Il Papa Francesco ha una grande devozione per San Giuseppe. Fuori la sua stanza nella Casa Santa Marta, si trova una statua del santo ai cui piedi il Papa lascia carte con richieste di grazie scritti da lui stesso. Quando i messaggi diventano troppi, la statua si alza un po’. La devozione a San Giuseppe accompagna il Papa da quando era giovane. La parrocchia di Flores a Buenos Aires, il quartiere dove è nato e cresciuto Jorge Mario Bergoglio, è dedicata a San Giuseppe.
Lo scandalo della povertà, provocato da Francesco d’Assisi, ha avuto una vasta eco nella Chiesa dal tredicesimo secolo e ha trascinato schiere di giovani al seguito del Poverello al cui fascino non è stato indifferente Dante Alighieri che dedica un canto a Madonna Povertà: Oh ignota ricchezza, oh ben ferace! Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro dietro a lo sposo, sì la sposa piace (Paradiso XI, 82).
Ma non a tutti piacque... e Dante ha parole dure per chi di nova vivanda è fatto ghiotto. Il voto di povertà come lo intendevano Francesco e Chiara d’Assisi non era bene accetto ai giovani frati che manifestavano apertamente il loro dissenso: “Sappiamo che frate Francesco fa una nuova Regola e temiamo che la faccia così dura che non possiamo osservarla. La faccia per sé e non la faccia per noi”.
Lungo i secoli di storia ebraica il Signore poté contare sulla fedeltà, non sempre perseverante, del suo piccolo gregge, per preparare la venuta del Messia.
E quando questo gregge irrequieto si smarriva a contatto con l’idolatria seguendo i pagani che negavano il soprannaturale, Dio inviava i suoi profeti affinché, con le buone o con le cattive, lo riconducessero all’ovile, come recita il salmo 80: “Ascolta, popolo mio, ti voglio ammonire. Israele, se tu mi ascoltassi! Ma il mio popolo non ha ascoltato la mia voce. Israele non mi ha obbedito”. Dio però è fedele alla parola data. Gli ebrei attendevano il Messia potente in grado di liberarli da ogni schiavitù, non solo da quella del peccato...
Con l’annunzio notturno fatto dall’Angelo inizia (nel segreto di quattro mura) l’incomparabile storia di Giuseppe, sposo di Maria e “padre” di Gesù. Perché virgolettare la parola “padre” quando anche i due evangelisti parlando di Giuseppe dicono esplicitamente padre di Gesù? E così lo chiama anche Maria davanti ai maestri nel Tempio: “Tuo padre ed io angosciati ti cercavamo...”.
Lasciamo la risposta ai Padri della Chiesa che, spiegando questo difficile momento nella vita di Giuseppe, hanno ripetuto le parole dell’angelo: “A Dio niente è impossibile”. Lo sappiamo da sempre.
Ambrogio, il santo vescovo di Milano, parlando di Maria sposa e vergine madre, si domanda: “Perché non ha concepito per opera dello Spirito Santo prima del fidanzamento?”. E risponde: “Probabilmente perché non si dicesse in giro che aveva concepito dalla colpa”.
Dalle due genealogie elencate da Matteo e Luca sulla discendenza dal re Davide è escluso il nome di Gioacchino padre di Maria. Non si dava la genealogia del ramo femminile. Ciò non significa che non si debba tener conto della tradizione che considera anche Maria tra i discendenti di re Davide, anche se Luca e Matteo non lo dicono esplicitamente.
è forse questo particolare che ha avvicinato Giuseppe alla fanciulla di nome Maria. Per questa lontana parentela Giuseppe, all’uscita dalla sinagoga, si fermava a salutare Maria e i genitori di lei, Gioacchino e Anna, che ogni sabato accompagnavano la figlia alla Casa della preghiera. Qui Maria e la madre prendevano posto nella tribuna riservata alle donne, mentre il padre sedeva quasi sempre in prima fila nella grande sala, per ascoltare la lettura della Torah, preceduta dalla professione di fede all’unico Dio: Shemà, Israel, ascolta, Israele.
Il giovane Giuseppe era cresciuto in una buona famiglia guidata da suo padre Giacobbe. Il nome appare in fondo alla genealogia elencata dall’evangelista Matteo. E Dio lo arricchì delle sue grazie preparandolo a essere un degno sposo della Vergine Maria, la madre di Gesù: una pedagogia divina che operò attraverso le vicende umane. L’infanzia di Giuseppe è facile immaginarla attenendoci alle tradizioni tramandate oralmente in Israele, come si è detto, e poi raccolte e scritte nel Talmud, dalle cui pagine possiamo apprendere la graduale formazione religiosa di un giovane ben disposto ad assecondare l’opera della grazia.
Anzitutto Giuseppe, fin da quando riuscì a pronunciare la parola amen (così prescrive il Talmud) veniva condotto ogni sabato alla sinagoga dal padre Giacobbe. E qui imparò a leggere e a scrivere in lingua ebraica. Il dialetto aramaico lo apprese in famiglia e dai ragazzi con i quali condivideva il gioco.
Poi, al traguardo dei tredici anni che segnava il passaggio dalla fanciullezza alla maturità per ragazzi e ragazze ebraiche, Giuseppe poté muoversi autonomamente, aggregandosi anche ai pellegrini durante le visite al Tempio di Gerusalemme. I giovani potevano così frequentare le lezioni dei maestri della Legge nella sinagoga annessa al Tempio.
Gli esperti in sacra Scrittura - di solito farisei che si dedicavano non a tempo pieno all’istruzione dei giovani, - ascoltavano attentamente le domande che i giovani gli rivolgevano e le loro risposte; in tal modo colmavano le inevitabili lacune della loro formazione religiosa. I villaggi lontani da Gerusalemme raramente erano visitati da celebri rabbini.
Dal padre Giacobbe, di discendenza davidica, approdato a Nazareth dalla nativa Betlemme, Giuseppe imparò a memoria le quotidiane benedizioni che recitava nei tre momenti della giornata in compagnia del padre, durante la pausa di lavoro nella bottega. Le benedizioni venivano poi riposte nel tubo di metallo (il mezuzah) conservato in una apposita cassetta appesa alla parete, a imitazione di quanto avveniva il sabato nella sinagoga.
Nel salmo 39 si leggono le parole che ben si addicono al profilo spirituale di Giuseppe, fedele osservante della Legge di Mosè e attivo frequentatore della sinagoga di Nazareth: “Nel rotolo del Libro di me è scritto di compiere il tuo volere. Mio Dio, questo io desidero; la tua legge è nel profondo del mio cuore”.
Ogni buon israelita, quindi anche Giuseppe, tre volte al giorno recitava, e recita, la benedizioni (come il cristiano inizia e chiude la giornata con la preghiera). E il sabato, nella sinagoga, i riti religiosi si aprono appunto con una benedizione, lo Shemà Israel, la professione di fede nell’unico Dio: “Ascolta, Israele, l’Eterno è il nostro Dio, l’Eterno è uno: Shemà, Israel, Adonai elohenu, Adonai ehad... Questi precetti che ti do staranno nel tuo cuore. Li insegnerai ai tuoi figli, li mediterai in casa e lungo il viaggio, andando a dormire e alzandoti; te li legherai come un segno alla mano; li terrai come frontale tra gli occhi; li scriverai sugli stipiti e sulle porte della tua casa”. Ecco spiegato il significato di quell’astuccio che l’ebreo osservante della Legge, cioè giusto, (come dice l’evangelista) tiene legato sulla fronte. E Giuseppe, fin dall’età matura, a tredici anni, osservava queste prescrizioni, recitando le benedizioni quotidiane.
Il legno della Croce è stato il trono del Crocifisso, Re della gloria. è dunque il legno la materia privilegiata e prescelta da Dio fra tutti gli elementi naturali da lui creati, materia che ha "collaborato" alla nostra Redenzione. Mirabile e misterioso il piano di Dio! Il Padre celeste affida il suo Unigenito nella sua missione in terra ad un padre terreno quale suo vicario. Non sceglie un dottore della Legge, né un sacerdote del Tempio, né un leader politico, né uno scienziato, sceglie un artigiano del legno, un falegname, un carpentiere.
Gesù dunque, secondo la volontà divina, avrebbe dovuto acquisire per esperienza personale una conoscenza manuale, una certa familiarità con il legno. Di fatto il legno lo accompagnò da Betlemme al Calvario.
Perché solo a Maria e a Giuseppe è stato rivelato il segreto di Dio nascosto nell’insondabile profondità del mistero trinitario? “Siamo nell’ordine dell’Incarnazione – disse Pio XI nell’allocuzione del 19 marzo 1935 – cioè della personale unione di Dio con l’uomo. è in quest’attimo che egli detta la Parola che spiega tutto nei rapporti tra Giuseppe e i grandi profeti e gli apostoli. A Giuseppe spetta annunciare i prodigi dell’incarnazione a motivo del suo rapporto con i misteri della vita di Cristo”.
Ci aspettavamo una parola di Giuseppe che gettasse un po’ di luce sulle nostre perplessità, come ad esempio sul suo angoscioso dubbio davanti alla inspiegabile concezione verginale della fidanzata, o dopo il ritrovamento del dodicenne Gesù nel tempio di Gerusalemme. Un silenzio su cui grava il dramma. Per la seconda annunciazione dell’angelo a Giuseppe, perché quel lungo silenzio di Dio? Dio chiama chi vuole e come vuole, dice san Paolo nella lettera agli Efesini (4,11): “Egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri”.
A Betlemme Lucifero ha suonato la tromba della mobilitazione generale e ha attivato il piano predisposto per fronteggiare le calamità impreviste.
La notizia non è per lui un segreto: se la sanno anche i saggi della corte di Erode, tanto più lui con tutta la sua schiera di demoni.
L’era messianica è arrivata e a Betlemme bisogna ricercare il discendente di Davide.
Per qualche anno si dovranno tenere d’occhio tutti gli appartenenti a questa stirpe. E’ chiaro che a lei appartengono soprattutto coloro che godono di una posizione privilegiata nella società del tempo, cioè i ricchi e i potenti, che di solito si accompagnano nel cammino. Se ne contano alcune migliaia in Israele e tra gli emigrati nei paesi confinanti. Da parecchio tempo è stato promulgato un decreto che decide l’espulsione di quanti non hanno peso sociale per meritare l’attenzione.
Anche Giuseppe di Nazareth è tra costoro.
Tra i privilegi di San Giuseppe il più noto e celebrato è quello della sua pia morte: “Egli fra le braccia di Gesù e di Maria si consumò d’amore per il suo Dio”, leggiamo nell’elenco dei dodici privilegi concessi al nostro Santo. La conoscenza e diffusione del Transito, in Occidente, sono dovute al domenicano milanese Isidoro Isolano, che ne inserì la Storia nella sua Summa de donis St. Joseph, stampata a Pavia, nel 1522. Egli riferisce che i cattolici d’oriente usano celebrare con straordinaria venerazione la festa di san Giuseppe il venti luglio: “Nelle loro chiese suole essere letta una vita di san Giuseppe”, tradotta dall’ebraico in lingua latina nel 1340. Ne riporta, quindi, alcuni tratti, che qui trascrivo, limitandomi all’essenziale. Il racconto della vita di Giuseppe è attribuito allo stesso Gesù, che lo avrebbe confidato ai discepoli sul monte Oliveto.
“Senza l’Eucarestia, senza la Domenica, non possiamo vivere”. Così affermavano i santi cristiani degli inizi. Volevano forse dire che senza l’Eucarestia non si impara e non si vive la vera vita e soprattutto la vita di coppia, di famiglia. La Santa Messa, guardandola nella sua struttura, è una grande scuola di vita di famiglia. Certo non è stata fatta così per questo, ma, andandoci dentro con attenzione coniugale e famigliare, ci accorgiamo che nella Celebrazione, ogni momento parla e comunica alti insegnamenti di vita famigliare in tutti i sensi. Perché, in fondo, l’Eucarestia è il Sacramento dell’Amore e nella Santa Messa, non per caso, si celebra il matrimonio e ci si promette fedeltà per sempre, secondo la volontà di Dio. Proviamo a camminarci dentro insieme.
Dopo Maria, Madre di Dio, non c’è nessun santo che occupi tanto spazio nel magistero pontificio quanto san Giuseppe, suo castissimo sposo. E tuttavia, all’ombra di così grande “Sposa”, san Giuseppe passa talmente inavvertito, che qualcuno si meraviglierà scoprendo questa sua marcata presenza soprattutto in un papa notoriamente “mariano” come Giovanni Paolo II. Ogni qual volta si pensa a lui viene in mente, infatti, la sua singolare devozione verso la Madre di Dio, espressa senza equivoci nel suo stemma pontificio con la grande lettera “M” (Maria) e con la scritta “Totus tuus” (Tutto tuo).
Nei suoi viaggi apostolici era normale che fosse inclusa una visita ad un santuario mariano, espressione dei suoi sentimenti filiali, ma anche del riconoscimento del “ruolo materno” di Maria verso la Chiesa. Ma sappiamo anche quanto Giovanni Paolo II, da sempre interessato all’uomo, ai suoi valori e compiti, tenesse in alta considerazione il “ruolo maschile” nel Vangelo e nella Chiesa, e questo partendo proprio dalla considerazione della figura di san Giuseppe, come egli stesso afferma, ricordando le sue soste nelle chiese a lui dedicate sia a Wadowice che a Cracovia, nelle quali amava spesso soffermarsi in preghiera. “La figura di san Giuseppe fornisce speciali spunti e abbondante materiale per queste riflessioni”, in particolare sul ruolo prettamente maschile, quello protettivo, paterno, che “sembra non soltanto primario ma anche essenziale rispetto a qualsiasi altra sua attività all’esterno, sociale o organizzata”.