Nelle nostre riflessioni precedenti abbiamo contemplato come il Cuore di Cristo sia per noi fonte di acqua viva, lo Spirito promesso, e abbiamo visto, come in controluce, le immagini e i riferimenti della Scrittura che sono impliciti nella scena che ci è presentata da Giovanni: ma non sono gli unici, e in questo nostro appuntamento mensile vorremmo mostrarne degli altri. L’immagine del fianco trafitto è come la punta di un iceberg: sotto la parte emersa c’è molto di più, che però non si vede, e sta sotto l’acqua.
A scuola di Gesù per imparare come si ama
In questo mese particolarmente dedicato al Sacro Cuore, l’ora santa vuole entrare nel suo insegnamento più profondo: l’umiltà e la mitezza. Pertanto possiamo fissare, come di consueto, il nostro tempo di preghiera, che coinciderà con il giovedì sera-notte, in memoria dell’agonia in Getsemani. Entriamo nella preghiera, alla scuola di sant’Ignazio, innanzitutto distaccandoci mentalmente dalle nostre occupazioni abituali, e considerando a Chi stiamo andando a parlare e che cosa vogliamo chiedergli: così, fisicamente entriamo nella nostra stanza ove vogliamo pregare, o nella cappella.
Nei nostri incontri precedenti abbiamo contemplato quel fiume d’acqua viva che sgorga dal costato trafitto del Signore e abbiamo visto come in questa immagine del Vangelo di Giovanni riprenda vita quella pagina del profeta Ezechiele nella quale ci è presentato un fiume in piena che sgorga dal tempio, appunto «dal tempio del suo corpo» (Gv 2, 21).
Abbiamo visto che questa pratica consiste nel meditare o contemplare per un’ora intera e continua la Passione del Signore, col desiderio di offrirgli amore e riparazione per le nostre infedeltà e tradimenti, e in particolare di quelle delle anime in special modo a lui consacrate. Non c’è un «sistema» particolare: si può o leggere e meditare il racconto della Passione di uno dei vangeli, in tutto o in parte, o pregare con i misteri dolorosi, o fare la via crucis, o anche stare in silenzio e effondere il proprio cuore dinanzi a Lui.
Abbiamo già visto, nei precedenti articoli, pubblicati su questa Rivista ormai diversi anni fa e che ora in qualche modo desideriamo riprendere, che quella del Cuore di Cristo non è una “devozione”, ma, più profondamente, una “spiritualità”, un modo di vivere l’intera esperienza cristiana attraverso quel simbolo così significativo costituito dal Cuore di Cristo. Abbiamo anche visto che tutto questo non si basa solamente su rivelazioni private, o “promesse”, che Dio è certamente libero di fare e ha effettivamente compiuto, attraverso santa Margherita Maria e altri santi, ma piuttosto sulla Scrittura stessa, che è la pienezza della Rivelazione, dalla quale attingono i mistici stessi, e che le loro parole non fanno che confermare.
«Voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, avendo come pietra d’angolo lo stesso Cristo Gesù» (Ef 2,19-20). Il Signore ha voluto costruire la sua Chiesa con pietre scelte da Lui, da Lui levigate, da Lui collocate al posto giusto nel grande edificio.
«Quando Gesù nelle sue parabole parla del pastore che va dietro alla pecorella smarrita, della donna che cerca la dracma, del padre che va incontro al figliol prodigo e lo abbraccia, queste non sono soltanto parole…» (Deus caritas est, n. 12). Gesù è venuto nel mondo a manifestare come il Padre ami l’umanità – l’uomo perduto – fino a sacrificare per noi il suo unico Figlio, «andando – come dice ancora Papa Benedetto XVI – contro se stesso» a favore nostro. Se ci pensiamo bene, la parabola della pecorella smarrita ha tanti aspetti che ci riguardano.
«Veniamo alla parabola che più mi sconvolge. Come hai fatto, Gesù, a inventarla e a dirla? Io vorrei sapere come la dicevi? Con quale voce? Oh, vorrei sapere… pensavi allo strazio del padre? A chi alludevi? Voglio sapere se tu per caso non pensavi a me, in quel giorno o in quella sera, in quel momento…». Così ha scritto padre David Maria Turoldo commentando la parabola del figliol prodigo che, più propriamente, potrebbe essere detta la parabola del Padre misericordioso. Ciascuno sente che questa parabola è la “sua” parabola. Essa presenta una situazione molto comune. Una famiglia con due figli: uno docile, buono e quieto, l’altro irrequieto, ostinato, in cerca di “esperienze”. Il primo è tutto dedito al lavoro, l’altro reclama con arroganza la “sua” parte di patrimonio, per poi partire in piena autonomia e andare dove lo porta il cuore… E dove lo porta? In un «paese lontano», dice semplicemente il Vangelo. È la lontananza da Dio, dalla rettitudine, dal vero bene.
«Attraversare oggi la Porta Santa ci impegni a fare nostra la misericordia del buon samaritano». Con queste parole Papa Francesco terminava l’omelia della Santa Messa di apertura del Giubileo straordinario della Misericordia. La figura del buon samaritano ci è dunque additata come modello privilegiato in questo Anno Santo. Al cuore della parabola spicca, infatti, il verbo «ebbe compassione», un verbo che nella società violenta del nostro tempo sembra fuori uso; in realtà è il verbo più necessario da imparare a coniugare in tutti i suoi tempi e modi, come fece il buon Samaritano. La parabola nasce in risposta alla domanda che un dottore della legge rivolse a Gesù per metterlo alla prova: Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna? E Gesù rispose con un’altra domanda: Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi? Il dottore della legge rispose senza esitazione, citando esattamente il comandamento dell’amore di Dio e del prossimo (cf. Dt 6,5 e Lev 19,18). Tuttavia tale risposta lasciava aperto per lui il problema di interpretare nella concretezza delle situazioni chi fosse il prossimo.
Riconoscere la lezione della crisi, così come è stata delineata in queste riflessioni, richiede un cammino lento, doloroso, di purificazione del proprio io e dei criteri che si ritengono essere importanti circa la vita, se stessi, Dio, per rivestirsi dei sentimenti di Gesù (Fil 2,5). La fragilità, quando è riconosciuta ed accettata diventa luogo di incontro con il Signore, conoscendoLo intimamente. È sempre Paolo a riconoscerlo con stupore: «Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte» (2 Cor 12,9-10).