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Giovedì, 30 Gennaio 2014 15:18

Giuseppe, Francesco e madonna povertà Featured

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I poveri interrogano la Chiesa

di Mario Sgarbossa

Lo scandalo della povertà, provocato da Francesco d’Assisi, ha avuto una vasta eco nella Chiesa dal tredicesimo secolo e ha trascinato schiere di giovani al seguito del Poverello al cui fascino non è stato indifferente Dante Alighieri che dedica un canto a Madonna Povertà: Oh ignota ricchezza, oh ben ferace! Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro dietro a lo sposo, sì la sposa piace (Paradiso XI, 82).

Ma non a tutti piacque... e Dante ha parole dure per chi di nova vivanda è fatto ghiotto. Il voto di povertà come lo intendevano Francesco e Chiara d’Assisi non era bene accetto ai giovani frati che manifestavano apertamente il loro dissenso: “Sappiamo che frate Francesco fa una nuova Regola e temiamo che la faccia così dura che non possiamo osservarla. La faccia per sé e non la faccia per noi”.

Giuseppe di Nazareth

L’artigiano Giuseppe, e con lui Maria e Gesù, ci hanno dato un chiaro esempio di umiltà e di parsimonia, se riflettiamo sul racconto di Matteo e di Luca e sulla santa Casa, trapiantata prodigiosamente a Loreto, che si presenta ai pellegrini spoglia e povera come le abitazioni delle favelas brasiliane.

Quelle quattro mura all’origine erano a ridosso di una grotta (come si vede nell’illustrazione) adibita a stanza da letto. Una tendina divideva lo spazio ristretto della grotta riservato a Gesù da quello di Giuseppe e di Maria. Al loro posto noi ci saremmo sentiti come chiocciole senza guscio.

Qui il fanciullo Gesù celò il mistero del Dio fatto uomo vivendo per oltre trent’anni le immaginabili condizioni di vita sobria, le stesse che dovette sperimentare Giuseppe in un paese di cinquecento abitanti (oggi Nazareth ne conta oltre cinquanta mila), dunque con pochi clienti che si affacciavano alla sua bottega di falegname - poco distante dalla casa si Maria - per parsimoniosi ordinativi. Ma quanta ricchezza tra le pareti di quella povera dimora! Qui Gesù cresceva in sapienza e in grazia alla scuola di Giuseppe più che alla scuola del villaggio, chiamata casa del libro (beth ha sefer).

 

“Beati i poveri”: una teologia della povertà.

Alla scuola di Giuseppe, falegname, Gesù apprese lo stesso dignitoso mestiere, che per tradizione è nobile al pari di ogni altro lavoro manuale, come insegnavano i maestri della legge (rabbi): “Chi guadagna il pane col lavoro delle proprie mani è più grande di chi si limita a raccogliersi pigramente nella me­di­­ta­zione e non fa nient’altro... L’artigiano dedito al proprio mestiere non ha bisogno di alzarsi in piedi e scoprirsi il capo davanti al più grande dottore della Legge”. E’ probabile che tali parole ascoltate dalla voce del rabbino a commento della Torah nella sinagoga, Giuseppe le abbia ripetute al giovane Gesù.

Il Redentore ci ha insegnato la preghiera del Padre Nostro, al quale chiediamo semplicemente il pane quotidiano, guadagnato col sudore delle fronte, come sperimentò lui stesso nella bottega del padre putativo. Il lavoro non è soltanto una necessità della condizione umana per debellare la povertà, un nome che evoca disagi, sofferenze e paure; ma Francesco d’Assisi ha abbellito lo stesso nome di povertà ornandolo col diadema di Madonna.

Così San Giuseppe ha anticipato il modello benedettino dell’ora et labora, prega e lavora, elevando a dignità di preghiera il lavoro, quello che lascia i calli nelle mani, e san Francesco ha collocato in prima fila i poveri, prendendo in parola Gesù quando dice beati i poveri, e si è spogliato di ogni bene materiale, compreso il vestito. A sua volta san Bonaventura, francescano doc, primo biografo di Francesco con la Legenda major, ha addirittura fatto l’Apologia dei Poveri introducendo nell’ambito della Teologia, un trattato su questo tema che non figura ancora nei testi accademici.

Ma Giuseppe e Francesco, con l’esempio della loro vita, ci hanno chiarito il senso pieno di questa beatitudin, sine glossa, senza tanti commenti, direbbe il Poverello di Assisi. Li farà più tardi l’autore dell’Apologia dei Poveri, ponendosi come moderatore tra rigoristi e moderati, con una salomonica sentenza. La pratica della povertà non è rinuncia totale dei beni; è sufficiente il distacco dal possesso di tali beni. Un religioso che emette il voto di povertà come ogni altro buon cristiano con questo spirituale distacco partecipa a questa beatitudine.

Agli uomini della società mercantile al tempo di Francesco era difficile parlare di tale distacco. Oggi è più facile far capire il senso profondo della povertà volontaria non solo ai religiosi, ma anche ai buoni cristiani del nostro tempo.

In che maniera si deve essere poveri di spirito senza doversi spogliare di tutti i beni materiali? Ce lo spiega il filosofo Henry D. Thoreau: “Un uomo è ricco in proporzione delle cose di cui riesce a farne a meno”. Vallo a far capire agli economisti che spingono al folle consumo dei beni per mettere in moto la stessa economia!

Con parole “alla portata dell’umana debolezza”, parola di san Bonaventura, lo va ripetendo anche Papa Francesco alle folle che gremiscono tutte le settimane Piazza San Pietro, quando afferma di provare dolore al vedere un prete alla guida di un’auto di lusso.

Con parole intonate appunto alle possibilità del suo tempo, riferendosi all’esempio lasciato ai religiosi da frate Francesco, Bonaventura è altrettanto chiaro quando dice ai suoi frati e alla gente che ascoltava o leggeva i suoi libri di ascetica: “Seguite noi fin dove noi seguiamo Cristo”. Gesù pone una condizione a chi vuole seguirlo: rinnegare se stessi e caricarsi sulle spalle la croce. Francesco d’Assisi ha preso anche queste parole alla lettera. Ha voluto morire steso sulla nuda terra allargando le braccia come il Crocifisso.

L’Europa, superata la boa del primo millennio, e le relative paure apocalittiche, con la nascita delle comunità nazionali, stava avviandosi sulla strada del progresso e del benessere economico. Che senso avevano le parole di Cristo: beati i poveri? E che senso aveva la corsa a chiudersi nei conventi? Perché tanta gioventù preferiva la sicurezza del chiostro, affidandosi alla generosità della gente? Ieri come oggi è sempre di attualità la risposta data da Gesù al giovane ricco: Se vuoi essere perfetto... E’ un consiglio, non un ordine.

La pratica della povertà evangelica, così come la intese Francesco d’Assisi, non consisteva soltanto nel non possedere beni materiali ma nell’escluderne il desiderio. Il buon frate non cavalca se non ne ha stretta necessità (da qui il detto a caval di san Francesco riferito a chi va a piedi), non acquista case e terreni perché Cristo non aveva pietra su cui posare il capo. E oggi, aggiunge papa Francesco, il prete non acquista auto di lusso e, date le esigenze della vita moderna, si accontenta di una modesta utilitaria.

Alle incalcolabili masse di poveri non si può parlare di povertà come virtù morale, o atteggiamento spirituale, perché si rischia di interessare soltanto coloro che, avendo giùà molti beni su questa terra, mirano a possedere anche quelli del regno dei cieli.

 

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