In occasione della XXV Giornata mondiale del malato, l’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Chiesa italiana ha pubblicato una “scheda teologico-pastorale” che aiuta a riflettere su alcuni aspetti della cura della salute e dell’assistenza ai malati. Uno dei sottotitoli è: Pane e senso: «Ogni uomo, soprattutto quando vive momenti difficili, ha bisogno di pane e di senso». Di pane certamente che consiste principalmente prendersi cura e dell’assistenza, ma anche di essere aiutato a dare un senso alle esperienze dolorose che vive. È quella componente dell’assistenza che oggi viene chiamata cura spirituale, ancora poco valorizzata e praticata.
Papa Francesco ha nel suo studio una statua di San Giuseppe dormiente, che indica sempre come modello di vita fedele al servizio di Dio e sotto il piedistallo infila dei biglietti con le sue richieste di grazie: «Con questi falegnami bisogna avere pazienza: dicono che ti faranno un mobile in due settimane, poi magari ci mettono un mese. Ma te lo fanno, e lavorano bene! Solo bisogna avere pazienza».
Il libro La devozione a san Giuseppe dormiente di don Marcello Stanzione ed edito dalle Edizioni Segno di Udine, è un agile compendio della spiritualità e della devozione a san Giuseppe dormiente e unisce anche la storia del culto cattolico al Santo. Vi sono aggiunte le più belle preghiere a lui e una meditazione sulle sue virtù. Per ogni cristiano san Giuseppe è il modello ideale: ci mostra il comportamento da tenere con Dio, con la Santissima Vergine e con gli Angeli. La sua obbedienza, il suo rispetto dell’autorità, la sua fiducia e la sua fede, il suo silenzio sono per noi uno sprone all’imitazione.
«Una mattina stavo scavando il letame da una fossa per portarlo nei campi. Arrivò una guardia con un cane e domandò al prigioniero che riceveva il letame e lo buttava fuori perché ne caricasse così poco, e senza dargli il tempo di rispondere cominciò a bastonarlo e ad aizzargli contro il cane, che lo morse ripetutamente. Ma l’altro se ne stava calmo, senza lasciarsi sfuggire un lamento. In tedesco disse anzi di essere un sacerdote, il che fece andare in bestia l’aguzzino, che lo colpì ancor più duramente.
Tra le eredità più belle ricevute dal santo Fondatore certamente dobbiamo considerare l’iniziativa dell’istituzione della Pia Unione del Transito di San Giuseppe per invocare la sua protezione in favore dei morenti.
Possiamo dire che questa intuizione rappresenta la maturità del suo impegno caritativo, volendo abbracciare la povertà umana, materiale e spirituale, nel momento più serio della vita, in cui ognuno di noi ha bisogno di sentire la vicinanza fisica, affettiva e
spirituale nel compiere il grande passo che ci apre a una nuova vita.
«La felicità non va inseguita, ma è un fiore da cogliere ogni giorno, perché essa è sempre attorno a noi. Basta accorgersene». Stupore e meraviglia sono le ali della gioia. Anche gli ambienti della sede centrale della Primaria Pia Unione del Transito di san Giuseppe stanno fiorendo di colori sia per onorare san Giuseppe e sia per offrire ospitalità ai pellegrini che transitano in quest’oasi per immagazzinare energie vitali per vivere nelle loro case un clima di serenità come riflesso della casa di Nazareth.
L’8 dicembre 1870 papa Pio IX, con il decreto Quemadmodum Deus della Sacra Congregazione dei Riti, proclamava san Giuseppe Patrono della Chiesa universale, suggellando così, in maniera ufficiale, l’intuizione spontanea e vissuta del popolo di Dio che da secoli aveva considerato il patrocinio universale del Santo come il prolungamento normale della sua provvidenziale missione di capo della Sacra Famiglia, culla e modello della Chiesa. «In tempi difficili per la Chiesa Pio IX, volendo affidarla alla speciale protezione del santo patriarca Giuseppe, lo dichiarò Patrono della Chiesa cattolica.
Nella piccola azienda di Nazareth san Giuseppe sapeva che gli strumenti del suo lavoro erano gli utensili di un artista che aiutava Dio a rendere migliore e più bello il mondo.
Mediante il lavoro l’uomo collabora con Dio nel portare a termine la creazione.
Lo riferisce una delle prime pagine della Bibbia. Dopo aver creato il mondo, Dio comanda all’uomo e alla donna: «Riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo…» (Gn 1, 8). Soggiogare la terra vuol dire prendere possesso dell’ambiente e governarlo, rispettando l’ordine posto in esso dal Creatore e sviluppandolo a proprio vantaggio per soddisfare i bisogni propri, della famiglia e della società.
In questo consiste l’impresa della scienza e del lavoro per umanizzare il mondo, al fine di farne la dimora dell’uomo, una casa di giustizia, di libertà e di pace per tutti.
Quando Dio ha creato il mondo, non lo ha creato compiuto: la creazione non è finita. L’uomo ha preso possesso lentamente della terra, forgiandola, adattandola alle sue esigenze, sviluppando le potenzialità del creato per il suo bene e per la gloria di Dio. In modo particolare oggi stiamo assistendo a trasformazioni impensabili fino a pochi decenni fa.
Non siamo però padroni del creato. Dobbiamo collaborare con Dio nel portarlo a compimento, rispettando la natura e le leggi insite in essa. Dio ci ha affidato il creato, perché potessimo custodirlo e perfezionarlo, non per sfruttarlo e manipolarlo a nostro piacimento. Ci ricorda ancora il libro della Genesi: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (2, 15). Il lavoro – vissuto in condizioni rispettose della giustizia e della dignità umana, oltre che dell’ambiente affidatoci dal Creatore – è la via in cui l’uomo realizza questo compito: così avvenne anche tra Giuseppe e Maria.
Al padre spetta il compito dell'educazione morale di insegnare i precetti della Torah. Con essa si mettono i confini alla vita di ognuno, compresa la propria affettività. Ogni parola che educa è un "ponte", un collegamento tra me e l'altro che ci permette di incontrarci, di interagire, di cooperare. «La mamma dà l'affetto, le braccia, il seno, il grembo; il padre dà "le parole". Il rapporto tra mamma e figlio è immediato, s'impara per osmosi». Quello col padre è "mediato" proprio dalle parole. Per questo prepara e introduce alla vita sociale, politica, alla collettività e alla vita comunitaria.
Giuseppe avrà, dunque, un grande compito: quello di educarlo al mestiere del vivere umano. L'icona del papà educatore è dipinta dalla pagina di Luca quando racconta di Gesù che si "perde" tra i Dottori, nel Tempio di Gerusalemme, mentre Maria e Giuseppe ansiosamente lo cercano.
Il rimprovero che Maria rivolge a Gesù richiama innanzitutto l'autorità di Giuseppe: «Tuo padre ed io angosciati ti cercavamo». Un fatto che afferma il ruolo del padre e rivela come sia affidato a lui il compito di insegnare "le parole", i precetti, i comandamenti.
Secondo la Bibbia, infatti, un figlio non nasce quando viene alla luce, ma durante la sua crescita, che viene portata a compimento proprio con l'educazione. Occorrono i sette anni di formazione affettiva con la madre, durante i quali il piccolo è ancora "pasta di latte", carne di latte. Giuseppe quindi per dare il nome a Gesù, al Salvatore, non può staccarlo dalla madre. Giuseppe dà la vita anche a Maria, perché custodisce lei e il figlio, tutti e due insieme.
Il senso del lavoro non può essere dato semplicemente dall'esterno, a mo’ di formula risolutiva e una volta per sempre: occorre piuttosto, da parte di ciascuno, continuare a ricercarlo, cogliendone ogni suo manifestarsi per sceglierlo, volerlo, potersene appropriare.
Occorrono inoltre, per questo, adeguate condizioni, non riducibili al livello personale, ma sociale. Le condizioni che rendono possibile la risposta stessa esigono di essere predisposte a livello sociale, perché non determinabili dal singolo lavoratore. È quanto, fra l'altro, Papa Benedetto XVI esplicita in Caritas in veritate, ai paragrafi 25 e 63.
Neppure questo passaggio, tuttavia, è da ritenersi ultimativo. Il lavoro non può manifestare il suo senso pieno, se non in quanto a sua volta riferito ad un oltre da sé che lo porti a compimento. Se si vuole evitare una “ideologia del lavoro”, o quanto meno una sua idealizzazione, per aprirsi invece ad una vera e propria “teologia del lavoro”, così come Laborem exercens prospetta, occorre mettere in luce con forza il fatto che il lavoro ha bisogno, a sua volta, di essere iscritto entro qualcosa di più grande, mirato non soltanto alla ricerca di un suo senso, ma ad una salvezza, ad un compimento di tutto l’uomo e di tutti gli uomini. In ultima analisi, anche il lavoro può e deve essere salvato; rimane fine intermedio, non ultimo dell'uomo. Come il libro della Genesi rivela in modo insuperabilmente espressivo, come Laborem exercens magistralmente afferma: «l'uomo è fin dalle origini chiamato al lavoro, ma ultimamente quel lavoro è finalizzato al riposo supremo in Dio, alla risurrezione, al prendere parte a quel “giardino della vita” di cui l'uomo può possedere, nella storia, alcune vere quanto provvisorie anticipazioni, non la pienezza».
Il lavoro è bene altro, non ultimo. Carico di valenze pratiche, educative, relazionali, etiche, simboliche, teologali, richiede in ogni caso la luce e l'apporto della grazia che lo liberi e lo salvi, come ogni offerta storica di libertà. Anche il lavoro infatti è luogo, in ultima analisi, di possibile santificazione, purché accolto in quanto posto, originariamente e realmente, entro l’unica santità, quella di Dio.
Giuseppe sposo di Maria, come tutti gli uomini di ogni tempo, avrà avuto il suo sogno della vita, quello di realizzare attraverso una relazione sponsale, una famiglia con la moglie e una prole numerosa. Ma i nostri sogni non sono mai corrispondenti al progetto di vita, che Dio riserva a ogni sua creatura. San Giuseppe, pieno di angoscia per la sua vicenda cede al sonno; un sonno consolatore dove in un sogno si manifesta l’intervento di Dio a rassicurarlo nella fedeltà alla sua sposa.
Ed ecco che Giuseppe si ritrova catapultato da una vita comune a una vita grandiosa per la responsabilità affidatagli, quella di custodire il Figlio di Dio e sua madre Maria prescelta anche a vivere una maternità, fuori dal comune.
Differentemente dal sogno narrato nella Genesi dove Giuseppe figlio di Giacobbe, è chiamato nella vita a realizzare un progetto di servizio a favore dei fratelli e del popolo d’Israele; il sogno di San Giuseppe, rassicurato dall’angelo, è quello di una chiamata a collaborare al progetto di Dio per la salvezza dell’umanità. E sull’obbediente accettazione di questo stravolgente progetto, come Giuseppe e la sua sposa, siamo chiamati anche noi a misurarci nel nostro sì.
Un’accettazione che Giuseppe ha vissuto una vita alla luce di Dio con piena disponibilità e fiducia. A Giuseppe Dio ha affidato la custodia terrena di queste sue creature, e sotto la sua guida terrena Gesù ha collaborato nella bottega paterna imparando a diventare un’artista.
Gesù è la Luce che illumina e attrae: i pastori a Betlemme, i suoi compagni sul Tabor, l’intera umanità sul Calvario dove erano calate le tenebre al momento della morte sulla croce.
Gesù inizia il suo cammino terreno custodito da Maria e Giuseppe, si ritrova alla fine della sua esperienza terrena custodito fra due ladroni, simbolo della nostra fragilità umana. Un’umanità chiamata ogni giorno a fare un salto nella Fede e in questo può invocare l’aiuto di San Giuseppe che, per la fedeltà a Maria e il silenzio ha meritato l’appellativo di uomo giusto. Un invito a porci nel buio di questo nostro tempo con umiltà a scorgere quella luce che illumina negli ammalati, nei poveri...
Gesù accanto a Giuseppe nell’ora del trapasso alla soglia dell’eternità rappresenta, sotto il profilo umano, un gesto di solidarietà umana e di amore.
Noi alla luce di questi insegnamenti siamo chiamati a vivere in pienezza la nostra esistenza terrena, amando come loro. La famiglia di Nazareth e Giuseppe ha vissuto momenti di difficoltà nella vita come nel lavoro e sul loro esempio siamo invitati ad ascoltare la voce di Dio e a fidarci di Lui come ha fatto San Giuseppe.
Perfezionamento personale, sviluppo economico, avanzamento sociale conferiscono al lavoro una dignità unica. Eppure il lavoro non è solo fucina di virtù umane e cristiane individuali e sociali; esso è anche occasione di abbrutimento, di odio e di lotta. L'antico peccato, che ha incatenato la fatica al lavoro, esercita ancora la sua tirannia sul lavoro attraverso la sofferenza, l'oppressione, la rivolta, l'egoismo, l'ingordigia, lo sfruttamento, le divisioni, le contese. «L'uomo che mediante lo sviluppo industriale ha moltiplicato oltre ogni attesa i membri della società, li ha divisi in classi, e, come tutti sappiamo, ha fatto della società non una famiglia, ma un inevitabile campo di lotta, perciò sovente senza concordia, senza pace, senz'amore. I grandi valori del progresso, il pane, la libertà, la gioia di vivere, sono in perpetua contestazione, se il grande torrente di ricchezza, che scaturisce dal nuovo lavoro conquistatore e produttore, è confiscato da un duplice egoismo: quello che ripone nei beni temporali il solo e maggiore bene dell'uomo, anzi fa dell'uomo fine supremo a se stesso, errore ideologico, materialista; e quello che fa programma costitutivo della vita comunitaria la lotta radicale, esclusivista, fra le varie classi fra loro per il monopolio della ricchezza: errore sociale ed economico» (Paolo VI).
Il significato di san Giuseppe lavoratore
Potenti forze disgregatrici operano, dunque, nel campo del lavoro. Come nel campo del racconto evangelico, anche in questo il nemico ha seminato la sua zizzania. Come potrà il lavoro guarire da questo cancro progressivo e liberarsi dal veleno, che ne insidia la naturale finalità di essere fonte di sviluppo individuale e sociale?
Da molti secoli il grande riformatore san Benedetto ricorda all'umanità qual è l'antidoto che può salvare l'attività umana dal dissolvimento, che è proprio di tutte le realtà terrestri. In una brevissima formula, «ora et labora, prega e lavora», è compendiato il segreto, che garantisce al lavoro il suo valore e la sua nobiltà. Il lavoro esige la dimensione religiosa.
Cristo non ha redento solamente delle anime disincarnate, ma ha redento l'uomo nella sua totalità, anima e corpo. L'attività umana non è, dunque, esclusa dalla salvezza, perché Gesù è diventato solidale con noi in tutto: «Con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo. Ha lavorato con mani d'uomo, ha amato con cuore d'uomo, ha agito con volontà d'uomo, ha amato con cuore d'uomo. Nascendo da Maria Vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato».
Ebbene, nessuno tra gli uomini, dopo Maria, è stato tanto vicino alle mani, alla mente, alla volontà, al cuore di Gesù, quanto san Giuseppe. Come bene affermò Pio XII, san Giuseppe è stato colui nella cui vita è maggiormente penetrato lo spirito del Vangelo. Se questo spirito, infatti, affluisce dal cuore dell'Uomo-Dio in tutti gli uomini, «è pur certo che nessun lavoratore ne fu mai tanto perfettamente e profondamente penetrato quanto il Padre putativo di Gesù, che visse con Lui nella più stretta intimità e comunanza di famiglia e di lavoro». Di qui l'invito permanente dello stesso Pontefice rivolto ai lavoratori: «Se voi volete essere vicini a Cristo, Ite ad Joseph (Gen 41, 55), Andate da san Giuseppe! L'umile artigiano di Nazaret non solo impersona per Dio e la Chiesa la dignità del lavoratore del braccio, ma è anche sempre il provvido custode vostro e delle vostre famiglie».
Questo umile artigiano di Nazaret, che nel nascondimento ha con il suo duro lavoro consentito a Gesù «di crescere robusto e pieno di sapienza» (cfr. Lc 2, 40), continua ancora a stagliarsi gigante nella storia dell'umanità per insegnare a tutti che non è la differenza dell'attività a definire la grandezza dell'uomo, ma, al contrario, tocca all'uomo rendere grande ciò che fa, attraverso la nobiltà dell'animo e l'esercizio di autentiche virtù.