Da poco più di un anno, papa Francesco ci ha fatto bellissimo dono di far nominare in tutte le celebrazioni eucaristiche il nome di San Giuseppe, accanto a quello di Maria. È una scialuppa in più per i nostri naufragi solitari.
Ogni giorno, in tutto il mondo, in tutte le comunità ecclesiali dove si celebra l’Eucaristia vengono affidate alle mani paterne di San Giuseppe le sorti della Chiesa e le nostre personali intenzioni.
A questa sorgente di grazie, questa sera, ci accostiamo anche noi con tanta fiducia e collochiamo le nostre preghiere nel cuore di quest’ora di spiritualità e di preghiere.
Idealmente vogliamo affidare alle robuste braccia di san Giuseppe tutti i bambini del mondo, con in particolare attenzioni i vostri figlioli, i nipoti, i ragazzi che frequentano il “grest” negli oratori feriale delle parrocchie di tutt’Italia e non dimentichiamo, anzi, li abbiamo stretti al petto, i ragazzi in sofferenza per malattie fisiche e morali, queste causate da separazioni dei genitori, da abbandoni, da violenze subite e bagnate dalle lacrime versate nel silenzio della solitudine.
La nostra preghiera vuol essere, come sempre, il respiro del mondo: cioè, respirare i motivi della gioia per eventi lieti e accollarsi sulle spalle le sofferenze, i disagi e le lacrime dei poveri del mondo. In particolare vogliamo affidare a san Giuseppe il mondo giovanile, i giovani in cerca di lavoro, chi sta sostenendo gli esami di maturità, ma anche i ragazzi in vacanza.
A san Giuseppe, patrono della chiesa universale, affidiamo anche la protezione dei nostri fratelli e sorelle perseguitati a causa della loro fede in Gesù in tante parti del mondo.
Ha scritto Thomas Merton che “Nessun uomo è un isola”, e soprattutto la nostra preghiera non è mai un isola solitaria, ma è sempre popolata di volti, di affetti, di lacrime e di sorrisi.
Per questo, io che vi parlo, quando mi metto a pregare, dopo aver chiesto luce e forza a Dio, e qualche volta, ripetiamo distrattamente: «O Dio, vieni a salvarmi. Signore, vieni presto in mio aiuto», mi chiedo se nella preghiera entro da solo con i miei problemi, le mie ansie, i miei progetti oppure mi metto in compagnia di Gesù per dialogare con lui sui miei problemi, le mie ansie, i miei progetti, le mie contraddizioni e le difficoltà dei miei fratelli e sorelle.
La nostra preghiera dovrebbe condividere sempre la compassione di Gesù, la sua voglia di partecipare, di “patire insieme”, di aver “compassione” davanti alle folle stanche e sfiduciate, e, così, manifestare concretamente la sua volontà di partecipazione nel sollevare la nostra vita un po’ anemica, fasciata dalla stanchezza e, qualche volta dalla noia, nel sopportare questo duro mestiere del vivere umano.
Anche la nostra vita vuol essere vissuta in compagnia.
La casetta di Nazareth non era un bunker, ma una casa aperta. Giuseppe era un uomo di relazioni sia per il suo lavoro da carpentiere, sia per la sua sensibilità religiosa e umana.
Essere in relazione con il prossimo è un’esigenza radicata nell’animo umano. L’uomo non solo è un essere intelligente, che conosce, una persona che vive di emozioni.
Nella pagina della creazione, narrata dal libro della Genesi, il Creatore invita Adamo a dare un nome a tutta la realtà che lo circonda. Finita la rassegna del mondo animale, il Creatore, quasi sottovoce riflette e dice: «Non è bene che l’uomo sia solo».
L’uomo ha bisogno sia del cibo per lo stomaco come di una relazione di amicizia, di amore.
Con questa esigenza di amicizia e di amore l’uomo si avvicina alla fonte stessa della vita. Dio non ha creato il mondo per popolarlo di solitudine, ma per riempirlo di gioia e di amicizia. «Non è bene che l’uomo sia solo, perché ha bisogno di uno specchio in cui confrontarsi e così creò la donna dalla stessa carne di Adamo».