La recente esplosione del fenomeno Fake News crea interesse, curiosità, sospetto... Il termine è usato e abusato quotidianamente nell’informazione, in particolare in campo politico. L’attraente espressione inglese si applica alla riedizione “ultramoderna” di un antico inganno: le notizie false, armi della disinformazione.
Per coincidenza in agosto, mentre cercavo di chiarirmi le idee sul problema, ho visitato una mostra nel museo diocesano della cattedrale di Pamplona, in Spagna. L’esposizione, chiamata Occidens, utilizzando le svariate opere in possesso del museo, vuole evidenziare l’importanza della cultura e dei valori cristiani per l’edificazione della civiltà occidentale nella storia. Sul finire del percorso espositivo una sala proponeva all’Occidente moderno un ultimo bivio: quello prospettato dall’avanzata del relativismo.
La prima domanda a Gennari è stata sul «Partito della fermezza» che è stato.
«È vero che Moro venne ucciso per mettere fine al suo disegno politico che riguardava anche i suoi rapporti con gli Stati Uniti, con l’Unione Sovietica di allora e anche con Israele. Secondo il mio parere il figlio di Moro, Giovanni, ha torto a prendersela con il cosiddetto “partito della fermezza”, che in qualche misura non c’è mai stato. Coloro che non hanno consentito un dialogo paritario con le Br, hanno sperato fino in fondo che lo statista Dc si salvasse. Mettere contro la vita di Moro, Paolo VI ed Enrico Berlinguer è un’ingiustizia storica di cui sono stato testimone personale. Furono fatti tutti gli sforzi possibili soprattutto da Papa Montini e della Santa Sede, attraverso Mons Cesare Curioni intermediario nei confronti dei capi delle Br di allora. Renato Curcio e Alberto Franceschini, fondatori ed esponenti di spicco delle Brigate Rosse, con Margherita Cagol, erano finiti in prigione. […] Mario Moretti da quel momento divenne il capo delle Br, nonché l’ideatore della “strategia della tensione” e del rapimento Moro. Non è vero che “il partito della fermezza” rifiutò di salvare Moro, rifiutò l’idea che si potesse trattare su un piano di parità con le Br, promuovendo un gruppo di terroristi a interlocutore politico delle Istituzioni».
Lei venne ascoltato dalla Commissione d‘inchiesta sul rapimento e la morte di Aldo Moro, perché nel periodo del sequestro dello statista democristiano era assistente spirituale di Benigno Zaccagnini, allora segretario della Dc, e aveva contatti con diversi esponenti politici. Ce ne vuole parlare?
«Finalmente, dopo 39 anni, nell’ottobre del 2017, sono stato convocato dalla Commissione, eppure avevo già scritto nel 2011 un memoriale pubblicato in esclusiva in tre puntate su Affaritaliani.it. La sera dopo il rapimento mi chiamò la cognata di Benigno Zaccagnini, Ettorina Brigante, sorella di sua moglie Anna, la quale abitava in via della Camilluccia, perché Zaccagnini (il quale quando veniva a Roma era ospite del cognato, il dottor Elio Brigante) aveva bisogno di un sostegno spirituale. Trascorsi tantissime notti di quei 54 giorni a pregare con Benigno e la famiglia Brigante. Allora potei constatare le falle nel sistema di sicurezza: la sera dopo il rapimento Moro, arrivai fino alla portineria del palazzo dove stava Zaccagnini, segretario Dc, senza aver incontrato qualcuno che mi fermasse, mi controllasse, ecc. Eppure dicevano che allora Roma era sotto controllo».
Gennari, lei era molto amico di Mons Cesare Curioni, allora storico cappellano a San Vittore e poi ispettore generale dei cappellani di tutte le carceri italiane, il quale portò avanti l’iniziativa di raccogliere 10 miliardi dell’epoca per offrirli come riscatto alle Brigate Rosse, in cambio della vita di Aldo Moro. È vero che l’iniziativa partì direttamente da Paolo VI?
«Certamente, avvenne tutto attraverso Curioni, il quale parlò anche con Curcio e Franceschini che si trovavano in prigione. Questi brigatisti all’interno del carcere dicevano a tutti “Lo abbiamo in mano”, invece apertamente a Mons Curioni dissero “Non ne sappiamo nulla”. Nel numero di aprile del 1978 di “Civiltà Cattolica” c’era scritto che, pur senza un riconoscimento, bisognava fare tutto il possibile per la salvezza di Aldo Moro. Paolo VI aveva preso un impegno personale, erano stati raccolti 10 miliardi di lire per un eventuale riscatto. La mattina del 9 maggio era attesa una telefonata liberatoria che avrebbe significato l’accettazione dello scambio, liberare Moro in cambio della scarcerazione della brigatista Paola Besuschio che era in prigione. Fanfani aveva l’incarico nella direzione della Dc di annunciare che si era trovata una mediazione. Invece, proprio quella mattina, arrivò come una “doccia fredda” la tragica notizia del ritrovamento del corpo di Aldo Moro».
«Io scrivo a voi, uomini delle Brigate Rosse: restituite alla libertà, alla sua famiglia, alla vita civile l’onorevole Aldo Moro. Io non vi conosco, e non ho modo d’avere alcun contatto con voi. Per questo vi scrivo pubblicamente, profittando del margine di tempo, che rimane alla scadenza della minaccia di morte, che voi avete annunciata contro di lui». Queste sono le parole che il 22 aprile 1978 Papa Montini scrisse di suo pugno nella lettera-appello alle Brigate rosse che da più di un mese tenevano prigioniero il Presidente della Dc.
«Sì, e non è un caso se Montini muore pochi mesi dopo quel tragico 9 maggio, il 6 agosto. Moro e Montini si conoscevano fin dagli anni Trenta. Nel 1939 Montini, assistente generale della Fuci (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), aveva voluto come presidente dell’associazione il giovane Aldo Moro. L’amicizia tra Moro e Montini era quindi di lunga data e al di sopra di ogni sospetto. Tornando ai giorni del sequestro, durante la notte Papa Montini chiamò al telefono Curioni, che allora si trovava ad Asso in provincia di Como per un periodo di ferie, e insieme concepirono l’appello. Fin dalla prima stesura risultava quella frase “senza alcuna condizione”, sulla quale si è fermata la curiosità lungo tutti questi anni. Si trattava non solo di salvare la vita di un uomo, giacché Paolo VI aveva molto chiaro il fatto che il progetto di politica interna ed estera di Moro era vicino alle prospettive della sua “Ostpolitik”. È arrivato il momento di parlare del “Compromesso storico” cioè la tendenza al riavvicinamento tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano, osservata nel nostro Paese negli anni Settanta. Il segretario comunista Enrico Berlinguer e il presidente democristiano Aldo Moro, furono i principali fautori dell’opera di riavvicinamento tra le rispettive (e opposte) forze politiche, del Partito Comunista Italiano e la Democrazia Cristiana. Il loro disegno si era delineato già dal 1973. Il rapimento e l’assassinio di Moro fermarono tutto. Credo che l’unico che abbia chiara tutta la strategia sia Mario Moretti, basterebbe cominciare da quel mancato appuntamento a Pinerolo, dove lui non si fece trovare».
Quarant’anni dopo, qual è il pezzo di verità ancora da cercare oppure “l’Affaire Moro” resta un problema insoluto che riguarda il nostro Paese?
«Quel pezzo di verità ancora da cercare sarà difficile da rintracciare. L’”Affaire Moro” porta a qualche strategia in cui spuntano i servizi segreti italiani, israeliani, statunitensi e anche palestinesi con i quali Mario Moretti, attraverso anche personaggi appartenenti alle forze dell’ordine che fecero carriera, dal 1974 in poi, ha avuto rapporti. Se l’”Affaire Moro”, presenta ancora oggi molti lati oscuri, restando un mistero, resta invece chiarissima la strategia di chi ha voluto che quel progetto, che avrebbe cambiato il volto della politica italiana, non si realizzasse. Si sarebbe dimostrato che era possibile un cambiamento, chiamiamolo così, verso un socialismo dal volto umano, senza rivoluzione, senza sangue e senza armi. Il “Compromesso storico” era temuto dagli Stati Uniti, da Israele, ma era temuto anche dall’Urss. Basti pensare che il socialismo dal volto umano l’Urss l’aveva soffocato in Ungheria e Cecoslovacchia. Resta oscuro tutto l’intrico di corresponsabilità, di silenzi, segreti, falsificazione di documenti, che impedisce di arrivare alla verità sulla vicenda Moro».
Un’ultima domanda: in Italia per tanto tempo l’espressione “politico di professione” era diventata quasi un insulto, tanto è vero che oggi è motivo di vanto per i nuovi eletti in Parlamento non essere un politico. Nonostante ciò, molti italiani confessano di avere nostalgia di politici come Moro e i Berlinguer che di mestiere facevano politica. Lei cos ne pensa?
«Per fare politica occorre avere una reale esperienza e una preparazione specifica. Quindi non ci si può improvvisare dall’oggi al domani. La politica è anche capacità di leggere la realtà sociale, è coinvolgimento con i problemi della gente, non è soltanto fatta di rimborsi elettorali o di immunità parlamentari. Se penso a De Gasperi, Togliatti, Nenni, Pertini, Zaccagnini e allo stesso Andreotti, nel paese di Lilliput, Gulliver è un gigante».
Eminenza, secondo lei la Chiesa si sta riprendendo dalla crisi vocazionale?
Si, devo dire in primo luogo che a mio avviso non è vero che ci sia una generale carenza di vocazioni. Quando mi domandano su questo dico che è “a pelle di leopardo”: ci sono diocesi in cui le cose vanno bene e in altre meno bene. Per esempio nella diocesi di Cordoba in Spagna, la mia diocesi di origine, dopo la crisi post-conciliare il Seminario è stato chiuso per 12 anni, mentre adesso hanno tre seminari: minore, maggiore e missionario. L’anno scorso hanno ordinato 18 sacerdoti, adesso la media di età del clero oscilla intorno ai 40-45 anni; è rinata la diocesi, e così conosco altri nuovi seminari che erano chiusi e adesso si riaprono. è curioso perché dicono che avanza questo clima più che altro di secolarizzazione; io lo chiamo di paganizzazione nel vivere come se Dio non esistesse e viceversa. C’è una reazione nella mente del giovane, quando viene presentata la figura di Cristo così com’è. Cristo non invecchia mai. è per questo che attira fortemente i giovani, che tramite lui scoprono il cammino che porta verso la comprensione vera di Dio come Padre. Scoprono quella Verità piena con la maiuscola che Dio ha portato al mondo perché la bellezza della creazione, la pienezza di quella immensità di bellezza, di bontà e di giustizia rimane un ideale grande, sempre.
Eminenza, l’Anno della Fede che iniziamo in questi giorni, voluto dal Santo Padre Benedetto XVI, interroga le nostre comunità e la loro fedeltà al vangelo. Come si può nel mondo d’oggi, comunicare la gioia della fede, specie in un momento di crisi di valori.
Dobbiamo, innanzi tutto, recuperare la lucida consapevolezza che la fede non è una poltrona nella quale possiamo sederci comodamente una volta per sempre. Non, non è così! La fede è una strada da percorrere: ogni giorno dobbiamo metterci in cammino come un viandante e dobbiamo lottare per togliere gli spazi di incredulità e il tarlo della mediocrità che tutti ci portiamo dentro.
Una comunità cristiana più umile, una comunità cristiana desiderosa di crescere nella fedeltà al proprio Signore è già un bel segno di fronte al mondo.
Andrea Olivero è Presidente nazionale delle ACLI (Associazioni Cristiane Lavoratori) dopo avere maturato esperienze nel volontariato e nell’associazionismo cattolico. Attualmente presiede anche la Fai (Federazione Acli internazionali) ed è componente del Cda della Fondazione per il Sud, oltre a far parte dell’Osservatorio nazionale sull’associazionismo e dell'Osservatorio nazionale sulla famiglia. è membro inoltre del Forum del Progetto culturale della Cei ed ha acquisito una significativa competenza nei temi della solidarietà sociale, della tutela dei diritti, della riforma del welfare e l’educazione, nonché sulla cooperazione internazionale. Dall’11 dicembre 2008 è portavoce unico del Forum del terzo settore.
Conta centinaia di milioni di devoti al mondo. Sono milioni i bambini e le bambine che portano
il suo nome. È ben presente nel Vangelo,
nel presepio e nelle chiese, ma la sua vicenda umana e la sua rilevanza nella storia della salvezza sono poco conosciute.
Stiamo parlando di San Giuseppe, sposo di Maria e padre adottivo di Gesù. Riportiamo alcuni passaggi di un’intervista realizzata da Zenit
al professore don Salvatore Vitiello, coordinatore del Master in architettura, arti sacre
e liturgia dell’Università Europea di Roma
e del Pontificio Ateneo Regina Apostolorum
Ernesto Olivero ed il Sermig sono una sola cosa. L’opera da lui “pensata” nel 1964 resta tra le più grandi intuizioni profetiche ad oggi realizzate da un laico, che è sposato, padre di tre figli e conta sette nipoti. E’ nato nel 1940 a Mercato San Severino in provincia di Salerno. Dopo avere lavorato in varie industrie del torinese e poi in banca, nel 1991 rassegna le dimissioni. Nel 1964 fonda a Torino il Sermig, Servizio Missionario Giovani, insieme alla moglie Maria e ad un gruppo di giovani. Nel 1983 viene assegnato al Sermig in comodato dal Comune di Torino l’ex Arsenale Militare di Piazza Borgo Dora. Olivero, incoraggiato da Giorgio La Pira, sente che questo sarà il primo grande passo di una profezia di pace. Ne inizia la trasformazione con l’aiuto gratuito di migliaia di giovani, di volontari, di uomini e donne di buona volontà da ogni parte d’Italia. L’11 aprile 1984 è il Presidente della Repubblica Sandro Pertini ad inaugurare l’Arsenale della Pace.
Santa Teresina di Lisieux diceva che accanto agli ammalati bisogna stare allegri.
Forse in questo momento non abbiamo ancora questa possibilità, tuttavia chi è uscito dal ricovero ospedaliero a causa della pandemia ci accarezza l’anima di buonumore. Questo desiderio di allegrezza ci viene appagato dalla testimonianza di due vescovi che in queste settimane hanno lasciato il “lager” del coronavirus che li aveva portati a bussare alla porta dell’aldilà.
Milizie e guerriglia imperversano in Ciad, Repubblica Centrafricana, Sud Sudan, Mozambico. Armi e violenza non danno pace a popoli impoveriti. Le voci dei missionari italiani raccolte da Missio.
“Finalmente sembra che siamo in una fase di ripresa. Abbiamo riaperto le chiese e adesso dovremo impegnarci tutti quanti, e tutti insieme, per riprendere le nostre attività e i nostri spazi pastorali”.