Mi pare bello e gioiosi ritrovarsi in questa stagione liturgica del dopo Pasqua a parlare di un collaboratore di Dio Padre che ha accompagnato Gesù dalla nascita sino alla vigilia della sua vita pubblica. Quando la responsabilità che Dio padre gli aveva affidato nel custodire, alimentare e educare alla vita umana Gesù è terminato, silenziosamente come perfetto collaboratore si è ritirato nel silenzio.
Il giorno della Risurrezione non solo ha gioito la sua sposa Maria, gli apostoli, le donne che seguivano nelle peregrinazioni, ma nella discesa agli inferi hanno esultato tutti i giusti e il primo ad essere raggiunto fu certamente Giuseppe.
Un’antica omelia sulla Pasqua si interroga dicendo: «Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c'è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme: la terra è rimasta sbigottita e tace perché il Dio fatto carne si è addormentato e ha svegliato coloro che da secoli dormivano. Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi.
Certo egli va a cercare il primo padre, come la pecorella smarrita. Egli vuole scendere a visitare quelli che siedono nelle tenebre e nell'ombra di morte. Dio e il Figlio suo vanno a liberare dalle sofferenze Adamo ed Eva che si trovano in prigione.
Il Signore entrò da loro portando le armi vittoriose della croce… dicendo: «Svegliati, tu che dormi, e risorgi dai morti, e Cristo ti illuminerà. Io sono il tuo Dio, che per te sono diventato tuo figlio». «Risorgi mia effige, fatta a mia immagine! Risorgi, usciamo di qui! Tu in me e io in te siamo infatti un'unica e indivisa natura».
Per diritto di primogenitura sono state rivolte ad Adamo, ma con tono più confidenziale e filiale si sarà rivolto anche a san Giuseppe: «Svegliati dal sonno della morte, padre mio Giuseppe, rivivi la gioia di aver collaborato alla salvezza di tanti fratelli e sorelle, riprendo il tuo lavoro di paziente custode del mio gregge, la chiesa, l’assemblea dei battezzati, la famiglia dei credenti».
Siamo ancora immersi in questo clima pasquale e le nostre comunità cristiana in questo periodo, in questi cinquanta giorni, sino alla Pentecoste, sotto la luce della fede nel Risorto e sono chiamate a far crescere la propria esistenza di redenti, rammentando il sacramento del battesimo, l’unzione della cresima e l’eucaristia.
In questo periodo nella liturgia le letture della messa oltre ad annunciare la presenza del Signore risorto, ci rivelano i molteplici volti della Pasqua, delineando il volto materno e misericordioso della Chiesa.
Domenica scorsa abbiamo incontrato l’apostolo Tommaso, arrivato in ritardo di otto giorni a vedere Gesù risorto. Questo apostolo è diventato il simbolo, il modello del discepolo di tutte le generazioni. Il termine Didimo con cui è chiamato Tommaso significa gemello. Il suo atteggiamento è “gemello” anche al nostro modo di incontrare Gesù risorto; è modello anche per noi che ascoltiamo questa sera, perché anche noi quella sera di Pasqua a Gerusalemme non eravamo presenti insieme agli altri discepoli che hanno incontrato Gesù.
Anche per noi, nati e viventi oggi, 2000 anni dopo la Risurrezione di Gesù, le donne, testimoni della risurrezione, gli apostoli barcollanti nel dubbio sono diventati esempi anche per le nostre comunità cristiana e come loro incontrando Gesù risorto hanno riscattato la loro incredulità.
Pietro e Giovanni hanno affrontato con coraggio il sinedrio he pretendeva di tappar loro la bocca riguardo a Gesù risorto.
San Giuseppe non è stato testimone della risurrezione, ma la casa di Nazareth dove Gesù ha vissuto continua ad essere lo specchio nel quale riflettere e anche confrontare la nostra vita cristiana.
«La casa di Nazareth - diceva Paolo VI nel suo pellegrinaggio a Nazareth - rimane una scuola dove si è iniziati a comprendere la vita di Gesù, cioè la scuola del Vangelo. Qui si impara ad osservare, ad ascoltare, a meditare, a penetrare il significato così profondo e così misterioso di questa manifestazione del Figlio di Dio tanto semplice, umile e bella. Forse anche impariamo, quasi senza accorgercene, ad imitare.
Qui impariamo il metodo che ci permetterà di conoscere chi è il Cristo.
Qui scopriamo il bisogno di osservare il quadro del suo soggiorno in mezzo a noi: cioè i luoghi, i tempi, i costumi, il linguaggio, i sacri riti, tutto insomma ciò di cui Gesù si servì per manifestarsi al mondo.
Qui tutto ha una voce, tutto ha un significato. Qui, a questa scuola, certo comprendiamo perché dobbiamo tenere una disciplina spirituale, se vogliamo seguire la dottrina del Vangelo e diventare discepoli del Cristo.
Oh! come volentieri vorremmo ritornare fanciulli e metterci a questa umile e sublime scuola di Nazareth! Quanto ardentemente desidereremmo di ricominciare, vicino a Maria, ad apprendere la vera scienza della vita e la superiore sapienza delle verità divine! Ma noi non siamo che di passaggio e ci è necessario deporre il desiderio di continuare a conoscere, in questa casa, la mai compiuta formazione all'intelligenza del Vangelo. Tuttavia non lasceremo questo luogo senza aver raccolto, quasi furtivamente, alcuni brevi ammonimenti dalla casa di Nazareth».
Sempre in quella circostanza il beato Paolo VI indicava in tre punti la linea pedagogica al seguito di Gesù: il silenzio, la famiglia, il lavoro.
Allora: «In primo luogo essa ci insegna il silenzio. Oh! se rinascesse in noi la stima del silenzio, atmosfera ammirabile ed indispensabile dello spirito: mentre siamo storditi da tanti frastuoni, rumori e voci clamorose nella esagitata e tumultuosa vita del nostro tempo. Oh! silenzio di Nazareth, insegnaci ad essere fermi nei buoni pensieri, intenti alla vita interiore, pronti a ben sentire le segrete ispirazioni di Dio e le esortazioni dei veri maestri. Insegnaci quanto importanti e necessari siano il lavoro di preparazione, lo studio, la meditazione, l'interiorità della vita, la preghiera, che Dio solo vede nel segreto».
Tante volte abbiamo detto che il silenzio di Giuseppe era un laboratorio in cui si raffinavano i sentimenti nobili della vita.
Qui comprendiamo il modo di vivere in famiglia. Nazareth ci ricordi cos'è la famiglia, cos'è la comunione di amore, la sua bellezza austera e semplice, il suo carattere sacro ed inviolabile; ci faccia vedere com'è dolce ed insostituibile l'educazione in famiglia, ci insegni la sua funzione naturale nell'ordine sociale. Infine impariamo la lezione del lavoro. Oh! dimora di Nazareth, casa del Figlio del falegname! Qui soprattutto desideriamo comprendere e celebrare la legge, severa certo ma redentrice della fatica umana; qui nobilitare la dignità del lavoro in modo che sia sentita da tutti; ricordare sotto questo tetto che il lavoro non può essere fine a se stesso, ma che riceve la sua libertà ed eccellenza, non solamente da quello che si chiama valore economico, ma anche da ciò che lo volge al suo nobile fine; qui infine vogliamo salutare gli operai di tutto il mondo e mostrar loro il grande modello, il loro divino fratello, il profeta di tutte le giuste cause che li riguardano, cioè Cristo nostro Signore.
Nella festa di san Giuseppe, lo scorso 19 marzo, lo scrittore Erri de Luca, conosciuto come scrittore e appassionato lettore della bibbia, intervistato sulla figura di san Giuseppe in un programma della TV2000 ha espresso questa sua convinzione: per lui «Giuseppe è un giovanotto, nessun Vangelo dice che è vecchio, quindi, ce lo possiamo immaginare così giovanotto, coetaneo di Maria, chiamata nella sua lingua, Miriam, la ragazza di cui è terribilmente, appassionatamente innamorato.
Il nome Josef in ebraico vuol dire “colui che aggiunge”, intanto aggiunge la sua fede in Dio, una seconda nei confronti di Maria, lui non ha visto nessun messaggero, nessun angelo, crede, crede a Miriam, alla versione di quella gravidanza che ancora oggi suona inverosimile, ma la verità è spesso inverosimile e ha bisogno di amore per essere accolta, per essere accettata, si aggiunge come sposo secondo di Miriam e la salva con questo matrimonio dalle conseguenze penali della legge. Per la legge, lei è un'adultera. Giuseppe poi si aggiunge come padre secondo a Gesù, quella singolare creatura, capitata in mezzo a loro e non solo sappiamo che lo farà diventare un falegname, cioè lo mette a bottega e gli insegna il suo mestiere, ma lui lo iscrive a suo nome nell'anagrafe ebraica. E' una storia di alleanza, una storia a due, anche se la figura di Josef scompare, si ritira con discrezione dal racconto dei Vangeli, è però decisiva.
C'è un verso di un poeta tedesco Rilke che racconta dell'incontro tra l'angelo e Miriam, e allora l'angelo, secondo Rilke, direbbe a Miriam io sono il fiore ma tu, tu sei la pianta. Josef invece è proprio la terra che abbraccia le radici di quella pianta che impedisce alla legge di estirparla quella pianta, è quella terra che abbraccia le radici e permette a quella pianta di portare frutto. Alla fine questa è una storia a lieto fine. E dobbiamo dire: Grazie, Josef».
Quella di san Giuseppe, «patrono della Chiesa», di cui abbiamo celebrato la festa una quindicina di giorni fa, è una figura che la Chiesa stessa ha «scoperto» con una certa lentezza. Non si trova traccia del suo culto nei calendari liturgici o nei martirologi prima del IX secolo. In Occidente il culto appare ufficialmente nell’XI secolo: un oratorio gli viene dedicato nella cattedrale di Parma (anno 1074) e una chiesa viene costruita in suo onore a Bologna (1129). Verso la fine del XIV secolo si diffonde la festa del 19 marzo dedicata al santo, che diventa di precetto nel 1621 per decisione di Gregorio XV. È nel 1870 che Pio IX proclama san Giuseppe patrono della Chiesa e l’anno successivo gli riconosce il diritto a un culto superiore a quello di tutti gli altri santi. È stato infine Papa Francesco, con un decreto della Congregazione del culto divino datato 1° maggio 2013 a inserire la menzione di san Giuseppe nel canone della messa, nella preghiera eucaristica, subito dopo il nome di Maria e prima di quello degli apostoli.
Il Vangelo di Matteo riserva alla figura di san Giuseppe uno spazio particolare. Mentre l’evangelista Luca nel suo evangelio riserva i primi due capitoli alle vicende della nascita di Gesù con un occhio di particolare attenzione per Maria. Matteo invece che scrive per il popolo giudaico è più attento alle promesse dell’Antico Testamento e in Giuseppe, discendente dal casato del re Davide, trova i riferimenti al Messia atteso nella pagine della storia del popolo ebraico.
Secondo il diritto giudaico, appunto, è attraverso suo padre terreno Giuseppe che Gesù appartiene a una stirpe e precisamente quella davidica. Il primo dei due Vangeli dell’infanzia, come abbiamo accennato, quello secondo Matteo, è tutto incentrato sulla figura del padre putativo Giuseppe e teso a sottolineare l’appartenenza del Bambino alla stirpe di David.
Vi assume dunque particolare importanza l’accettazione da parte di Giuseppe, il carpentiere di Nazareth, di dare la paternità giuridica del bambino che è figlio della sua giovane promessa sposa ma non suo.
Giuseppe viene citato soltanto nei pochi paragrafi dei Vangeli dell’infanzia, dove peraltro non si riportano sue parole.
Il suo nome in ebraico significa «Dio gli aggiunga!» o «Che egli raduni!» ed è lo stesso di altri sei personaggi biblici, il più famoso è Giuseppe, il foglio di Giacobbe venduto dai fratelli e che in Egitto è riuscito ad essere, lui straniero, il vice faraone.
La tradizione vuole che quest’uomo fosse vecchio. La spiegazione viene di questa tradizione proviene non soltanto dalla sua totale assenza nel momento in cui Gesù inizia il suo ministero pubblico, assenza che farebbe presumere che all’epoca egli non fosse più in vita. Un'altra ragione è di dipingere Giuseppe come vecchio, anzi decrepito, per evitare qualsiasi insinuazione sulla castità e sulla verginità di sua moglie Maria.
Il calendario della Pia Unione di san Giuseppe di cui sono responsabile, quest’anno 2016 portava degli acquarelli del pittore Alfredo Brasioli in cui sono illustrati gli episodi dell’infanzia di Gesù costretto ad essere migrante e profugo, sempre accompagnato dalla figura virile ed efficace del suo papà terreno san Giuseppe. Dodici sono gli episodi che narrano e illustrano questo itinerario.
Anche l’iconografia classica ce lo presenta dunque piuttosto anziano, e appoggiato a un lungo bastone. Giuseppe, con Maria e poi con il piccolo Gesù. Giuseppe ha iniziato ad essere migrante a causa del censimento, che lo costrinse a viaggiare da Nazareth a Betlemme. In questa città del “pane”, com’è appunto l’etimologia del nome di Betlemme, il bambino nasce nelle precarie condizioni descritte dall’evangelista Luca.
Quindi, profugo, costretto a scappare in Egitto varcando la frontiera di un Paese tradizionalmente ospitale per fuggire dalla spada dei soldati di Erode ai quali era stato ordinato di uccidere tutti i bambini piccoli di Betlemme.
Giuseppe era carpentiere, non solo falegname ma un artigiano, uomo dalle mille abilità per essere utile alla società di allora.
Alla domanda quale professione esercitasse san Giuseppe, l’evangelo di Matteo risponde con queste parole: «Non è egli forse il figlio del carpentiere?». Cristo stesso dall’evangelista Marco (6, 3) viene definito «carpentiere». Siamo stati abituati a tradurre la parola greca con «falegname».
Gli studi più recenti tendono a riconsiderare questa definizione e a proporci un Giuseppe «costruttore» più che falegname, pur rimanendo questa, ovviamente, soltanto un’ipotesi. Carpentiere, falegname, all’epoca di Gesù indicava per lo più un operaio che lavorava materiale duro, dunque non solo legno, ma anche pietra, e che sapeva fare di tutto. Un indizio che farebbe propendere per la soluzione che vuole un Giuseppe costruttore, sarebbero alcune parabole di suo figlio, dedicate all’arte di costruire una casa. Per esempio in Matteo (7, 24-26): «Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia.…».
Mentre in Luca (14, 28-30): «Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro».
A meno di sei chilometri da Nazareth sorgeva Sefforide (l’odierna Sippori), città che fino al 20 a.C. era stata capitale della Galilea poi soppiantata da Tiberiade. È stato ipotizzato che Giuseppe e il figlio Gesù abbiano lavorato alla sua realizzazione. La professione di Giuseppe, comunque, doveva essere tale da permettere alla famiglia di vivere dignitosamente.
La perla splendente con cui Matteo descrive Giuseppe è l’aggettivo «giusto»
Mi sembra doveroso sottolineare un appunto sull’espressione usata da Matteo nel definire Giuseppe: «era giusto». Il termine ebraico di «giusto» per gli esegeti, gli studiosi della bibbia, significa «uomo esemplare» che rispetta la Legge, un ebreo «praticante», osservante, che doveva quindi possedere una certa cultura e conoscere sia l’ebraico che l’aramaico: la prima era la lingua classica di Israele, la seconda quella comunemente parlata in quel tempo. Un’antica tradizione rabbinica ricollega il mestiere di «lavoratore edile» con una formazione speciale, cioè con una conoscenza fuori dell’ordinario del testo biblico e con una insolita capacità di spiegarlo. Giuseppe, scrive Matteo, è un uomo «giusto» e misericordioso. Appresa la gravidanza di Maria, prima di ricevere il messaggio di Dio in sogno, decide di ripudiare la sua sposa ma in segreto. Non la ripudia pubblicamente, non rende nota quella gravidanza «illegittima». L’angelo che appare in sogno a Giuseppe, con il suo annuncio, viene a sanare questa situazione.
Le parole di Benedetto XVI
In un’omelia tenuta da Papa emerito nel convento in cui vive in Vaticano, Benedetto XVI ha tratteggiato un identikit di san Giuseppe: «Perché Dio ha scelto Giuseppe? Perché Giuseppe era un uomo giusto, pio. Ma anche perché Giuseppe era un uomo pratico. D’altronde, ci voleva un uomo pratico per organizzare la fuga in Egitto, ma anche per organizzare il viaggio a Betlemme per il censimento, e per provvedere a tutte le necessità pratiche di Gesù». Il 19 marzo del 2006 Papa Ratzinger aveva ricordato la figura del santo di cui porta il nome sottolineando che «la grandezza di san Giuseppe, al pari di quella di Maria, risalta ancor più perché la sua missione si è svolta nell’umiltà e nel nascondimento della casa di Nazareth».
Nei primi Vespri della festa di san Giuseppe del 2009, Benedetto XVI tratteggiava quasi con stupore teologico la figura del santo: «San Giuseppe manifesta ciò in maniera sorprendente, lui che è padre senza aver esercitato una paternità carnale. Non è il padre biologico di Gesù, del quale Dio solo è il Padre, e tuttavia egli esercita una paternità piena e intera. Essere padre è innanzitutto essere servitore della vita e della crescita. San Giuseppe ha dato prova, in questo senso, di una grande dedizione. Per Cristo ha conosciuto la persecuzione, l’esilio e la povertà che ne deriva. Ha dovuto stabilirsi in luogo diverso dal suo villaggio. La sua sola ricompensa fu quella di essere con Cristo».
L’identikit di Francesco
Il 19 marzo del 2013 Papa Francesco celebrava la messa per l’inizio del suo pontificato. Nell’omelia san Giuseppe viene presentato come modello di educatore, che custodisce e accompagna umilmente Gesù nel suo cammino di crescita. «Giuseppe è “custode” perché sa ascoltare Dio, si lascia guidare dalla sua volontà, e proprio per questo è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge. In lui cari amici, vediamo come si risponde alla vocazione di Dio, con disponibilità, con prontezza, ma vediamo anche qual è il centro della vocazione cristiana: Cristo! Custodiamo Cristo nella nostra vita, per custodire gli altri, per custodire il creato!». Significativamente, proprio sabato 19 marzo 2016, festa di san Giuseppe, verrà firmata dal Papa l’esortazione dedicata alla famiglia che conclude il cammino di due sinodi.
La «carta d’identità» del custode
Da questi frammenti, è possibile concludere citando alcuni tratti dell’identikit di san Giuseppe. È un uomo giusto e misericordioso, capace di guardare oltre le convenzioni sociali. È un uomo silenzioso e umile. È aperto alle «sorprese» di Dio, ai suoi piani, anche se gli sconvolgono la vita. È un custode della vita, permette al Dio fattosi uomo, un bambino inerme, «completamente dipendente dalle cure di un padre e di una madre» (così disse Papa Wojtyla a Betlemme nel marzo 2000) di crescere. È capace di essere padre anche di un figlio che non era suo nella carne. È un uomo pratico, capace di ascoltare la voce di Dio e di metterla in pratica, prendendo le giuste decisioni per il bene della sua famiglia.