Nella piccola azienda di Nazareth san Giuseppe sapeva che gli strumenti del suo lavoro erano gli utensili di un artista che aiutava Dio a rendere migliore e più bello il mondo.
Mediante il lavoro l’uomo collabora con Dio nel portare a termine la creazione.
Lo riferisce una delle prime pagine della Bibbia. Dopo aver creato il mondo, Dio comanda all’uomo e alla donna: «Riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo…» (Gn 1, 8). Soggiogare la terra vuol dire prendere possesso dell’ambiente e governarlo, rispettando l’ordine posto in esso dal Creatore e sviluppandolo a proprio vantaggio per soddisfare i bisogni propri, della famiglia e della società.
In questo consiste l’impresa della scienza e del lavoro per umanizzare il mondo, al fine di farne la dimora dell’uomo, una casa di giustizia, di libertà e di pace per tutti.
Quando Dio ha creato il mondo, non lo ha creato compiuto: la creazione non è finita. L’uomo ha preso possesso lentamente della terra, forgiandola, adattandola alle sue esigenze, sviluppando le potenzialità del creato per il suo bene e per la gloria di Dio. In modo particolare oggi stiamo assistendo a trasformazioni impensabili fino a pochi decenni fa.
Non siamo però padroni del creato. Dobbiamo collaborare con Dio nel portarlo a compimento, rispettando la natura e le leggi insite in essa. Dio ci ha affidato il creato, perché potessimo custodirlo e perfezionarlo, non per sfruttarlo e manipolarlo a nostro piacimento. Ci ricorda ancora il libro della Genesi: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (2, 15). Il lavoro – vissuto in condizioni rispettose della giustizia e della dignità umana, oltre che dell’ambiente affidatoci dal Creatore – è la via in cui l’uomo realizza questo compito: così avvenne anche tra Giuseppe e Maria.
Al padre spetta il compito dell'educazione morale di insegnare i precetti della Torah. Con essa si mettono i confini alla vita di ognuno, compresa la propria affettività. Ogni parola che educa è un "ponte", un collegamento tra me e l'altro che ci permette di incontrarci, di interagire, di cooperare. «La mamma dà l'affetto, le braccia, il seno, il grembo; il padre dà "le parole". Il rapporto tra mamma e figlio è immediato, s'impara per osmosi». Quello col padre è "mediato" proprio dalle parole. Per questo prepara e introduce alla vita sociale, politica, alla collettività e alla vita comunitaria.
Giuseppe avrà, dunque, un grande compito: quello di educarlo al mestiere del vivere umano. L'icona del papà educatore è dipinta dalla pagina di Luca quando racconta di Gesù che si "perde" tra i Dottori, nel Tempio di Gerusalemme, mentre Maria e Giuseppe ansiosamente lo cercano.
Il rimprovero che Maria rivolge a Gesù richiama innanzitutto l'autorità di Giuseppe: «Tuo padre ed io angosciati ti cercavamo». Un fatto che afferma il ruolo del padre e rivela come sia affidato a lui il compito di insegnare "le parole", i precetti, i comandamenti.
Secondo la Bibbia, infatti, un figlio non nasce quando viene alla luce, ma durante la sua crescita, che viene portata a compimento proprio con l'educazione. Occorrono i sette anni di formazione affettiva con la madre, durante i quali il piccolo è ancora "pasta di latte", carne di latte. Giuseppe quindi per dare il nome a Gesù, al Salvatore, non può staccarlo dalla madre. Giuseppe dà la vita anche a Maria, perché custodisce lei e il figlio, tutti e due insieme.
Il senso del lavoro non può essere dato semplicemente dall'esterno, a mo’ di formula risolutiva e una volta per sempre: occorre piuttosto, da parte di ciascuno, continuare a ricercarlo, cogliendone ogni suo manifestarsi per sceglierlo, volerlo, potersene appropriare.
Occorrono inoltre, per questo, adeguate condizioni, non riducibili al livello personale, ma sociale. Le condizioni che rendono possibile la risposta stessa esigono di essere predisposte a livello sociale, perché non determinabili dal singolo lavoratore. È quanto, fra l'altro, Papa Benedetto XVI esplicita in Caritas in veritate, ai paragrafi 25 e 63.
Neppure questo passaggio, tuttavia, è da ritenersi ultimativo. Il lavoro non può manifestare il suo senso pieno, se non in quanto a sua volta riferito ad un oltre da sé che lo porti a compimento. Se si vuole evitare una “ideologia del lavoro”, o quanto meno una sua idealizzazione, per aprirsi invece ad una vera e propria “teologia del lavoro”, così come Laborem exercens prospetta, occorre mettere in luce con forza il fatto che il lavoro ha bisogno, a sua volta, di essere iscritto entro qualcosa di più grande, mirato non soltanto alla ricerca di un suo senso, ma ad una salvezza, ad un compimento di tutto l’uomo e di tutti gli uomini. In ultima analisi, anche il lavoro può e deve essere salvato; rimane fine intermedio, non ultimo dell'uomo. Come il libro della Genesi rivela in modo insuperabilmente espressivo, come Laborem exercens magistralmente afferma: «l'uomo è fin dalle origini chiamato al lavoro, ma ultimamente quel lavoro è finalizzato al riposo supremo in Dio, alla risurrezione, al prendere parte a quel “giardino della vita” di cui l'uomo può possedere, nella storia, alcune vere quanto provvisorie anticipazioni, non la pienezza».
Il lavoro è bene altro, non ultimo. Carico di valenze pratiche, educative, relazionali, etiche, simboliche, teologali, richiede in ogni caso la luce e l'apporto della grazia che lo liberi e lo salvi, come ogni offerta storica di libertà. Anche il lavoro infatti è luogo, in ultima analisi, di possibile santificazione, purché accolto in quanto posto, originariamente e realmente, entro l’unica santità, quella di Dio.
Giuseppe sposo di Maria, come tutti gli uomini di ogni tempo, avrà avuto il suo sogno della vita, quello di realizzare attraverso una relazione sponsale, una famiglia con la moglie e una prole numerosa. Ma i nostri sogni non sono mai corrispondenti al progetto di vita, che Dio riserva a ogni sua creatura. San Giuseppe, pieno di angoscia per la sua vicenda cede al sonno; un sonno consolatore dove in un sogno si manifesta l’intervento di Dio a rassicurarlo nella fedeltà alla sua sposa.
Ed ecco che Giuseppe si ritrova catapultato da una vita comune a una vita grandiosa per la responsabilità affidatagli, quella di custodire il Figlio di Dio e sua madre Maria prescelta anche a vivere una maternità, fuori dal comune.
Differentemente dal sogno narrato nella Genesi dove Giuseppe figlio di Giacobbe, è chiamato nella vita a realizzare un progetto di servizio a favore dei fratelli e del popolo d’Israele; il sogno di San Giuseppe, rassicurato dall’angelo, è quello di una chiamata a collaborare al progetto di Dio per la salvezza dell’umanità. E sull’obbediente accettazione di questo stravolgente progetto, come Giuseppe e la sua sposa, siamo chiamati anche noi a misurarci nel nostro sì.
Un’accettazione che Giuseppe ha vissuto una vita alla luce di Dio con piena disponibilità e fiducia. A Giuseppe Dio ha affidato la custodia terrena di queste sue creature, e sotto la sua guida terrena Gesù ha collaborato nella bottega paterna imparando a diventare un’artista.
Gesù è la Luce che illumina e attrae: i pastori a Betlemme, i suoi compagni sul Tabor, l’intera umanità sul Calvario dove erano calate le tenebre al momento della morte sulla croce.
Gesù inizia il suo cammino terreno custodito da Maria e Giuseppe, si ritrova alla fine della sua esperienza terrena custodito fra due ladroni, simbolo della nostra fragilità umana. Un’umanità chiamata ogni giorno a fare un salto nella Fede e in questo può invocare l’aiuto di San Giuseppe che, per la fedeltà a Maria e il silenzio ha meritato l’appellativo di uomo giusto. Un invito a porci nel buio di questo nostro tempo con umiltà a scorgere quella luce che illumina negli ammalati, nei poveri...
Gesù accanto a Giuseppe nell’ora del trapasso alla soglia dell’eternità rappresenta, sotto il profilo umano, un gesto di solidarietà umana e di amore.
Noi alla luce di questi insegnamenti siamo chiamati a vivere in pienezza la nostra esistenza terrena, amando come loro. La famiglia di Nazareth e Giuseppe ha vissuto momenti di difficoltà nella vita come nel lavoro e sul loro esempio siamo invitati ad ascoltare la voce di Dio e a fidarci di Lui come ha fatto San Giuseppe.
Perfezionamento personale, sviluppo economico, avanzamento sociale conferiscono al lavoro una dignità unica. Eppure il lavoro non è solo fucina di virtù umane e cristiane individuali e sociali; esso è anche occasione di abbrutimento, di odio e di lotta. L'antico peccato, che ha incatenato la fatica al lavoro, esercita ancora la sua tirannia sul lavoro attraverso la sofferenza, l'oppressione, la rivolta, l'egoismo, l'ingordigia, lo sfruttamento, le divisioni, le contese. «L'uomo che mediante lo sviluppo industriale ha moltiplicato oltre ogni attesa i membri della società, li ha divisi in classi, e, come tutti sappiamo, ha fatto della società non una famiglia, ma un inevitabile campo di lotta, perciò sovente senza concordia, senza pace, senz'amore. I grandi valori del progresso, il pane, la libertà, la gioia di vivere, sono in perpetua contestazione, se il grande torrente di ricchezza, che scaturisce dal nuovo lavoro conquistatore e produttore, è confiscato da un duplice egoismo: quello che ripone nei beni temporali il solo e maggiore bene dell'uomo, anzi fa dell'uomo fine supremo a se stesso, errore ideologico, materialista; e quello che fa programma costitutivo della vita comunitaria la lotta radicale, esclusivista, fra le varie classi fra loro per il monopolio della ricchezza: errore sociale ed economico» (Paolo VI).
Il significato di san Giuseppe lavoratore
Potenti forze disgregatrici operano, dunque, nel campo del lavoro. Come nel campo del racconto evangelico, anche in questo il nemico ha seminato la sua zizzania. Come potrà il lavoro guarire da questo cancro progressivo e liberarsi dal veleno, che ne insidia la naturale finalità di essere fonte di sviluppo individuale e sociale?
Da molti secoli il grande riformatore san Benedetto ricorda all'umanità qual è l'antidoto che può salvare l'attività umana dal dissolvimento, che è proprio di tutte le realtà terrestri. In una brevissima formula, «ora et labora, prega e lavora», è compendiato il segreto, che garantisce al lavoro il suo valore e la sua nobiltà. Il lavoro esige la dimensione religiosa.
Cristo non ha redento solamente delle anime disincarnate, ma ha redento l'uomo nella sua totalità, anima e corpo. L'attività umana non è, dunque, esclusa dalla salvezza, perché Gesù è diventato solidale con noi in tutto: «Con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo. Ha lavorato con mani d'uomo, ha amato con cuore d'uomo, ha agito con volontà d'uomo, ha amato con cuore d'uomo. Nascendo da Maria Vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato».
Ebbene, nessuno tra gli uomini, dopo Maria, è stato tanto vicino alle mani, alla mente, alla volontà, al cuore di Gesù, quanto san Giuseppe. Come bene affermò Pio XII, san Giuseppe è stato colui nella cui vita è maggiormente penetrato lo spirito del Vangelo. Se questo spirito, infatti, affluisce dal cuore dell'Uomo-Dio in tutti gli uomini, «è pur certo che nessun lavoratore ne fu mai tanto perfettamente e profondamente penetrato quanto il Padre putativo di Gesù, che visse con Lui nella più stretta intimità e comunanza di famiglia e di lavoro». Di qui l'invito permanente dello stesso Pontefice rivolto ai lavoratori: «Se voi volete essere vicini a Cristo, Ite ad Joseph (Gen 41, 55), Andate da san Giuseppe! L'umile artigiano di Nazaret non solo impersona per Dio e la Chiesa la dignità del lavoratore del braccio, ma è anche sempre il provvido custode vostro e delle vostre famiglie».
Questo umile artigiano di Nazaret, che nel nascondimento ha con il suo duro lavoro consentito a Gesù «di crescere robusto e pieno di sapienza» (cfr. Lc 2, 40), continua ancora a stagliarsi gigante nella storia dell'umanità per insegnare a tutti che non è la differenza dell'attività a definire la grandezza dell'uomo, ma, al contrario, tocca all'uomo rendere grande ciò che fa, attraverso la nobiltà dell'animo e l'esercizio di autentiche virtù.
di Angelo Forti
In tutte le culture del mondo i nomi hanno sempre un significato simbolico: si può riferire ad una luogo, ad una qualità morale. Gli antichi romani hanno espresso questo significato con un giuoco di parole Nomen omen, cioè il nome è un presagio. Anche nella Bibbia molti personaggi entrano in scena e sono spiegati revocando vicende che hanno acquisito un valore simbolico. Abramo significa “Il padre è stato esaltato”; Emanuele, riferito a Gesù “Dio con noi”, Gesù chiama Simone con un nuovo nome “Kefa”, pietra, e Pietro diventa “pietra”, simbolo della stabilità. Anche il nome Giuseppe significa “colui che aggiunge”.
Rimanendo nel filone del simbolo, possiamo leggere le iniziali del suo nome come la sintesi di un capitale morale che egli ha aggiunto anche alla nostra vita con l’esercizio di questa qualità morale e con la sua intercessione. Se consideriamo le lettere iniziali di Joseph scopriamo un’aiuola un eccellente splendore di qualità morali.
San Giovanni Paolo II nella sua Esortazione apostolica su San Giuseppe “Redemptoris custos” ha scritto: «San Giuseppe è l’uomo dell’interiorità, l’uomo capace di vivere dell’interiorità, uomo capace di vivere una profonda contemplazione, in quotidiano rapporto con il mistero divino».
Contemplare significa avere gli occhi fissi sulla missione assegnata alla nostra vita. In Giuseppe lo sguardo si faceva invocazione per comprendere.
San Giuseppe e Teresa… A prima vista lui quasi in secondo piano nella vita di Teresina, ma la realtà è opposta fin dall’inizio. Nel marzo del 1873 Teresina, due mesi, pare destinata a morte prematura come i due piccoli Giuseppe suoi fratellini, e la mamma racconta in una lettera che nella disperazione si è inginocchiata davanti a un’immagine di san Giuseppe con una preghiera estrema: esaudita! Giuseppe presente nella vita di Teresina.
Nella ricorrenza del centenario dell’aggregazione della Pia Unione locale del Transito di San Giuseppe alla sede primaria di Roma Trionfale, Santa Domenica, piccolo, quanto stupendo centro calabrese, collocato a trecento metri sul mare, sopra Scalea, alle pendici del Pollino, nel mese di luglio si esalta con la festa del suo patrono san Giuseppe. Il fatto, anzitutto, nello studio dell’architetto Antonello Lucchese, ricercatore quanto mai qualificato che citiamo espressamente: «Dopo la morte dell’ultimo arciprete don Giuseppe La Greca, con l’arrivo del nuovo curato don Giuseppe Pontieri di Cassano, si verificò un certo fermento nella parrocchia, con diverse iniziative: una di queste fu l’istituzione della Pia Unione del Transito di San Giuseppe per aggregarla alla primaria di Roma (San Giuseppe al Trionfale).
Non si mangia più insieme: i tempi accelerati, frenetici e sfalsati della famiglia non permettono più a un nucleo, a una comunità di ritrovarsi interrompendo il lavoro alla metà del giorno, né alla fine della giornata di riunirsi per la cena, per stare intorno alla tavola e condividere quanto sostiene la vita materiale. Insieme a questo alimento concreto tuttavia si condivide anche un altro alimento più importante, quello affettivo e spirituale, una comunione vitale d’affetti che ha la sua manifestazione suprema nell’ultima cena.
L’arte pittorica ci descrive gli episodi della vita di S. Giuseppe con differenti suggestioni, dettate da fantasie artistiche, capaci di trasmettere chiari messaggi spirituali e forti cariche emozionali.
Un episodio del nostro santo che ricorre spesso nei quadri e negli affreschi è quello ultimo del transito, ossia: il suo passaggio dalla vita terrena a quella eterna. Da sempre il racconto pittorico inquadra S. Giuseppe disteso con accanto la Madonna e Gesù. Non mancano angeli che osservano sospesi nello spazio o vicini al letto, pronti ad accogliere la sua anima. L’episodio non viene mai drammatizzato e il dolore che si avverte sui volti delle figure è un dolore raccolto, intimo, perché è certo il passaggio del padre putativo al cielo.
Nel cuore di Milano sorge un meraviglioso edificio di culto dedicato al grande Patriarca. Le fonti segnalano già dal 1503 la presenza di un “Luogo Pio di San Giuseppe”. Nel 1516 venne consacrato il capolavoro architettonico attuale: progettato da Francesco Maria Richini, segnò l'inizio del barocco milanese.
Qualche anno fa, in occasione dell’anno sacerdotale, indetto daPapa Benedetto XVI nel 2010, per gli associati alla Pia Unione di San Giuseppe avevamo assunto l’impegno di un’iniziativa nel poter adottare, anche spiritualmente, un seminarista in modo da accompagnarlo con la preghiera negli anni di preparazione al sacramento del sacerdozio.
Il monastero di San Giuseppe di Puimisson, nella diocesi e provincia di Montepellier, Francia, ha ospitato quest’anno il XII Simposio di giosefologia, che ha visto circa duecento partecipanti, in rappresentanza di una quindicina di centri studi su san Giuseppe, specie europei e latinoamericani. Lo hanno organizzato i fratelli e le sorelle che costituiscono la Famiglia di San Giuseppe, una nuova forma di vita religiosa monastica nata poco più di 30 anni or sono.
La sera del 25 settembre l’arcivescovo di Montpellier, monsignor Carré, ha presieduto la concelebrazione che ha inaugurato i lavori. Nel dopo cena i direttori dei vari centri si sono presentati, illustrando brevemente il lavoro per far conoscere la vocazione e la missione di san Giuseppe.
Gli scarni accenni dei Vangeli di Luca e di Matteo ci consegnano almeno questo: l’esistenza di Giuseppe non fu mai statica, ma e-statica, in uscita, in continuo cammino.
Lo troviamo in cammino, con Maria incinta, verso Betlemme: «Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta» (Lc 2, 4-5). Ma pochi versetti dopo scopriamo che «un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: "Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo". Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto» (Mt 2, 13-14).
L’importanza del lavoro nella vita sia individuale che sociale è fuori discussione. Nella vita individuale il lavoro è indispensabile per la sua crescita e il suo completo sviluppo. Il contatto quotidiano con la realtà, con le leggi della natura, con impegni precisi, affina nell’uomo l’intelligenza, ne stimola la volontà, ne sviluppa le facoltà, ne promuove il senso del dovere e richiede un molteplice e diuturno esercizio di virtù che sono sorgente di meriti civili e cristiani. In tale modo il lavoro apre l’uomo a quella promozione che lo porta al raggiungimento della sua perfezione naturale e soprannaturale.