Oggi si distingue tra la dimensione spirituale e quella religiosa, anche in considerazione del pluralismo culturale, etico e religioso che caratterizza il nostro tempo.
Si può intendere come spiritualità l’aspirazione dell’uomo a trovare un senso alla sua esistenza, l’insieme delle convinzioni e dei valori che lo guidano e in base ai quali organizza la sua vita, il bisogno di superarsi e di tendere alla trascendenza.
Questa dimensione spirituale è anteriore all’adesione a un credo religioso o all’appartenenza a una Chiesa; essa assume la connotazione più specifica di religiosità quando trova risposta in una fede e nella relazione con Dio e si esprime attraverso un particolare sistema di credenze, simboli e riti.
La spiritualità appartiene a ognuno di noi per il solo fatto di esistere, e concerne il rapporto con i valori che trascendono l’esistenza stessa. Aderire a un credo religioso può essere un modo di vivere la propria spiritualità. Secondo Victor Frankl, la dimensione spirituale, accanto a quella fisica e psichica, «è una nota caratteristica dell’uomo – anzi, si potrebbe dire, la nota più caratteristica, la più umana che possa esistere».
Tenendo presente questa distinzione, risulta evidente che la persona malata, disabile o anziana sperimenta un livello di sofferenza che non è puramente quella fisica, né solo psicologica o emotiva, e che si esprime in una serie di bisogni spirituali che non si concretizzano necessariamente in una domanda religiosa. Ecco un parziale elenco della varietà di bisogni spirituali secondo le diverse aree della persona umana: l’area del rapporto con se stessi (come il senso della propria identità, il bisogno di autostima); il rapporto con gli altri (il desiderio di coltivare i legami affettivi, il senso di appartenenza, il bisogno di solidarietà, il bisogno di sentirsi accettati, di sentirsi utili); il rapporto con il cosmo, la storia (il contatto con la natura, il senso della storia, il bisogno di ricordare e di raccontarsi); la dimensione trascendente, il rapporto con il divino (avere degli ideali, nutrire delle speranze, esprimere la propria fede religiosa); il senso dell’esistenza come esigenza di dare un significato “globale” alla propria vita, il senso della sofferenza, il bisogno di riconciliarsi col proprio passato e con gli altri, le domande sulla morte e sul “dopo”.
Alla ricerca di senso
Fra i bisogni spirituali di chi sperimenta la sofferenza di una malattia grave, o ancor più dell’avvicinarsi della morte, ci sono dunque le domande di senso. Perché proprio a me? Cosa ho fatto di male per meritarmi tutto questo? Come si concilia tutto quanto ci hanno insegnato su Dio che è buono, se poi permette - o addirittura manda!- il male? Che significato può avere questa sofferenza per la mia vita? Che lezione ricavarne?
Domande che si fanno più acute quando si è confrontati con la prospettiva realistica della morte, e che possono assumere il carattere di interrogativo sul senso stesso della vita e di bilancio dell’intera esistenza. Oltre che su quello che ci sarà “dopo”.
Il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche ha scritto: «Chi ha un perché per vivere, può sopportare quasi qualsiasi come». La domanda di cura e di accompagnamento non viene pienamente esaudita dalla sola prestazione tecnica. Contiene in sé - più spesso implicitamente - anche la domanda sul senso del soffrire e del morire, e in definitiva sul senso della vita, della propria identità personale, la complessità dell’esperienza “umana” del soffrire. L’uomo sofferente chiede non solo la guarigione, ma anche un senso come significato e direzione del vivere e del soffrire e, infine, della morte che si avvicina.
Di fronte all’enigma della condizione umana segnata dalla sofferenza e dalla morte (pensiamo allo scandalo della sofferenza degli innocenti, come i bambini, o al dramma delle grandi catastrofi collettive, dovute ai conflitti o a gravi calamità naturali), l’uomo di ogni tempo e di ogni cultura ha tentato di trovare delle risposte che ne alleviassero la drammaticità e il senso di assurdo. Nella ricerca di un perché e di un significato, però, constatiamo che spesso la ragione si scontra con l’incomprensione e qualche volta con l’assurdo.
Scrive Marie de Hennezel, riflettendo sulla sua esperienza accanto a tanti malati terminali: «Smettere di chiedersi il “perché?”, non c’è niente da capire. Interrogarsi piuttosto su “a quale scopo?”, sulla finalità della sofferenza, sembra in effetti l’unico modo di darle un senso. A che scopo? Verso quali strade, verso quale esperienza di vita, verso quale coscienza mi portano la malattia o la sofferenza? Posso farne un’occasione di luce e di amore?».
Questa ricerca di senso può favorire la guarigione interiore e la riconciliazione con i propri limiti, con se stessi e con gli altri e infine, per chi è credente, anche con Dio.