Il piacere, come la realizzazione personale, presentano questo strano paradosso che si raggiungono quando non li si cerca, sono il frutto di una impostazione della vita all’insegna della gratuità. Se le relazioni affettive risultano ambigue e finiscono per strumentalizzare l’altro, ostacolando un processo di maturazione, la colpa non è certo dell’amicizia, dell’affettività, e il rimedio non può essere di impedirsi di avere affetti (come si potrebbe?) e amicizie. Il problema di fondo è come si vivono le relazioni con gli altri, come si gestiscono i propri bisogni dissonanti. Parafrasando una frase del Vangelo (Mc 7, 14-15) è ciò che sta dentro di noi che va purificato e corretto, perché ciò che viviamo al di fuori di noi presenterà le medesime caratteristiche.
Un’amicizia sana aiuta a diventare più liberi e maturi negli affetti. Per crescere nell’amicizia è necessario realizzare ciò che in psicologia viene chiamata la “relazione oggettuale totale” con la persona nella sua globalità. Nel rapporto di amicizia, questo significa che la stima e la fiducia non vengono meno quando emergono anche i limiti e i difetti della persona, le sue eventuali rigidità e ottusità; la relazione riguarda infatti la persona intesa nella sua complessità e unicità, e non un suo aspetto parziale (l’intelligenza, l’aspetto fisico, l’abilità pratica, la simpatia di saper ridere e scherzare, trascorrendo così una serata piacevole, o al peggio i suoi soldi...) che potrebbe renderla gradita: c’è una stima “a fondo perduto”, una simpatia verso l’altro indipendentemente da tutto, e che è anche il mistero e la bellezza presenti ogni volta che nasce una nuova amicizia. Come per la rosa del Piccolo Principe, diversa da tutte le altre rose, belle ma vuote, l’amico sa guardare in modo tutto particolare l’amico, non si sofferma sugli eventuali limiti e difetti, pur presenti e riconosciuti, e nemmeno cerca vantaggi o capacità particolari che gliene confermino il valore; ciò che conta sembra essere piuttosto la condivisione di gesti e azioni anche piccoli e semplici, ma che esprimono una cura tutta particolare, lo sbocciare di una relazione che nasce inaspettatamente dalla quotidianità di gesti ordinari ma che acquistano un valore tutto particolare e che rimangono nel cuore come le cose che hanno reso bella la vita. C’è una benevolenza nei confronti dell’amico espressa anzitutto dallo sguardo nei suoi confronti; l’amico ha valore ai miei occhi, vale perché “è lui”.
Come nota in forma scherzosa ma profonda J. Viorst: «Rosie è amica mia. Mi vuole bene anche quando sono di cattivo umore e non solo quando sono simpatico. I pitoni mi spaventano molto, e lei mi capisce. Ho i piedi in dentro, le spalle cadenti, e i peli che crescono nelle orecchie. Ma Rosie dice che sono bello. È un’amica».
Vi è dunque un’unicità riconosciuta alla base dell’amicizia e uno sguardo di benevolenza che introduce un colore diverso in ciò che si sta vivendo. La qualità di un’amicizia non può dipendere dal numero di capacità riscontrate, sarebbe una meschina variante dell’efficientismo utilitaristico, ma è la persona in se stessa che costituisce un bene per l’amico... ma per fare questo egli deve mostrare la medesima valutazione nei suoi stessi confronti, per questo amicizia, stima di sé e maturità affettiva fanno parte di un unico cammino.
L’amicizia “sana” sa integrare anche l’aggressività, sa affrontare la diversità anche nei suoi aspetti “spigolosi” che possono causare conflittualità, sapendo che la relazione amicale è un valore capace di ricomprendere anche questo aspetto. Questo significa concretamente che la persona sia «riconciliata con la vita e con il suo passato, capace di scorgere il positivo presente nella propria esistenza e di godere dell’affetto già ricevuto dagli altri, al punto da saper cogliere la sproporzione tra quanto ha ricevuto e quel che avrebbe meritato o dato, e vivendo con gratitudine e semplicità la scelta di donare e donarsi» (Cencini).
L’amicizia di questo tipo manifesta una fiducia che è più forte dei difetti riscontrati nell’altro, perché è fondata su qualcosa di più fondamentale, su quello sguardo benevolo cui si accennava, che sa capire anche eventuali fallimenti. Nota sempre Viorst: «Se Rosie mi confidasse un segreto e mi picchiassero e mordessero, non direi qual era il segreto di Rosie. E anche se mi torcessero il braccio e mi dessero calci negli stinchi, non direi lo stesso qual era il segreto di Rosie. E se poi mi dicessero: “Parla o ti gettiamo nelle sabbie mobili”, Rosie mi perdonerebbe per aver parlato».