Nel giorno dei suoi funerali gli occhi dei poveri bagnati dalle lacrime erano la prova che la sua vita era non solo davanti a Dio ma anche di fronte agli uomini un’opera d’arte illuminata dalla luce della santità. Durante la sua azione pastorale il suo popolo si era rispecchiato nei suoi occhi luminosi e penetranti: erano lo specchio della sua anima. «Un occhio guardava il tempo e l’altro rivolto verso il cielo» per vivere in costante comunione con lo sguardo di Cristo e condividere i suoi sentimenti con i poveri. Si dice che l’educazione inizia dal grembo della madre. Se questo è veritiero, il grembo della mamma di Aurelio Bacciarini fu una grande palestra educativa. Mamma Maria era una donna di grande fede e coraggio nell’affrontare le immense difficoltà della vita. Aurelio era il settimo figlio e rimase orfano del papà Lodovico all’età di tre anni e qualche mese. Crebbe in quella nidiata di bambini amato e aiutato come tutti i fratelli più piccoli.
Da subito ha condiviso il poco pane, la grande povertà come condizione sociale estesa e vissuta in tutta la valle. Una valle chiusa da una lunga cerniera di monti e attraversata dal fiume Verzasca che, scendendo tra massi enormi, levigati da secoli dalla violenza delle acque, sfocia sulla sponda svizzera del lago Maggiore. Soprattutto in quelle terre, ogni frutto del ventre era una benedizione, un camminare di Dio accanto al suo popolo. In quella valle senza sbocco, disseminata da gruppi di case, la nascita di una creatura umana era un sogno ricco di speranze. I vagiti, infatti, erano canti intonati sulle note della speranza. A maggior ragione, a distanza di oltre un secolo, lo possiamo affermare per il piccolo Aurelio che già d’allora il suo parroco chiamava «il figlio della Provvidenza». Fu davvero profezia. Aurelio già da bambino aveva una singolare sensibilità religiosa e un cuore aperto al prossimo.
Per tutti la vita è sempre un dono e, su questo regalo personalizzato, Dio scommette, giocando sulla buona riuscita di un’esistenza umana, sulla sensibilità e sulle risorse per affrontare in modo vittorioso i pericoli e i disagi sempre in agguato nel percorso di un’esistenza umana. Come ogni fiume vive della sua sorgente, e un albero delle sue radici, così Aurelio sin dalla tenera età ha sentito zampillare una feconda nostalgia di cielo. La tenda d’azzurro nel cielo della sua valle lo attirava; la sua condizione di povertà lo spingeva a un rapporto con Dio come un lattante al seno della mamma. Imparerà da don Guanella che la vita di un religioso deve essere come una piramide rovesciata: fondamenta nel cielo e vertice fruttuoso sulla terra. Solo se Dio nella preghiera ci concede di instaurare un rapporto tra la nostra carne e il cielo si trova il senso del vivere e si vince. «È la radice che mi porta, non sono io che porto le radici. È il cielo che mi porta». Da subito conosce che per vincere bisogna prendere i semi delle cose ultime e seminarle nel campo arato dal nostro vivere quotidiano.
La passione per le cose di Dio è sempre stata la molla che ha spinto Aurelio a vivere senza tiepidezza le sue convinzioni religiose. Nella sua vita non sono mancate le paludi da attraversare, i monti da scalare e i torrenti impetuosi da oltrepassare, ma la sua tenace volontà gli ha permesso di non lasciarsi inghiottire dalle sabbie mobili, anche se la malattia l’avrebbe voluto ingabbiare nella depressione, impedendogli di svolgere in pienezza il suo compito di pastore. In queste gole anguste, solitarie e buie c’era una misteriosa eco che gridava: «Io posso tutto confidando in Colui che mi dà forza». Questa forza è l’angolo di prospettiva, in cui Bacciarini si fa maestro di spiritualità. La sua fede, provata nel crogiuolo del soffrire, diventa una testimonianza credibile del suo magistero episcopale.
La «notte oscura», quasi un passaggio obbligato per molti santi, fu lunga e solitaria. Solo la luce di un’incrollabile speranza è riuscita a cancellare le dense ombre e ridonare lucentezza alla stella polare del suo ideale di santità. Coltivando un’affinità elettiva, lasciata in eredità dal motto guanelliano «pregare e patire», ci si affaccia sul panorama del patrimonio spirituale del Venerabile Aurelio Bacciarini e ci si mette a sedere davanti alla cattedra del soffrire di questo esperto maestro. Il suo lungo calvario è stato un’esemplare capacità di sopportare con animo fermo le difficoltà della vita. Un giorno il papa Pio XI, che conobbe Aurelio Bacciarini durante gli anni degli studi teologici al seminario di Milano, parlando con Giuseppe Motta, Presidente della Confederazione elvetica, lo definì «il Giobbe dell’episcopato cattolico».
È un’immagine suggestiva che ha colto un enorme capitale di sofferenza fisica e travaglio interiore che trovava risposta plausibile solo in Gesù, il martire dell’amore. Bacciarini aveva un animo sensibile, e, pur nel pudore e nella riservatezza del suo animo, qualche volta ha lasciato trasparire il peso della sua sofferenza e dell’affanno causato dalla responsabilità di condottiero di un gregge da guidare con rettitudine verso i pascoli della vita eterna. Per questo con verità poteva dire: «O santa croce del vescovo, ignorata dal mondo e nota solo a chi ora assorbe l’amaro assenzio che stilla dal suo tronco, io ti abbraccio una volta ancora e ti innalzo al cielo, affinché in virtù della Croce di Gesù, tu sia segno di salvezza per il popolo che Dio mi ha affidato». Il passaggio su questa terra del venerabile Aurelio Bacciarini non ci può lasciare indifferenti, soprattutto, oggi, in una società dal «pensiero debole», frammentario e volatile, malato anche di fragilità psicologica che nasconde il pensiero del soffrire e della morte e si trova disarmata di fronte al mistero del patire umano. Di fronte a un personaggio come Bacciarini è necessario fermarsi, tentare di penetrare, capire il segreto del soffrire per essere capaci di carpire il germe di benedizione che ogni lacrima nasconde.