Feriti dal dolore, toccati dalla grazia. La pastorale della salute che genera il bene è stato il tema del XXI convegno nazionale di pastorale della salute che si è svolto a Caserta dal 13 al 16 maggio scorso. Vi hanno preso parte i responsabili diocesani della pastorale sanitaria, gli esponenti di associazioni e realtà socio-sanitarie, oltre ad esperti, studiosi, medici e specialisti da ogni parte d’Italia. Rispetto ad altri ambiti della pastorale, quella “sanitaria” risulta molto trasversale e in grado di raccogliere una larga comunanza di vedute: il dolore tocca tutti, si è detto al convegno, e a tutti pone importanti domande di senso.
Obiettivo principale del convegno è stato mettere a tema la questione dei sensi come strumenti di conoscenza, di diagnosi e cura, di vicinanza e accompagnamento. Toccati dalla grazia, la seconda parte del titolo, non è da intendere solo in senso spirituale, ma anche concreto, pienamente umano: il saper “toccare” il malato, essergli accanto, offrirgli una compagnia e assistenza che lo sappia far sentire seguito e anche rispettato e amato, pur nella sua fragilità a volte estrema, come nel caso dei moribondi.
Infatti, spiega il direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute, don Massimo Angelelli, dopo aver affrontato nel 2018 il tema della “vista”, attraverso la dimensione dello sguardo, quest’anno è la volta del tatto, del “toccare”. La prospettiva dei lavori è stata multidisciplinare; infatti, dopo aver affrontato l’argomento con l’analisi biblico-teologica, antropologica e pastorale affidata a specialisti, sono state analizzate le “ferite” che possono derivare da una parte dal “tocco invasivo”, cioè dal prevaricare di pratiche cliniche e terapeutiche non rispettose della dignità della persona; e, dall’altro lato, anche dalla assenza di vicinanza umana, cioè di quella “pietas” che fa sentire il malato come soggetto degno di cura e attenzione. Nelle sezioni conclusive del convegno sono stati poi affrontati i temi pratici e applicativi su come giungere a definire le più adeguate modalità che sortiscano effetti di cura.
Le varie forme
di dolore odierne
Così, ad esempio, si sono toccati temi di frontiera quali l’eutanasia, che certe frange sociali e politiche vorrebbero introdurre a livello sanitario facendola diventare una pratica libera e volontaria, senza limiti e baluardi di alcun genere. Si è parlato dello stare vicino ai malati di Alzheimer per i quali il “tatto” è una forma di vicinanza che a volte riesce a tranquillizzare e a far sentire a casa, meglio di altre procedure anche farmaceutiche dagli scarsi esiti.
In chiave spirituale ma anche di collaborazione pratica tra strutture si è parlato dell’empatia con il malato, specie nei casi di disabilità. Il direttore dell’ufficio nazionale don Angelelli si è soffermato sulla proposta di accolti.it, una forma di collaborazione tra le realtà che si occupano di disabili per favorire la reciproca conoscenza e il miglioramento dei modelli di assistenza.
Di fronte ai rischi di trasformare la medicina e l’assistenza in fredde tecniche assistite da computers e robot, il Forum delle associazioni socio-sanitarie ha evidenziato come sia necessario favorire in ogni modo il rapporto tra paziente e medico, che rimane l’asse basilare di ogni approccio terapeutico.
Gli infermieri hanno condiviso il tema del codice deontologico, al cui interno gioca un posto di rilievo il tema dell’assistenza ai malati gravi e ai morenti e il rischio della deriva eutanasica, che si fa sempre più forte come recenti casi di cronaca hanno evidenziato.
Sull’introduzione della robotica medica si sono avute le testimonianze di esperti e sanitari che ne hanno parlato come di una opportunità in più, ma a patto che si tenga sempre conto dell’uomo-persona mai schiacciato dall’intelligenza artificiale.
Allo stesso modo, sulla salute mentale e le difficoltà a volte estreme di assistere e curare pazienti gravi, sono stati sottolineati il ruolo fondamentale della genitorialità, della presenza nella scuola di esperti in grado di cogliere i primi sintomi del disagio, che - se non opportunamente affrontati in via precoce - possono degenerare in vere e proprie patologie poi difficili da estirpare.
Stesso discorso è stato fatto per le malattie neurodegenerative, per l’autismo e per i malati terminali ai quali offrire in appositi hospice delle cure palliative in grado di sostenerli nell’ultimo percorso e anche di poterli accompagnare sul piano spirituale perché la prospettiva del fine vita si apra alla speranza.
è una questione - in tutti questi casi - di quel “tocco” umano che può giungere al cuore della persona malata e “ferita” e che riesce, in qualche modo, a lenire il dolore e accompagnare ad una speranza più grande.
Con lo sviluppo di competenze sempre più sofisticate da parte dei sofware presenti negli smartphone, computer e robot si pongono per l’umanità domande di senso: fin dove permettere alla “intelligenza artificiale” di rendersi via via autonoma? Che limiti porre alle tecniche di rilevamento dei nostri “dati”? Quali valori etici si possono installare negli algoritmi che regolano gli scambi sulla rete? Di questi argomenti si è parlato recentemente in Vaticano in due occasioni: la prima è stata una udienza concessa dal Papa al presidente della società tecnologica Microsoft e la seconda un convegno internazionale sui temi della roboetica e salute.
Siamo pronti a entrare nella società digitale in cui interagiremo con robot e umanoidi che parlano la nostra lingua, che lavorano nelle fabbriche e negli uffici accanto ad operai e impiegati se non addirittura prendono il nostro posto, che scrivono articoli di giornale oppure che guidano automobili e bus senza più bisogno di giornalisti e di autisti?
Se diamo uno sguardo a ciò che sta già avvenendo attorno a noi, ad esempio con l’arrivo nelle case degli assistenti vocali (“Cortana” di Microsoft, “Alexa” di Amazon, “Siri” di Apple e “Google Home”) ci accorgeremo che il mondo dei robot domestici e degli umanoidi per uffici (in Italia è famoso Pepper), sta effettivamente occupando ambiti sempre più vasti della vita privata e del mondo lavorativo.
Al di là di come sono “carrozzati” all’esterno, pupazzi di latta con fattezze umane o semplici cilindri parlanti, si tratta in realtà di cervelli elettronici sempre più potenti, in grado di processare miliardi di dati al minuto, di ascoltare quello che diciamo, di elaborare risposte alle nostre domande collegandosi in rete, di memorizzare i nostri gusti e le nostre scelte di canali televisivi, siti internet e musica. Re incontrastato di questi controllori digitali è il nostro smartphone, ormai posseduto da oltre l’80 per cento di quanti usano un cellulare. Con lo smartphone facciamo di tutto: chattiamo, telefoniamo, rispondiamo alle mail, compriamo beni e servizi, investiamo e sottoscriviamo azioni e assicurazioni, misuriamo il nostro benessere e grado di salute. Negli uffici e nelle fabbriche invece sempre più spesso incontriamo pc intelligenti, che ubbidiscono a comandi vocali compiendo operazioni complesse, e anche “co-bot” (robot collaborativi) che interagiscono con operai e tecnici e sono in grado di modificare le proprie attività sulla base degli input vocali che ricevono dai “colleghi” umani.
Nel commercio online, a cui un numero crescente di persone fa ricorso, le grandi piattaforme di vendita (Amazon, Alibaba, Ebay, ecc.) si basano su algoritmi di calcolo che registrano ogni nostra azione, dalla semplice ricerca di un oggetto o di un servizio, fino alla procedura di acquisto e spedizione. I “dati” che noi forniamo a queste piattaforme sono così numerosi e dettagliati (indirizzo, codice fiscale, conto corrente bancario o carta di credito, orari di lavoro e tempo libero, gusti culturali, politici, religiosi, relazionali ecc.) che se volessero potrebbero creare un nostro “alias”, cioè una persona in tutto e per tutto uguale a noi, in grado di agire, comprare, decidere, prenotare, persino votare al nostro posto. E tutto questo in maniera credibile e insospettabile per la precisione e apparente affidabilità del comportamento attivato.
Un discorso analogo vale per i social media (Facebook, Twitter, Instagram e altri) nei quali condividiamo molte idee, sentimenti, valutazioni e preferenze, le quali vanno ad aumentare esponenzialmente i dati del nostro profilo personale che depositiamo nella rete.
Quando si parla di “Big data” bisogna imparare a pensare in termini matematicamente enormi: oltre metà degli uomini sono connessi e navigano in rete ogni giorno, lasciando centinaia se non migliaia di tracce personali che vengono raccolte e analizzate. Nulla di ciò che avviene online è “privato” e tutto può essere conosciuto, analizzato, intercettato, clonato e anche utilizzato per finalità truffaldine.
La gestione di questi “Big data” sta diventando un vero e proprio affare, soprattutto da quando si sono sviluppati gli algoritmi della cosiddetta “intelligenza artificiale”. Le grandi società tecnologiche hanno dato vita ad archivi elettronici di enorme capienza, detti “cloud” (nuvole). Il cloud non solo funge da magazzino dei dati, ma consente sistemi di analisi e strutturazione degli stessi per finalità di conoscenza dei flussi e degli orientamenti dei clienti. Ne sono prove evidenti i messaggi che riceviamo da Google o da Amazon appena manifestiamo un interesse per qualcosa (viaggi, politica, acquisti ecc.).
Nel febbraio scorso, papa Francesco ha ricevuto in udienza il presidente della Microsoft, Brad Smith, e con lui ha avuto modo di discutere di nuove tecnologie, Big data e intelligenza artificiale e dell’uso dei social media con le delicate implicazioni sulla privacy, che esse comportano. Promotore di questo incontro è stata la Pontificia Accademia della Vita, presieduta da mons. Vincenzo Paglia, che ha anche indetto un premio in collaborazione con Microsoft per la migliore ricerca dottorale sul tema delle intelligenze artificiali a servizio della vita umana. In quell’occasione il Papa ha richiamato alcuni dei contenuti del messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni 2019 in cui tra l’altro afferma che «l’uso del social web è complementare all’incontro in carne e ossa, che vive attraverso il corpo, il cuore, gli occhi, lo sguardo, il respiro dell’altro. Se la rete è usata come prolungamento o come attesa di tale incontro, allora non tradisce se stessa e rimane una risorsa per la comunione». Secondo papa Francesco, le nuove tecnologie digitali costituiscono un grosso ausilio per l’umanità ma esigono l’impegno per passare dalle “community” che a volte sono spersonalizzanti alla “comunità” in carne e ossa che si fonda sul contatto diretto tra le persone.
Dal canto suo, il presidente di Microsoft ha sottolineato in una intervista su L’Osservatore Romano che “abbiamo la responsabilità di creare servizi online e comunità in cui le persone si sentano sicure: lo scorso 5 febbraio, Giornata della sicurezza in rete, ovvero la giornata d’azione internazionale per promuovere un uso più sicuro e responsabile della tecnologia, specialmente tra i bambini e i giovani, abbiamo sviluppato un Digital Civility Index (indice della civiltà digitale) per dimostrare che i rischi in rete hanno conseguenze nel mondo reale. Siamo profondamente impegnati per quanto riguarda la necessità di approfondire la formazione di adolescenti, giovani adulti, genitori, educatori e legislatori in merito alle conseguenze nel mondo reale delle interazioni negative in rete, che possono includere la perdita di fiducia negli altri, un maggiore stress, la privazione di sonno e perfino pensieri suicidi. Speriamo che quei risultati possano servire come prova documentale per una spinta globale verso la “civiltà digitale”.
Analoghe argomentazioni sono emerse poi in occasione dell’assemblea della Pontificia accademia per la vita (Pav) dedicata ai temi della “roboetica” in rapporto alla salute e alla dignità umana. Anche in questo caso la voce del Papa, di vescovi, scienziati e filosofi è stata convergente nell’auspicio che di fronte ai progressi delle scienze e delle tecnologie, “la cabina di regia della ricerca e dello sviluppo rimanga umana e nelle mani dell’uomo” come ha sottolineato il presidente della Pav, mons. Vincenzo Paglia. Dal canto suo papa Francesco ha anche espresso l’auspicio che di fronte a questi grandi progressi delle tecnologie digitali anche le scienze filosofiche e teologiche sviluppino riflessioni in grado di offrire un argine morale ai rischi di disumanizzazione che oggi si intravvedono.
Il 3 dicembre 1844, nello scolasticato dei gesuiti di Vals, nell’Alta Loira, per iniziativa del p. Francesco Saverio Gautrelet, nasceva l’Apostolato della Preghiera, ora Rete Mondiale di Preghiera del Papa. Se scriviamo un po’ della sua storia, non è tanto per un desiderio di erudizione, o per pura curiosità, ma piuttosto per poter ripercorrerne le intuizioni originarie, il suo primo slancio, per potere più fruttuosamente viverne oggi la spiritualità e la originaria fecondità apostolica.