Proseguiamo la nostra riflessione sulle dieci parole che ci rendono liberi. Il settimo comandamento dice: “non rubare”, e con questo ognuno di noi si sente esentato da ogni colpa. Infatti nessuno di noi è mai andato a rapinare una banca, o a borseggiare le vecchiette sull’autobus. Ma è evidente che il comandamento, o, meglio, la parola, ha un significato ben più pregnante.
Innanzitutto, vorrei osservare che se ne parla abbastanza poco. Di fatto, mentre il sesto comandamento, quello sulla castità, è sentito come veramente obbligante, una sorta di spauracchio dal quale dipende o no l’essere in stato di grazia, sul settimo si sorvola abbastanza, come se al Signore non fossero gradite le virtù “pubbliche”, ma solo quelle “private”.
A conclusione di queste riflessioni sul sesto comandamento, possiamo quindi dire alcune cose molto semplici. Innanzi tutto, che la sessualità è un impulso molto potente in ognuno, e che quindi deve essere ben vissuto, perché questa forza deve essere ben incanalata: non si tratta quindi di negarla o reprimerla – si farebbe solo peggio – ma di integrarla in un contesto di vita pienamente umana, di relazioni affettive e profonde e non false o illusorie. Insomma, il sesto comandamento ci invita ad imparare ad amare, perché, nonostante il fatto che tutti ne siamo “naturalmente” capaci, questo non significa che ci riesca sempre bene. In fondo, dobbiamo dire che anche l'amore, come qualunque altra realtà umana, ha bisogno di essere redento: ed è questo del resto il senso profondo del sacramento del matrimonio, che è volto a liberare la coppia da ambiguità o distorsioni che sempre possono sorgere in questa relazione.
Abbiamo già accennato al senso profondo del sesto comandamento, che non è quello di reprimere, ma di liberare la nostra affettività e la nostra stessa sessualità. Infatti è evidente che queste pulsioni possono essere disordinate e essere vissute in modo distruttivo, cioè non umano, ma semplicemente animale: vissute così, non sono nemmeno appaganti, proprio perché l'amore non è una semplice meccanica di organi, ma un accordo di anime, o, se preferite, di cuori. Ognuno di noi, sposato o no, laico o sacerdote, è segnato dal bisogno profondo di amare ed essere amato: se si pensasse che la castità consista nel sopprimere questo, si sarebbe completamente fuori strada. In questo senso, come accennavamo, il sesto comandamento non ci insegna a reprimere, ma ad integrare e a vivere più pienamente il mondo dei nostri affetti, perché è invece possibile viverli malamente o “di meno”.
Siamo arrivati così alla trattazione del sesto comandamento, di fronte al quale tutti, fin dall'adolescenza, ci sentiamo un po' impauriti. Ed è un peccato essere impauriti, perché questo comandamento, come del resto tutti gli altri, non vuole essere uno spauracchio o imporre dei pesi che non possiamo portare, ma piuttosto aprire la nostra mente ed il nostro cuore ad una dimensione importante della nostra vita, qui l'affettività e la sessualità, pulsioni interiori profondissime in ciascuno di noi. Il senso quindi del comandamento non è: “stai attento a quel che fai, perché qui c'è sempre e solo peccato mortale”, ma piuttosto “impara a vivere da vero uomo”, cioè non da angelo asessuato, quale non siamo, ma nemmeno da bestia, quali non siamo, ma potremmo diventare.
Proseguiamo la nostra riflessione sulla quinta parola del Decalogo: non uccidere. Abbiamo già visto che “uccidere” qui dice la relazione con l’altro resa spezzata o deformata dalla violenza. In estrema sintesi, potremmo dire che “uccidere” si verifica tutte le volte che un altro viene cancellato dalla nostra vita. Ancora, abbiamo osservato che la fraternità che il comandamento ci impegna a vivere non è un rapporto a due, io e il mio amico, ma un rapporto a tre: io, l’altro e Colui che ci ha posti l’uno accanto all’altro. In questo senso, per risanare le ferite nelle nostre relazioni interpersonali dobbiamo guardare a questo terzo soggetto, Iddio, che ha amato entrambi per primo condonando a ognuno ogni debito: possiamo quindi accoglierci gli uni gli altri, come Lui ci ha accolto.
Interminabile, luminosa e intensa è stata la domenica di settembre che ha visto papa Francesco pellegrino a Cagliari. Erano circa 400mila persone arrivate da tutta la Sardegna per salutare e ascoltare le parole di papa Francesco che ha voluto onorare il santuario mariano di Bonaria legato alla capitale argentina Buenos Aires, eco della «buona-aria» portata dai navigatori sardi nei secoli passati.
Nella solennità della Trasfigurazione di trentacinque anni fa moriva Paolo VI dopo quindici anni di pontificato. Una stagione della storia della Chiesa assai complessa. Il Concilio ecumenico Vaticano II aveva aperto una diga di acque feconde. Giovanni XXIII era stato incaricato dallo Spirito Santo a una rinnovata incarnazione dello spirito di fede in un tessuto logoro. La Chiesa come istituzione era forte nella sua organizzazione, ma dopo la II Guerra mondiale aveva smarrito la sintonia con il respiro della gente; la Parola di Cristo non mordeva più la carne della storia umana, aveva perso il ruolo di bussola nell’orientamento del vivere quotidiano. La «strage inutile» della guerra, i campi di concentramento e di sterminio, il genocidio degli ebrei, degli zingari, degli handicappati e anche dei cristiani aveva acceso negli animi una domanda di fuoco: «Ma Dio dov’è?».
Nella memoria liturgica dei santi Gioacchino e Anna, papa Francesco ha fatto un grande elogio dei nonni di Gesù e ha indicato nei nonni un patrimonio di sapienza da non disperdere. «Quanto sono importanti nella vita della famiglia per comunicare quel patrimonio di umanità e di fede che è essenziale per ogni società! E come è importante l’incontro, il dialogo tra le generazioni, soprattutto all’interno della famiglia!».
Su un tema assai importante che sembra così lontano nella vita di un bambino, in questo ipotetico dialogo il nonno vuol indicare che i passi prima dell’ultimo passo sono assai importanti e conducono alla sorgente della gioia di vivere.
La luce della fede è il dono portato da Gesù. Lui è il dono; Lui è la luce. Inizia così la prima enciclica di papa Francesco che è anche – e non solo metaforicamente – l’ultima di Papa Benedetto.
Il nostro mondo, come quello pagano del tempo di Gesù, è “affamato di luce” e nessun altro sole è capace di “arrivare fino all’ombra della morte”, quando ogni uomo si chiude ad ogni luce. Invece a Marta, che piange la morte del fratello Lazzaro, Gesù dice: “Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?”. Chi crede, vede. Tante sono le possibili obiezioni, oggi come ieri, nella presunzione di uomini che si sentono adulti e inappagati, al punto di paragonare la fede al buio, o al massimo relegandola nell’angolo fuori dalla ragione, pur sempre un salto nel buio, appunto.
Il primo Papa gesuita nella storia arriva proprio durante la celebrazione del II centenario della ricostituzione della Compagnia di Gesù dopo la soppressione. Mi auguro che questo dono che lo Spirito ha fatto a tutta la Chiesa, sia anche un’occasione per noi Gesuiti di riscoprire con rinnovato impegno che la fedeltà alla missione della Chiesa e al Romano Pontefice sono le radici vitali della nostra vocazione e la ragione d’essere per cui Ignazio volle la sua “minima Compagnia”.