Luigi Guanella nacque e visse la sua fanciullezza in un paesino di montagna nella Valle Spluga. Diventato prete, fa il parroco in montagna sul quel versante, dove c’è la cascata dell’Acquafragia, di cui più avanti si parla. Quando arriva sulla sponda del lago di Como, è, comunque, sempre pellegrino nei luoghi desolati e isolati come rifugi di montagna, abitati da solitudine e dell’essenziale per sopravvivere come sono le case dei più poveri tra i poveri. Nel lungo racconto, a Oreste Forno, rimanere nel gregge dei credenti sembra mortificante; la fede gli offriva panorami ristretti e angusti. Pur sentendosi «pecora nera», si allontana dal gregge, desiderando vivere la sua storia da protagonista e non gregario. Egli parla della sua infanzia sino alle soglie della giovinezza e racconta che «erano i tempi degli studi tecnici in un collegio gestito da preti. Avevo diciotto anni e già cominciavo a sentirmi padrone del mondo. Non più confessioni e comunioni, nessuna presenza in chiesa, se non per qualche funerale, nemmeno più una preghiera: finite nel dimenticatoio assieme a tutto il resto, per fare posto a una vita soltanto terrena, fatta di doveri e piaceri. Oltre trent’anni di ateismo totale». A un certo punto, Dio ha avuto compassione e misericordia di quest’uomo, amante delle grandi montagne, come l’Himalaya; al suo sguardo paterno, tra le vette ghiacciate che Oreste frequentava, Dio ha mantenuto un residuo di brace ancora viva sotto la cenere dell’indifferenza. Nella sua maturità, gli è bastato un soffio leggero del vento dello Spirito per ravvivare una fiammella. Il nostro alpinista cercava di raggiungere il podio più alto del mondo riempiendo gli occhi di sempre nuove emozioni, confessa che rimesso i piedi sulle più modeste montagne di casa, si sente avvolto di una luce nuova. Scrive che «lo stupore di fronte al sublime scenario offerto da queste cime mi procurano emozioni indicibili portate da un'alba, da un tramonto, da un fiore di rara bellezza che sopravvive senza fatica in un ambiente severo, da un animale libero, da un'aquila che volteggia senza un battito d'ali tra una cima e l'altra, dal vento che trasporta i pensieri lontano. E il silenzio e la solitudine che ti porta a guardarti dentro». Fu proprio in quei momenti che Oreste Forno incominciò a guardare ancora più in alto. Colui che abita nell’alto dei cieli lo stava preparando al grande ritorno. Misteriosamente avvertì che il respiro di uomo curioso e appassionato del bello si stava sintonizzando con quello di Dio. Il padre misericordioso gli stava facendo riecheggiare nel profondo dell’anima l’eco del suo nome di battesimo. Era pronto a riprendere il colloquio interrotto trent’anni prima. L’appuntamento con Dio era fissato su una montagna abitata per anni da don Guanella, la scintilla della nuova luce era affidata alla voce di uno stuolo di suore guanelliane, anime generose che con il fuoco della loro fede riscaldano il freddo del cuore dei poveri e in questa circostanza hanno sciolto l’ultimo anello che legava la vita di Oreste Forno a un passato ormai stantio. L’appuntamento Dio lo aveva fissato una splendida mattina di luglio. Il nostro protagonista la sera doveva tenere in Valtellina una conferenza sulle sue esperienze di alpinista. Il luogo della conferenza era in un paese in tutt’altra parte della Val Chiavenna e delle Cascate dell’Acquafragia. Il protagonista di questa singolare esperienza racconta che queste cascate si erano affacciate con forza alla sua mente. Lo volevano lassù, e non aveva potuto dire di no. Fu strappato per un momento dalla strada verso la Valtellina per arrivare là a Chiavenna, «la chiave delle valli», e inoltrarsi per pochi chilometri sulla strada che porta al Canton Grigioni della Svizzera tedesca. Ora lasciamo all’autore dell’articolo - che scrive in terza persona - il momento culminante dell’esplosione di luce divina nella sua anima. «Trovarsi ai piedi del primo grande salto che cade sdoppiato dall'alto, portando l'acqua a uno straordinario tonfo che solleva una densa nube di vapore bianco: una grandissima emozione. Era stato spinto così a risalire la montagna per scoprire gli altri salti, che l'avrebbero riempito ancora di bellezza, in un susseguirsi di emozioni che erano solo il preludio a ciò che sarebbe venuto dopo. Alla scena con la quale Lui gli avrebbe fatto sentire la Sua voce. Accadde verso mezzogiorno quando, tornato al primo salto del mattino, si era ritrovato unico spettatore di un nutrito gruppo di suore in cerchio ai piedi della cascata, che lodavano il Signore con un canto. Dalle loro voci soavi e dalle braccia che si alzavano insieme verso l'alto, aveva capito che Dio era lì davanti a loro, nella bellezza di quel luogo, ed era stato in quel momento che gli era giunta la sua voce: “Se vuoi, anche tu puoi cercarmi nelle bellezze del Creato”». Illuminato dal pensiero della grazia, lo scalatore delle cime si trovò davanti la catena dei monti che fa da confine tra la Lombardia e la Svizzera e, come in un flash, sette cime si stagliarono davanti ai suoi occhi. Quelle cime però dovevano essere diverse da quelle che avevano caratterizzato la sua vita d'alpinista, fatte di una veloce "toccata e fuga" come l’Himalaya. Questa volta egli avrebbe dovuto fermarsi lassù ad aspettare, ad ascoltare, perché solo con la luce dei tramonti, la solitudine della sera, il mistero delle stelle che avrebbero vegliato su di lui la notte, l'aurora di un nuovo giorno, Dio forse gli si sarebbe rivelato in pienezza. Oreste Forno confida che la cima del Pizzo Stella fu la prima. Quella cima, con il nome di cielo, aveva illuminato le giornate degli anni infantili di Luigi Guanella. Da quelle nevi nasce il torrente Rabbiosa che lambisce la casa Guanella. Tante volte Luigi era salito su quell'ampio crinale pianeggiante, anch’esso con un nome di cielo, chiamato appunto: «Angeloga». Luogo degli angeli? Il nostro alpinista solitario, oggi di professione «custode delle dighe», dopo quattro ore di cammino finalmente poté togliersi il pesante zaino dalle spalle e appoggiarlo ai piedi di una croce fatta di tubi metallici. Una croce stranamente piegata all'indietro. Nel racconto di quella scalata solitaria ha fissato nel suo diario: «Una croce che lo attirava, che sembrava impedirgli di fermarsi. Doveva arrivare fin lì - racconta sempre in terza persona -, portare fin lì il peso della sua salita, della sua sofferenza, quando la raggiunse ha stretto forte le mani, mentre chiudeva gli occhi per ascoltare il cuore che gli chiedeva una preghiera. Finalmente nell’immensità dell’azzurro sulle labbra fiorì la preghiera del Padre Nostro». «A quelle parole ripescate in un angolo remoto della sua anima, come gocce di un’acqua benefica seguirono le Ave Maria. Pose lo zaino ai piedi della croce come per affidare a quella croce i pesi della sua vita. Fu in quel momento che accadde qualcosa d’incredibile. Come mosso da una forza estranea alla sua volontà, si ritrovò a girare lo sguardo verso la montagna che stava in alto, verso il Pizzo Groppera, su cui suo padre aveva un tempo lavorato (per la costruzione della diga in Val di Lei, ndr). Suo padre scomparso ormai da anni, che gli sorrideva da quella montagna e con un cenno del capo lo invitava a guardare in alto, dove stava il vero Padre, quello più importante». Questa esperienza intrecciata da fili di familiarità e parentela ci invita a guardare sempre con maggior fiducia il cielo da cui viene a noi l'aiuto.