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Lunedì, 29 Gennaio 2018 13:45

Un’amicizia qualificata è il piacere più grande

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di Giovanni Cucci

Un altro punto importante dell’amicizia autentica è l’aver superato la fase della vita corrispondente a quello che Freud chiamava il principio del piacere, che contrapponeva al principio di realtà. Il principio del piacere non riguarda soltanto le espressioni apertamente sessuali, ma anche gratificazioni di altro tipo, più sottili ma non meno deleterie, legate ad esempio al potere, ai ricatti affettivi, alla compiacenza al non poter dire ciò che si pensa perché tagliati fuori irrimediabilmente dalla considerazione altrui; in questo modo l’altro scompare come altro, esso è ridotto a una funzione, quella appunto di soddisfare la propria gratificazione: è stato ridotto a una cosa. Freud fa delle osservazioni acute sul carattere paradossale del piacere: esso non è altro che la morte del desiderio, allenta la tensione interna e con il tempo richiede dosi sempre più forti.

È un po’ come quando si iniziano a prendere droghe leggere, l’organismo si abitua e non prova più le sensazioni iniziali. In questo caso la soddisfazione consiste nella cessazione del bisogno, anche se l’individuo continua a cercarlo con sempre meno soddisfazioni. La conclusione è che chi cerca il piacere non lo raggiunge mai, perché esso si sposta sempre più in avanti: «Uno stile di vita finalizzato alla ricerca del piacere (in genere) conduce lentamente all’inerzia della morte psichica, ovvero all’indifferenza generale. La progressiva dipendenza dal bisogno crea sempre più assuefazione (e conseguente pretesa di aumento della dose), per cui da un lato l’individuo diviene progressivamente dipendente da una gratificazione che ha la sensazione immediata di ottenere, d’altro lato, in realtà, diviene sempre meno capace di godere dello stesso piacere gratificato (la dose infatti deve aumentare). La contraddizione porta, a lungo andare, alla fissazione su quest’unico piacere con esclusione di altri desideri, dunque alla povertà qualitativa e alla riduzione quantitativa dei desideri, quasi a una paralisi o a una lenta eutanasia della capacità di desiderare. Potremmo rendere la geniale intuizione freudiana in questi termini: più uno fa quel che gli piace, meno gli piace quel che fa» (Cencini).

Se si vuole gustare la bellezza dell’amicizia è necessario superare la visione della realtà in termini di mi piace/non mi piace, per vivere relazioni più vere e profonde, e questo è naturalmente anche il presupposto per vivere la relazione amicale con Dio, rispondendo in questo modo alla sua chiamata. La visione biblica suppone l’uscita da se stessi, una lotta contro il proprio egoismo di fondo, che vorrebbe come criterio ultimo dell’esistenza la realizzazione di sé, per vivere l’amore, anche l’amore di amicizia, come agape: «La motivazione di base della vocazione cristiana non può essere l’autorealizzazione come fine a se stessa, dove l’uomo è centrato su se stesso e perciò incapace di amare e incapace di ricevere l’amore, impossibilitato ad una relazione con l’altro a scopo della propria autorealizzazione. Ben diversa è l’antropologia dell’agape. Qui la motivazione è il dono totale di sé per il bene, tutto il bene dell’altro; nella relazione con l’altro l’individuo esce da se stesso fino a dimenticare se stesso; egli non cerca la realizzazione di sue proprie particolari capacità o possibilità, ma accoglie l’altra persona senza riserva, nella sua totalità. E così può realizzare se stesso; ma questa autorealizzazione è una conseguenza dell’uscita da se stessi per amore dell’altro. L’antropologia cristiana è per il personalismo del Tu e del tu, non per quello dell’“io”» (L.M. Rulla).

Costituiscono ulteriori indici di maturità l’apprezzamento della complessità dell’altro e la presenza della flessibilità, intese sia come capacità di adattamento sia come riconoscimento dell’unicità dell’altro, perché ogni relazione è diversa dalle altre e presenta per molti aspetti delle “sorprese” non prevedibili a priori; essa va capita di volta in volta e se vuole attuarsi deve superare anche ostacoli, difficoltà e possibili incomprensioni.

Empatia, relazione, complessità e flessibilità procedono infatti di pari passo: «Il mondo degli altri non è un giardino di delizie, ma una costante provocazione alla lotta, all’adattamento, al superamento; e ripresenta costantemente il rischio e il dolore. Non per nulla si riafferma con tanta insistenza che non ci sono, in questo campo, regole esaurienti, e che lo scambio richiesto dall’opera educativa non potrà mai essere sostituito dalla macchina più sofisticata o da un programma teorico astratto» (F. Imoda).

Tutto questo presuppone una libertà interiore di fondo, che si nota soprattutto dalla capacità di riconoscere e di parlare dei propri limiti e delle proprie negatività senza paura; essa manifesta una sostanziale visione positiva di sé che non cerca continuamente conferme esterne. Dalla libertà interiore emerge l’attenzione nei confronti di ciò che è bello in se stesso, esprimendo una contentezza di vivere che gli permette di guardare al di fuori di sé. Al contrario, chi mostra di lamentarsi sempre, chi è conflittuale nelle relazioni, pungente nelle risposte, chi non sembra mai in pace con se stesso e ha continuamente bisogno di conferme ed incoraggiamenti, chi non sa cogliere la bellezza della propria scelta vocazionale, mostra di non essere affettivamente libero.   

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