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Mercoledì, 19 Dicembre 2012 10:09

Rilancio dell'artigianato come sfida culturale Featured

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Colloquio con Andrea Olivero, presidente delle Acli

di Anna Villani

Andrea Olivero è Presidente nazionale delle ACLI (Asso­ciazioni Cristiane Lavoratori) dopo avere maturato esperienze nel volontariato e nell’associazionismo cattolico. Attual­mente presiede anche la Fai (Federazione Acli internazionali) ed è componente del Cda della  Fondazione per il Sud, oltre a far parte dell’Osservatorio nazionale sull’associazionismo e dell'Osser­vatorio nazionale sulla famiglia. è membro inoltre del Forum del Progetto culturale della Cei ed ha acquisito una significativa competenza nei temi della solidarietà sociale, della tutela dei diritti, della riforma del welfare e l’educazione, nonché sulla cooperazione internazionale. Dall’11 dicembre 2008 è portavoce unico del  Forum del terzo settore.

Presidente Olivero, come spiegherebbe a chi non la conosce la realtà delle Acli?
«Le Acli sono una grande organizzazione formata da laici cristiani impegnati ogni giorno nella costruzione di un Paese più giusto. Attraverso una rete di circoli, associazioni, servizi e imprese, le Acli cercano di promuovere il lavoro e i lavoratori, di educare ed incoraggiare alla cittadinanza attiva, di difendere, aiutare e sostenere i cittadini, in particolare quanti si trovano in condizione di emarginazione o a rischio di esclusione sociale. I campi di intervento sono molteplici: il volontariato e la partecipazione democratica, l'impegno per la pace e la cooperazione internazionale, la promozione degli anziani e dei giovani, l'animazione culturale e sportiva, l'assistenza previdenziale e fiscale, la formazione professionale, il sostegno agli agricoltori, l'impegno con gli immigrati. La nostra azione, con tutti i nostri limiti, si ispira ai valori del Vangelo e alla Dottrina sociale della Chiesa».
Bella responsabilità parlare e preoccuparsi oggi di un tema così delicato come il "Lavoro" che è sempre meno e spesso mal retribuito specie fra le nuove generazioni.
«In un recente nostro convegno abbiamo lanciato una metafora, abbiamo parlato di lavoro "scomposto". E abbiamo fornito dei dati che rendono immediatamente evidente questo 'disordine', in questo caso una vera frattura: la differenza tra stipendio medio di un dirigente e la paga di un operaio è pari a 356 euro al giorno. Rispetto alla retribuzione di un “quadro”, un operaio prende in meno ogni giorno 127 euro. Rispetto a un impiegato, la differenza è di soli 22 euro. E poi le donne, che ricevono in media al giorno 27 euro in meno rispetto agli uomini. E' il sintomo di una situazione insostenibile. La fotografia di un lavoro che, soprattutto per quanto riguarda le nuove generazioni, fatica a ritrovare la sua dignità, il suo significato personale e sociale: tra precarizzazione dei percorsi lavorativi, moltiplicazione delle condizioni giuridico-contrattuali, perdita di valore dell’economia reale, immaterialità dei prodotti e dei capitali, individualizzazione dell’esperienza.  Ma, se si scompone il lavoro, abbiamo ammonito, è la persona che rischia la sua integrità. E’ la società che vede disfarsi la sua rete solidale e partecipativa. Un rischio che non è però un esito inevitabile. Benedetto XVI con la sua “Caritas in Veritate”, prima enciclica sociale del nuovo secolo, ha fornito all'umanità le chiavi interpretative per orientarsi nella tempesta e uscire dalla crisi. Ha parlato di “civilizzazione dell’economia”, a partire dai problemi del lavoro e dei lavoratori, l’asse valoriale e spirituale intorno al quale costruire una nuova visione di società, aperta e solidale».  
A quale impegno-progetto lavora attualmente?
«Stiamo lavorando a tante cose. Tre in particolare. La riforma del mercato del lavoro, con il superamento dell'ingiusto dualismo tra lavoratori garantiti e lavoratori precari, senza diritti. Noi proponiamo l'introduzione di un’unica disciplina dei contratti di lavoro, un contratto prevalente a tempo indeterminato per i lavoratori subordinati neoassunti. La riforma del welfare e degli ammortizzatori sociali, che assicuri a tutti i lavoratori non solo il sostegno in caso di disoccupazione ma anche il diritto alla formazione, diventata fondamentale nella società della conoscenza. Infine, sul versante dell'integrazione, il riconoscimento della cittadinanza italiana ai figli degli immigrati che nascono in Italia o che frequentano regolarmente le nostre scuole. Una proposta uscita con forza anche dalle ultime settimane sociali dei cattolici italiani, a Reggio Calabria».
La nostra rivista è a devozione di san Giuseppe, artigiano e protettore dei lavoratori. Lei che rapporto ha avuto ed ha tuttora con questa forte figura religiosa?
«Per noi delle Acli la figura di San Giuseppe è fondamentale in quanto costitutiva della nostra storia e della nostra identità. L'istituzione della festa liturgica di “S. Giuseppe Artigiano”, il primo maggio del 1955, fu in qualche modo un regalo di Papa Pio XII alle Acli per il decennale della loro fondazione, la volontà di dare un protettore ai lavoratori e un senso cristiano alla festa del lavoro. In piazza San Pietro, quel giorno, c'erano oltre 200mila "aclisti"».
Per svolgere al meglio le Sue responsabilità come Presidente, quali virtù vorrebbe avere del padre terreno di Gesù?
«Me ne vengono in mente almeno tre. Il senso di giustizia: Giuseppe che non ripudia Maria ma la giudica secondo la volontà di Dio; la capacità di ascolto e di lettura degli eventi: Giuseppe che sa quando partire e quando tornare; la sua operosità silenziosa: Giuseppe e il suo mestiere di falegname, che rende dignità con la sua figura al lavoro di ogni uomo».
La Pia Unione Transito di san Giuseppe che cura la rivista prega ogni giorno per gli agonizzanti nel mondo, anche per coloro che muoiono svolgendo il proprio lavoro e talvolta "a nero". Come si batte questa piaga?
«Il lavoro "nero" è uno scandalo che offende la dignità dell'uomo e del lavoratore, esponendolo a situazioni spesso di rischio ma soprattutto di mortificazione dei diritti. E' un danno per la società intera perché alimenta un'economia sommersa e spesso illegale che sottrae risorse all'economia sana. Spesso si dice, quasi a giustificazione, che è il disagio economico di un territorio a produrre lavoro nero. Ma è vero invece il contrario: è il lavoro nero, l'economia sommersa, che produce povertà e impedisce lo sviluppo. Bisogna allora assumersi la responsabilità di rispettare e di far rispettare le regole; dire basta alla cultura e alla pratica dell'illegalità; conoscere e riconoscere l'importanza del rispetto dei diritti e delle norme di sicurezza sul lavoro. Sul piano normativo ed economico, come Acli abbiamo avanzato la proposta di una certificazione di qualità dei prodotti connessa alla filiera di produzione. Una strada per contrastare in maniera radicale il fenomeno del lavoro nero: i prodotti che non garantiscono la trasparenza e la correttezza della filiera di produzione devono essere esclusi dal mercato».
Portate avanti o avete in mente iniziative a difesa ed a prevenzione della sicurezza dei lavoratori sul luogo di lavoro?
«La nostra azione è soprattutto di informazione e sensibilizzazione, portata avanti ogni giorno dagli operatori e i volontari del nostro Patronato Acli. Lo scorso anno abbiamo organizzato una grande iniziativa in circa 300 piazze italiane per parlare di legalità e sicurezza nel mondo del lavoro. C'è un libro molto bello che abbiamo realizzato, si intitola: "Bastava poco. Storie di vite invisibili". Raccoglie testimonianze di lavoratori infortunati e offre dei consigli e delle istruzioni su come prevenire gli incidenti e far valere i propri diritti».
San Giuseppe era artigiano, com'è la situazione degli artigiani oggi in Italia?
«Pur nelle difficoltà, il lavoro di artigiano ha saputo resistere meglio di altri alla crisi economica che stiamo vivendo negli ultimi anni. Questo perché si tratta di un lavoro fortemente ancorato a delle competenze specifiche e ai bisogni reali delle persone e dei territori. Addirittura si manifesta in questo settore un paradosso incredibile: che ci sono posti di lavoro a disposizione ma mancano i lavoratori, le figure professionali in grado di svolgere quei mestieri: sarti, cuochi, falegnami e così via. In un contesto di grave disoccupazione come quello che stiamo vivendo, soprattutto giovanile, si tratta di una contraddizione inaccettabile. Per questo abbiamo avanzato come Acli, insieme ad altri, l'esigenza di un piano nazionale per il rilancio dei mestieri e della formazione professionale. Sul piano politico ed economico, occorre rafforzare l’istruzione tecnica e la formazione professionale, che possono essere il vero volano per sconfiggere la piaga della disoccupazione giovanile. Agire quindi sugli incentivi, credito d’imposta e rilancio dell’apprendistato. Ma la sfida è innanzitutto culturale ed educativa. Il lavoro artigiano, il lavoro manuale, è stato vittima di un pregiudizio ideologico, ingiustamente disdegnato nei percorsi educativi e formativi dei ragazzi. Bisogna superare questo pregiudizio e tornare a riconoscere al lavoro artigiano tutta la sua dignità. La figura di San Giuseppe ci offre anche in questo caso un modello attualissimo e un insegnamento luminoso».
Cosa direbbe oggi ai tanti genitori che soffrono per i loro figli che non riescono ad inserirsi nel mondo del lavoro?
«Direi loro di non perdere la speranza e di non farla perdere ai loro figli. Di sostenerli non solo economicamente, come naturalmente già fanno, tra mille difficoltà, ma anche moralmente: continuando a credere nelle virtù dell'impegno, dello studio, del lavoro. Senza arrendersi alla rassegnazione e al cinismo».

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