Idealmente, come ogni mese, questa sera vogliamo essere davanti alla casa di Nazareth, questa casa è come una tavolozza dei colori per le virtù umane e cristiane che l’hanno abitata e sostiamo per ammirare la bellezza delle relazioni di Giuseppe con Maria e con Gesù, quel fanciullo che Dio dall’eternità aveva pensato di affidare alle braccia robuste e generose del carpentiere di Nazareth, ma soprattutto affidarlo a un cuore di padre, specchio di virtù umane così da insegnare a un Dio che si fa bambino a imparare a vivere la nostra condizione umana: la gioia del vivere ma anche il duro mestiere della nostra condizione umana.
Nella vita, come nel giorno, registriamo il buio della notte e lo splendore gioioso della luce del giorno.
In questa sosta a Nazareth come sempre i nostri occhi sono curiosi, avidi di luce per cogliere nei sentimenti di Maria e di Gesù, quei semi di speranza per sanno far lievitare la nostra vita familiare con quella stessa linfa che ha alimentato la felicità di quella casa.
Amo sognare ed immaginare la casetta di Nazareth oltre che a una tavolozza di colori anche fasciata dai colori dell’arcobaleno. Se dopo il diluvio, nel cielo sulla testa di Noè, Dio ha disegnato un arco, l’ha appeso alle nubi non per lanciare frecce di morte, ma per far splendere in modo definitivo il sorriso di Dio attraverso dei colori. Infatti, nell’arcobaleno non solo troviamo l’armonia dei colori, ma lo sguardo luminoso di Dio.
Questa sera mi piace affidare a ogni colore la rappresentazione di una qualità di vita.
Potremo individuare nel bianco la luce di Dio che tutto avvolge, tutto illumina e tutto fa vivere. Lo dice Gesù nell’evangelo: «Io vivo e voi viviate». Una piccola frase che rende granitica la nostra speranza. Gesù mi ha detto che io appartengo al Dio vivo e Lui, il Dio vivo, appartiene a me. Con il battesimo siamo abilitati a chiamare Dio con il nome di «papà».
In Gesù sappiamo che il sacrificio dell’amare non è un morire, ma rendere eterni il nostro amore.
Ritorniamo ai colori.
Nel rosso vediamo la vicenda umana di Gesù, il figlio inviato dal Padre.
Nel giallo-oro la presenza dello Spirito Santo, il vincolo che unisce nell’amore il Padre al Figlio e irradia nel nostro tempo lo splendore dell’eternità.
Dentro a questa armonia di colori il vescovo Bruno Forte ha scritto che dalla «realtà misteriosa di questi colori si può ricavare la risposta alla domanda che riguarda tutti noi: quando ci domandiamo: ma «chi ci renderà capaci di amare?».
Per rispondere a questo interrogativo ci viene aiuto il poeta Kahlil Gibran che scrive così: «Quando ami non dire: “ho Dio nel cuore”, ma di’ piuttosto: “Sono nel cuore di Dio”. Si diventa capaci di amare, solo quando ci si scopre amati da Dio».
La fede, che ha reso grande San Giuseppe, è l’essersi abbandonato nelle mani e di Dio e essersi lasciato condurre dalla voce di Dio e camminare verso il futuro che lui voleva costruire con lui.
Caro san Giuseppe, queste riflessioni affiorano nel nostra animo dopo secoli di esperienza di un’umanità che va cercando il volto di Dio nella vita; nella tua fede genuina e semplice, tu, Giuseppe, hai vissuto il mistero di amore con quel fascino e quel trasporto che ti veniva da Dio stesso il quali ti aveva affidato un compito singolare, unico ed irripetibile: essere l’ultimo e grande patriarca con il compito di consegnare all’umanità il salvatore.