cose, perché sono tue,
Signore, amante della vita” (11, 24ss.).

 

di Luciano Mediolani

La comunione coniugale costituisce il fondamento sul quale si viene edificando la più ampia comunione della famiglia, dei genitori e dei figli, dei fratelli e delle sorelle tra loro, dei parenti e di altri familiari.
Tale comunione si radica nei legami naturali della carne e del sangue, e si sviluppa trovando il suo perfezionamento propriamente umano nell’instaurarsi e nel maturare dei legami ancora più profondi e ricchi dello spirito: l’amore, che anima i rapporti interpersonali dei diversi membri della famiglia, costituisce la forza interiore che plasma e vivifica la comunione e la comunità familiare.
La famiglia cristiana è poi chiamata a fare l’esperienza di una nuova e originale comunione, che conferma e perfeziona quella naturale e umana. In realtà, la grazia di Gesù Cristo, «il Primogenito tra molti fratelli», è per sua natura e interiore dinamismo una «grazia di fraternità», come la chiama san Tommaso d’Aquino.

di Luigi Crimella

Un sito internet potenziato e rinnovato da parte del Pontificio Consiglio per la famiglia (www.familia.va), un secondo sito internet specifico per l'appuntamento mondiale di Milano (www.family2012.com), la diffusione a stampa e on-line di un volume di un centinaio di pagine ("La famiglia: il lavoro e la festa") con le catechesi preparatorie in sette lingue da utilizzare in tutto il mondo, oltre a innumerevoli iniziative pubblicitarie e di sponsorizzazione a livello nazionale e internazionale: sono questi gli "ingredienti" del cammino preparatorio illustrati il 24 maggio in Vaticano, in vista del VII incontro mondiale delle famiglie in programma a Milano dal 30 maggio al 3 giugno 2012.

di Angelo Forti

La Chiesa «universale» scommette il futuro sulla chiesa «domestica», la famiglia nata dal sacramento del matrimonio, come sorgente perenne di forza e grazia divina. Il VII Incontro mondiale delle Famiglie, si svolgerà a Milano dal 30 maggio al 3 giugno 2012. La prima tappa di questo lungo itinerario di preparazione  parte proprio da Nazareth, la culla della prima famiglia cristiana.  Quella famiglia è diventata una scuola di umanità, di fede, di relazioni, di lavoro e di festa.A Nazareth da sempre si è respirato un clima di «famiglia, di lavoro e di festa», tre temi che si intrecceranno in una danza di gioia e di itinerari di vita.
In questi mesi di preparazione avremo il compito di sostare nel cuore di questa esemplare famigliola. I nostri occhi diventeranno curiosi, avidi di luce per cogliere nei sentimenti di questa «trinità terrena», quei semi di speranza per far lievitare la nostra vita familiare con la stessa linfa che ha alimentato la loro esistenza.

Giovedì, 16 Giugno 2011 14:54

Don Guanellla: «mia sorella Caterina»

di Franca Vendramin

Caterina nasce a Fraciscio di Campodolcino (Sondrio) il 25 marzo 1841. Il giorno dopo viene battezzata: Maria Caterina Anna. è l’ottava della numerosa famiglia (13 figli) di Lorenzo Guanella e di Maria Bianchi; nell’anno successivo nascerà Luigi, il futuro san Luigi Guanella.
Fin dall’infanzia Caterina è legata al fratello da profondo affetto: condivide con lui sogni, progetti, ideali di bene. Il gioco che i due fanciulli amano fare insieme, “la minestra dei poveri”, diventerà realtà nella loro futura missione.
Fino ai 27 anni Caterina  rimane a Fraciscio, poi segue don Luigi nella Parrocchia di Savogno (Sondrio) dal 1868 al 1875. Lo affianca nel suo ministero infaticabile: insegna nella scuola elementare, si occupa della catechesi, dell’assistenza agli anziani e agli infermi. Caterina, considerata dai parrocchiani un “angelo di buon esempio”, gode di un “alto credito di virtù”; sostiene don Luigi anche nelle difficoltà e nelle incomprensioni, con la preghiera e il sacrificio.

 

di Enrico Ghezzi

L’occasione della canonizzazione di don Luigi Guanella, ci spinge, piacevolmente, a chiederci: che cos’è la ‘santità’? Una risposta semplice e immediata, che possiamo spiegare anche ai nostri bambini, può essere: ‘santi’ sono coloro che ‘seguono’ Gesù, perché hanno ‘ascoltato’ la sua parola.  Infatti le comunità dei primi cristiani, secondo l’uso in S. Paolo, erano chiamati santi: «A tutti quello che sono a Roma, amati da Dio e santi  per chiamata» (Rm 1,7; At 9,13-15; 1Cor 1,2; Ef 1,1). Qui, nel NT come già nell’At con la chiamata di Abramo nel quale sono ‘benedette tutte le nazioni’, la santità è preceduta dalla ‘chiamata’ alla sequela di Gesù: i primi cristiani venivano così indicati perché, attraverso il ‘battesimo’, che è la chiamata alla fede, i cristiani erano stati ‘illuminati e santificati dallo Spirito Santo’.

Giovedì, 16 Giugno 2011 14:44

Don Luigi Guanella e il lavoro

di Cesare Perego

Il tema del lavoro, in particolare del lavoro agricolo, fu sempre presente al cuore e alla mente di don Luigi Guanella. Originario di un villaggio montano della Valtellina (Fraciscio, a 1350 s.m.), conobbe fin da piccolo il valore della lavoro nell'ambito familiare e la sua importanza per la crescita sociale. Sperimentò le fatiche e i rischi del lavoro manuale; poté costatare l'angoscia di quanti senza una occupazione erano costretti a lasciare il paese per emigrare in terre lontane.
Il suo primo biografo, d. Leonardo Mazzucchi, così descrive il rapporto di Don Guanella con il lavoro: "l'attività febbrile ed instancabile fu il carattere principale della vita penitente e mortificata di Don Guanella, conforme alla sua educazione, alle sue doti fisiche e morali, alle esigenze dei tempi; e già illustrammo come ne facesse un programma di vita per i suoi Figli e le sue Figlie spirituali: lavorare, lavorare, lavorare fino a recarsi al riposo la sera stanchi e bastonati, vittime di santa operosità sull'altare della carità cristiana. Ogni volta che don Luigi ricordava la sua vita da adolescente, quando con i genitori passava le vacanze lavorando e non si permetteva nessuno svago che non fosse suggerito da qualche scopo virtuoso di far del bene altrui, aggiungeva con semplicità: «Fu la Provvidenza a darmi genitori di virtù, che m'infondessero spirito di lavoro e di sacrificio».... Tutti coloro che conobbero Don Guanella videro come non si desse mai riposo un istante né da chierico, né da giovane sacerdote, né da vecchio affaticato: operosità continua, ininterrotta, estenuante, intellettuale, morale, corporale, di mente, di cuore, di penna, di moto".

Giovedì, 16 Giugno 2011 14:41

La santità del samaritano

di Angelo Sceppacerca

Alla vigilia del Giubileo del 2000, nel Messaggio per la Giornata delle vocazioni, Giovanni Paolo II scriveva: «Nel nostro tempo, secolarizzato e pur affascinato dalla ricerca del sacro, c’è particolare bisogno di santi che, vivendo intensamente il primato di Dio nella loro esistenza, ne rendano percepibile la presenza amorosa e provvida. La santità, dono da implorare incessantemente, costituisce la risposta più preziosa ed efficace alla fame di speranza e di vita del mondo contemporaneo. L’umanità ha bisogno di presbiteri santi e di anime consacrate che vivano quotidianamente il dono totale di sé a Dio ed al prossimo; di papà e di mamme capaci di testimoniare tra le mura domestiche la grazia del sacramento del matrimonio, risvegliando in quanti li avvicinano il desiderio di realizzare il progetto del Creatore sulla famiglia; di giovani che abbiano scoperto personalmente Cristo e ne siano restati affascinati così da appassionare i loro coetanei alla causa del Vangelo».

Giovedì, 16 Giugno 2011 14:40

La santità è frutto di coraggio

«Non abbiate paura!». E’una delle espressioni che hanno caratterizzato il pontificato di Giovanni Paolo II.
Nella bibbia questo invito a non lasciarsi prendere della paura è ripetuto per ben 365 volte: una dose quotidiana per il coraggio di vivere. Ha iniziato l’angelo Gabriele a Nazareth quando a Maria dice: «Non avere paura». Lo ripete l’angelo ancora nel sogno a Giuseppe: «Non aver paura di prendere Maria come tua sposa». L’ha detto Gesù ai discepoli su una barca in preda allo sgomento di una tempesta nella notte. L’ha sentito anche tante volte don Guanella di fronte alla difficoltà nel compiere il bene: «Non aver paura, la carità ti spinge sempre oltre, verso la spiaggia dei poveri».

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