Vorrei tentare di creare un clima di ascolto e far uscire allo scoperto le qualità belle che ognuno porta stampate nella sua anima. Anche le nostre fragilità, i dolori e le sofferenze.
Queste realtà noi le portiamo nel cuore, il periodo della quaresima serve ad illuminare il nostro spirito e a comprendere che tanti dolori della vita sono tali perché sono privati dalla luce dello spirito e nascondono una struggente nostalgia: quella di vivere lontani da quel Padre per il quale si è sfilacciata la fiducia e in questi frammenti di luce si rispecchiano i momenti di gioia che la fede, la generosità nell’affidarsi a Dio ci ha donato nel passato.
San Giuseppe ci è maestro non tanto per le parole che non ha pronunciato, nell’esempio che ci ha lasciato nell’affidarsi, nel fidarsi di Dio anche quando le cambiava le carte in tavola, modificava i suoi progetti umani con i progetti divini.
Il grande lavoro di intercessione di Giuseppe nei nostri confronti davanti a Dio e al suo figlio Gesù è quello di aiutarci a fidarsi e ad affidarsi a Dio che sogna per la nostra storia personale percorsi gioiosi anche se qualche volta sono da edificare sulle macerie dei nostri progetti eccessivamente ancorati sulla terra.
Lo abbiamo ripetuto tante volte che il silenzio di Giuseppe non è mutismo, disinteresse o codardia, ma è un silenzio illuminato da irradiazioni come in un prisma con tante sfaccettature che riflettono colori luminosi, quasi indicazioni di strade da percorrere per camminare nel giusto sentiero della santità, e della pienezza delle beatitudini evangeliche.
All’inizio di questo solenne appuntamento vorrei porgere un cordiale saluto a tutti: alle ascoltatrice e agli ascoltatori, a chi ci ascolta in casa o per strada tornando dal lavoro, a chi sta preparando la cena, ma, in particolare modo, a chi è afflitto dalle molte contrarietà, avversità che partono dalla cattiva salute, dai disagi interiori delle depressione, dall’insofferenza nei confronti della stessa vita. Un saluto particolare a chi è arrabbiato con l’esistenza stessa, per chi ancora non ha trovato un motivo forte e valido per vivere, un ideale abbraccio a chi si sente inutile, solo, a chi è senza amici.
Siamo entrati nel mese di marzo, il mese dedicato ad attingere alla fonte della nostra spiritualità giuseppina, poiché il mese di marzo oltre che alla festa liturgica di San Giuseppe non possiamo dimenticare il giorno della solennità dell’annunciazione dell’Angelo alla vergine Maria.
Questo mese oltre ad inaugurare la stagione primaverile, nello scrigno della fede è conservata il diamante più prezioso del nostro patrimonio di credenti: Dio che si fa bambino nella storia degli uomini, per far sì che la storia dal sapore umano diventi una storia di salvezza.
Gesù, che nella sua predicazione inviterà i credenti in lui a diventare come bambini, Gesù si fa per primo bambino di questo regno dei cieli, un regno dei cieli che ha le radici ben fondate sulla terra.
La casa di Nazareth con il fidanzamento di Giuseppe con Maria e con l’annuncio di una nascita diventa la tenda dove Dio desidera abitare accanto alle cose degli uomini per dare senso alla loro vita.
Dar senso ad una esistenza significa investire di amore il futuro. Dar senso significa fare una scelta di una realtà dalla quale mi sento attratto e per la quale sono capace di investire amore, generosità, impegno, fedeltà e perseveranza.
Nazareth tabernacolo della dimora di Dio sulla terra. L’umile regione della Galilea per qualche anno sposta il baricentro della storia della salvezza da Gerusalemme a Nazareth.
È in quel paesino umile, semplice, fuori dalle grandi vie di comunicazioni, dove Dio impara a vivere da uomo, sentire il sapore amaro del sudore, la fragranza del pane fresco, la fatica del vivere e la gioia di essere in famiglia.
Dio entra nella nostra storia attraverso un triangolo di amore. La Trinità divina, Padre, Figlio e Spirito Santo, decidono di abitare sulla terra nel cuore di una trinità terrena: Giuseppe, Maria e il bambino Gesù.
In questa stagione, in cui parliamo di emergenza educativa, mi sembra bello fermare la nostra attenzione a questo fenomeno e tentare di farci discepoli di Gesù il primo maestro e pedagogo nella storia di un popolo che ha meritato di vederlo inserito come figlio primogenito, liberatore e salvatore.
In un recente passato i vescovi italiani hanno dedicato un decennio al problema dell’educazione pubblicando sei anni fa un documento dal titolo «Educare alla vita buona del vangelo».
Nell’introduzione di questo documento si leggeva come Dio si sia preoccupato di educare il suo popolo: «Nel corso dei secoli Dio, trasformando l’avvicendarsi delle stagioni dell’uomo ha educato per una storia di salvezza». Si cita il libro del Deuteronomio che afferma: «Dio, trovò il suo popolo in una terra deserta, in una landa di ululati solitari. Tre verbi: lo circondò, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio. Come un’aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli, Dio, spiegò le sue ali e lo sollevò sulle sue ali. Il Signore, lui solo l’ha guidato, non c’era con lui alcun dio straniero» (Dt. 32,10-12).
Di questa storia anche noi ci sentiamo partecipi.
«La guida di Dio, in tutta la sua forza e tenerezza, si è fatta pienamente e definitivamente visibile in Gesù di Nazareth. Clemente alessandrino, autore del 2° secolo, a Gesù attribuì il titolo di pedagogo: è lui il maestro e il redentore dell’umanità, il pastore le cui orme guidano al cielo.
San Clemente individua nella chiesa, sposa e madre del maestro, la scuola, dove Gesù insegna e conclude con questa esortazione: “O allievi della divina pedagogia, Orsù completiamo la bellezza del volto della chiesa, corriamo, noi piccoli, verso la madre buona; diventando ascoltatori della Parola, glorifichiamo il divino piano provvidenziale, grazie al quale l’uomo è educato sia dalla pedagogia divina e santificato perché bambino di Dio: è cittadino del cielo, mentre viene educato sulla terra; riceve lassù per Padre colui che in terra impara a conoscere».
Il tempo del Sacramento quaresimale abbraccia la successione di quaranta giorni a partire dal Mercoledì delle Ceneri fino alla domenica delle Palme. In questo periodo la liturgia è dominata da alcuni temi fondameli tali, cui accennerò brevemente in questa riflessione: il numero quaranta, le ceneri, il deserto, il diavolo tentatore.
Il numero quaranta
Il numero quaranta è, nel linguaggio religioso, un numero simbolico: sottolinea la fase critica che precede una trasformazione, il passo avanti nello sviluppo della coscienza, il compimento di un ciclo e il suo passaggio a un ordine differente di pensiero, di azione e di vita.
L'alleanza tra Dio e Noè avvenne il quarantesimo giorno del diluvio (Gen 7). Mose viene chiamato a iniziare la sua missione nel quarantesimo anno della sua vita (At 7, 30). Sempre Mose dimora quaranta giorni sul Sinai prima di ricevere il Decalogo, e il popolo d'Israele erra quarantanni nel deserto (Nm 13).
Il Buddha e Maometto iniziarono la loro predicazione nel quarantesimo anno della loro età.
Quaranta giorni dopo la nascita, Gesù vien condotto al tempio; vince il tentatore dopo aver dimorato quaranta giorni nel deserto (Mt 4). La sua predicazione dura quaranta mesi; la sua risurrezione avviene dop| quaranta ore di permanenza nel sepolcro e appare ai discepoli per lo spazio di quaranta giorni (At 1).
I quaranta giorni della Quaresima ci sono offerti come un tempo favorevole, un tempo che ci toglie dalla banalità inserendoci nel tempo dell'anima che dà sapore e senso al nostro quotidiano vivere. È un tempo di grazia e di ripresa cristiana della nostra personale esistenza.
Viviamo il Sacramento quaresimale con intensità di partecipazione al dono che ci è offerto e alla responsabilità che ne segue.
Le Ceneri
Il Mercoledì delle Ceneri segna l'inizio del Sacramento quaresimale. Sulla testa di ogni fedele viene cosparsa la cenere e ripetuta la formula: « Ricordati che sei polvere e alla polvere ritornerai ». Gesto misterioso e formula altrettanto enigmatica.
La cenere di cui veniamo cosparsi è ricavata dai rami dell'ulivo, benedetti il giorno delle Palme dell'anno precedente. L'ulivo che fu il testimone dell'estremo patire di Cristo nell'orto del Getsemani; l'albero che cresce dolorante nella pietraia, che dona un frutto meraviglioso che è nutrimento, medicina, alimento della luce. L'ulivo è il perfetto simbolo di Cristo, il cui patire è sorgente di luce, di alimento, di salvezza.
La cenere è il prodotto del fuoco applicato ai rami dell'ulivo. Il-fuoco li brucia, e lascia nella cenere la quintessenza dell'ulivo. In alcune culture, la cenere di certe piante indispensabili all'alimentazione veniva mescolata ai corrispettivi semi e gettata insieme nel solco, per ottenere un prodotto qualitativamente migliore.
La cenere di ulivo che viene posta sulla fronte dei fedeli non è segno di cordoglio, ma è la rianimazione, attraverso il rito, della nostra vita con la quintessenza dell'ulivo-Cristo. È un gesto tendente a renderci più vivamente partecipi delle forze redentive di Cristo.
La formula: « Ricordati che sei polvere e alla polvere ritornerai » va intesa in stretta relazione col gesto che l'accompagna e che comunica l'essenza dell'ulivo-Cristo e che dona nuova fecondità al fedele che coscientemente di Lui si insapora. Essa potrebbe venire cosi tradotta: « Ricordati che sei un'essenza spirituale e in Cristo devi risorgere in una realtà spirituale ». In Cristo siamo polvere destinata a divenire luce, se ne accogliamo le forze fecondatrici in un gesto di perfetto abbandono, come la zolla che riceve gli elementi atti a renderla fertile.
La Chiesa, all'inizio del Sacramento quaresimale, ci cosparge con le ceneri dell'ulivo-Cristo per renderci coscienti del mistero della trasmutazione che accompagna il nostro quotidiano incontro con il Salvatore.
«Deserto»
Il « deserto », come luogo dove lo Spirito conduce Cristo perché sia tentato dal Diavolo, costituisce l'ambiente del periodo quaresimale. Il « deserto » non è uno spazio geografico, ma una situazione concreta in cui l'uomo viene continuamente a trovarsi. Nella religiosità biblica il « deserto » è il luogo prescelto da Dio per provare la fedeltà e la vigoria della fede dei suoi eletti che, superata la tentazione, raggiungono la statura dell'uomo vero.
Nell'esperienza religiosa universale, il « deserto » è il passaggio obbligato di chiunque voglia rispondere alle sue più profonde aspirazioni umane verso la liberazione nell'Assoluto divino. Esso è contrassegnato dalla spogliazione di quanto è superfluo nella ricerca della pienezza della vita, ed è insieme la soglia di una vita differente, di un senso nuovo dell'esistenza. È l'esperienza di un'incolmabile assenza che rende inquieta ogni espressione di vita, e rende stabilmente « aperte » le coscienze verso un « oltre » e un « di più », ove le loro radicali aspirazioni trovino compimento e pacificazione.
La vita è animata da un fuoco immanente che distrugge implacabilmente le forme esistenti per crearne delle nuove. Il bocciolo è mosso alla fioritura dal fuoco animatore che lo rende vitalmente teso dall'assenza del fiore.
L'essere creato è costantemente condotto a un limite di consumazione e di superamento formale che, una volta raggiunto, crea una nuova forma che, a sua volta, viene spinta al suo logoramento per dischiudersi a una nuova conformazione.
La vita è un processo alternato: da un segno positivo passa a uno negativo per riprendere su un piano di maggiore intensità il segno positivo. La vita è una successione ininterrotta di vita-morte-vita; un susseguirsi di oasi-deserto-oasi.
L'anima umana è portata ad aderire tenacemente alla permanenza delle forme, a respingere la distruzione. Sente la dissoluzione come il male, ed essa è invece la pulsione dell'incolmabile assenza che prepara nuovi cicli di vita. Il « deserto » è il momento dell'orrore, della tentazione del Diavolo, della perdita di ogni certezza formale, il momento della rivelazione del non valore dell'esistenza, dei limiti effimeri dell'io esistenziale e della verità dell'io essenziale. È il momento della prova estrema, e insieme quello del risveglio alla voce dell'Essenziale, dell'Eterno che abolisce il tempo.
Nello sfacelo di tutte le speranze, nella più deserta solitudine, l'uomo sperimenta le sottili insidie e le angosce dell'horror vacui. Quando il cuore è saldo, dalla tenebra spunta la visione di una realtà differente, di una vita più vera: gli angeli scendono e donano il loro pane, la solitudine si popola, la tenebra si trasforma in luce.
La vita di Cristo è esemplare dalla nascita alla totale spogliazione della Croce, come accettazione eroica di tutte le separazioni per giungere all'estasi della consumazione del proprio « io » in Dio. Il suo mistero concerne tutti gli uomini, per essi il passaggio al divino è segnato dall'esperienza del « deserto », della spogliazione per raggiungere la vittoria dell'essenza sull'esistenza. Il « deserto » è il momento del risveglio alla più completa fiducia in Dio, nella positività della vita, purché l'anima sia vigorosa e forte.