Cosa significa prendersi in carico lo sguardo altrui se non fare sul serio, scoperchiare gli ingranaggi, uscendo dalla finzione didattica? Organizzare i percorsi per diventare donne e uomini chiama in causa tutti noi,
ma troppo spesso tale dimensione sociale viene disattesa: è la ragione per cui gli insegnanti si sentono soli. Non più appoggiati e sostenuti dalle famiglie, tevono tappare i buchi aperti altrove. Si tratta di una missione sostitutiva, una supplenza etica che rende la figura del docente in questo momento ancora più decisiva rispetto al passato. La cultura del Novecento, già alle nostre spalle ma ancora attiva nella percezione comune e quasi esaltata dalla rivoluzione digitale, ha favorito molti equivoci: uno su tutti è la concezione della libertà quale superamento dei limiti e deflagrazione del desiderio.
Abituare un giovane alla scansione quotidiana degli impegni è il primo passo da realizzare, sapendo quanto difficile possa essere nell’adolescenza l’individuazione della passione prevalente, la tessitura del disegno da realizzare, ma è soltanto così che l’azione diventa mirata al raggiungimento di uno scopo, non si perde nel ghirigoro, non si trasforma in delirio. Di fronte al ragazzo immaturo, teso a provare le tante immagini di sé stesso che gli vorticano attorno come spettri incandescenti, dobbiamo restare forti, saldi, equilibrati, senza disertare l’appuntamento a cui lui ci sta convocando ma allo stesso tempo evitare di cedere il passo e reclinare il capo solo perché non siamo in grado di accettare il suo dissenso, la sua protesta a volte violenta e dolorosa. Invece troppo spesso il caos primordiale nel quale l’adolescente sprofonda rischia di trascinare anche noi giù nel pozzo. Accade quando non abbiamo sciolto i grovigli in cui siamo invischiati. In quei momenti difficili, meglio accettare la sfida mostrando la nostra stessa debolezza, invece di indossare la maschera della tracotanza istituzionale. In fondo i ragazzi hanno bisogno di autenticità, non astratta perfezione.
Una vita consapevole significa scegliere, quindi rinunciare a ciò che potremmo essere. Decidere di percorrere un solo cammino, senza restare titubanti di fronte a due o tre.
Si tratta di un atto di volizione individuale che, per essere vero, deve far perno su un sistema di valori sicuro e collaudato. Questo vogliono gli adolescenti. In qualche modo lo pretendono, anche oscuramente, ad esempio nel momento in cui compiono gesti autolesionistici. è come se implicitamente ci chiedessero il segreto della vita: dove dobbiamo andare? Come si fa a essere felici? Perché io mi sento male? Come posso sfuggire alla noia, alla disperazione, all’apatia, alla mancanza di sogni? Qualsiasi educatore riceve ogni giorno queste domande radicali, soprattutto quando non vengono formulate ma filtrano negli occhi di Mario, pronto a dirti una cosa e farne un’altra, nella dolcezza di Carlo, incapace di trovare un senso vitale, nell’amarezza di Francesca,
lasciata da sola a fronteggiare la separazione dei suoi genitori. Per mostrare a questi ragazzi smarriti la via da seguire non ci si può limitare a indicare il precetto; bisogna incarnarlo. Non uso a caso questo verbo. Se riuscissimo a capirlo sino in fondo avremmo trovato la strada giusta. Legittimare le parole che usiamo facendole scaturire dalla nostra esperienza. Sarebbe questo il percorso che ci fa diventare adulti.